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Non trattateci come sudditi

Non trattateci come sudditi

Angelo Panebianco – Corriere della Sera

È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.

Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.

Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon: i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.

Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi. Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.

C’è meno tempo

C’è meno tempo

Davide Giacalone – Libero

È tardi, è tardi”, ammoniva l’agitato coniglio bianco, in Alice nel paese delle meraviglie. Correre, muoversi, avverte il governatore della Banca d’Italia. C’è tempo, risponde il ministro dell’Economia. Intanto Maria Elena Boschi va a Cernobbio e si chiede, divertita, ma si può essere accusati d’andare troppo veloce e troppo piano allo stesso tempo? Non ha torto, infatti è un raggiro. Che ella contribuisce ad alimentare. Qui contano due cose: la direzione e il tempo di marcia. Dire di volere riscrivere lo statuto dei lavoratori per favorire sia la mobilità che la stabilità significa indicare direzioni opposte. Bloccare contratti statali e assumerne 190mila in più, sono direzioni opposte. Volere il merito e premiare le graduatorie sono cose opposte. E veniamo ai tempi, che sono una cosa seria.

Nessuno si faccia illusioni: le iniziative monetarie illustrate da Mario Draghi non aumentano il tempo a disposizione dei governi europei rimasti inerti, ma lo diminuiscono. C’è un colossale equivoco, su questo punto. Forse qualcuno pensa che il gioco funzioni come quando, nel luglio del 2012, il presidente della Banca centrale europea bloccò le speculazioni contro l’euro imbrigliandone il sintomo, ovvero la divaricazione esagerata degli spread. Lì si poteva essere beneficiati e immobili. Ora no. Ora non basta chiedere la grazia a santa Bce. Ora vale il diverso adagio: aiutati che Dio t’aiuta. E fai in fretta.

La riduzione del tasso d’interesse non ha effetti immediati sul sistema produttivo, né quel differenziale nel costo del denaro risulterà decisivo (si tenga presente che con il tasso Bce allo 0,15% i tassi reali, pagati dal sistema produttivo, oscillavano dal 4 al 9%). In quanto all’effetto riduttivo del cambio, avvantaggiandoci sul dollaro, ha effetti sicuramente positivi per le esportazioni, ma queste, importantissime, riguardano solo un pezzo del nostro mercato. Si avvantaggiano di più i tedeschi, se la mettiamo su questo piano. Iniziative come Tltro (rifinanziamento a lungo termine), ora targhettizzato sul sistema produttivo, non portano automaticamente i soldi dalle banche alle imprese. Non sono vasi immediatamente comunicanti. Serve che ci siano imprese intenzionate a chiedere credito per crescere ed espandersi, non solo per salvarsi e galleggiare. Tltro non sfiora i problemi di chi ha chiuso o si è trasferito. O si accinge a farlo. Se le aziende non assumono e licenziano non è solo perché il credito scarseggia, ma anche perché il fisco e la burocrazia abbondano e straripano. Gli stimoli monetari sono utili, ma da soli non producono effetti ragguardevoli. È un po’ come dare il Viagra a un paziente anestetizzato: se ne può anche (forse) propiziare la turgidezza, ma non ne può trarre alcun dinamico utile.

Il bello è che, tanto a Jackson Hole quanto nella conferenza stampa di Francoforte, Draghi lo ha detto e ripetuto chiaro e tondo: provo a fare la mia parte, ma senza riforme che fluidifichino i sistemi produttivi e li adeguino alla realtà della globalizzazione (le riforme definite “strutturali”, con una formula che più la si ripete e meno significa) e senza pulizia dei bilanci pubblici, non servirà a nulla. A questa evidenza dobbiamo aggiungere una postilla: la Bce parla dell’euroarea, giustamente, ma non sta scritto da nessuna parte che si muoverà tutta in modo omogeneo, anzi, sappiamo per certo che è avvenuto e avverrà il contrario. Questo significa che le iniziative Bce porteranno giovamento maggiore a chi si è mosso, minore a chi si muove in ritardo, nessuno a chi resta fermo. Possono anche mettere la stessa camicia, ma mentre il francese Manuel Valls (buttando fuori un ministro dell’economia che diceva di ispirarsi a Matteo Renzi) ha varato tagli per 50 miliardi, qui si cincischia su 20. Se continuiamo a parlare senza costrutto e senza concretezza, se continuiamo a biascicare gnagnere come “riforma degli ammortizzatori sociali” o “premio al merito”, “semplificazione” o “velocizzazione”, senza né dire che cosa significano, nello specifico, cosa comportano e come si ottengono, il solo effetto sarà l’aumento della distanza relativa fra l’Italia e gli europei che hanno capito.

A ciò aggiungete il peso e il costo del debito pubblico e avrete un risultato impressionante. La disputa sui tempi è surreale, se letta con i cronometri delle sceneggiate interne, mentre è decisiva se misurata con quelli delle opportunità da cogliere. La Bce ha prima conquistato e comprato tempo, favorendo anche chi era al volante ma faceva brum-brum con la bocca, ora passa a distribuir carburante, sicché i piloti immaginari resteranno al palo, mentre altri correranno altrove.

Casa, tassati e maltrattati

Casa, tassati e maltrattati

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Benjamin Franklin, inventore del parafulmine e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, considerava le tasse come una delle due cose inesorabili della vita. Da noi, quando si parla di tasse, c’è una terza cosa a cui sembra quasi impossibile sottrarsi: la complicazione per pagarle. I cittadini (non i sudditi, come spesso sono considerati) avrebbero sempre il diritto di sapere l’entità delle imposte da versare. E di conoscere questo dato in tempo sufficiente per poter programmare come distribuire i propri redditi tra i consumi, il risparmio, il rispetto dei doveri verso lo Stato e i Comuni.

Nel caso delle imposte sulla casa di questa pratica, che dovrebbe essere di ordinaria amministrazione in un Paese con rapporti equilibrati tra Fisco e cittadini-contribuenti, sembriamo essercene dimenticati. È successo per l’Imu nel 2012 e nel 2013. È successo per la Tasi – la tassa sui servizi comunali alla collettività nel suo insieme – nell’estate scorsa e sta succedendo anche adesso, alla vigilia dell’autunno. E se tre indizi fanno una prova come diceva Agatha Christie… A meno di un mese dalla scadenza, 3.100 Comuni su oltre 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota della nuova tassa dovuta dai proprietari immobiliari e, in qualche caso, dagli inquilini. La scadenza per decidere è fissata per domani, mentre la delibera comunale dovrà essere pubblicata sul sito del ministero delle Finanze entro il 18 settembre. Se la delibera viene pubblicata in tempo utile, la prima rata della Tasi andrà versata entro il 16 ottobre (e il saldo a dicembre). Se il Comune non fa in tempo, allora i cittadini interessati dovranno passare alla cassa direttamente a dicembre e pagheranno le aliquote standard e la Tasi in unica soluzione. Ma non è finita. Perché alcuni sindaci, virtuosi, avevano già chiuso la pratica Tasi a maggio e hanno già incassato la prima rata a giugno (a dicembre incamereranno la seconda). Insomma un ginepraio di regole e di scadenze che finisce per disorientare. Un’incertezza tributaria che frena i consumi e fa aumentare il risparmio improduttivo. Per non parlare, poi, della difficoltà di reperire, sul sito delle Finanze, l’aliquota Tasi, considerato il tono burocratico delle delibere. E la loro mole. Quella del Comune di Milano, relativa a tutte le tasse locali, è di 63 pagine.

Certo anche per i Comuni, alle prese con difficoltà di bilancio, non dev’essere stato facile impostare la politica fiscale, stabilire quali categorie esentare o quali detrazioni immaginare, ma i cittadini non si meritano di dover vivere in una simile Babele delle imposte in versione federal-comunale. Altro che bollettini precompilati, come promesso. Si è sempre sostenuto che, avvicinando le tasse e gli enti impositori ai cittadini, le cose sarebbero migliorate e la trasparenza complessiva sarebbe aumentata. Purtroppo non sembra sia andata così, almeno finora.

Complicato anche fare i confronti tra Tasi e Imu. E rispondere alla domanda che interessa tutti: pagherò di più? La sensazione è che la Tasi finirà per essere una tassa regressiva: inciderà, in proporzione, di più sugli immobili di minor valore e sulle famiglie con i redditi più bassi perché le detrazioni non sono paragonabili a quelle in vigore con l’Imu. La tassa regressiva, probabilmente, neanche l’eccelsa mente di Franklin sarebbe riuscito a inventarla.

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Daniele Manca – Corriere Economia

L’Italia ha una grande fortuna. Si chiama risparmio. Per Kenneth Rogoff, uno dei maggiori studiosi al mondo di debiti sovrani, che lo raccontava al Corriere lo scorso sabato, è il motivo che rende più sopportabile e gestibile persino l’enorme indebitamento pubblico del Paese. Le famiglie non hanno perso la propensione a mettere da parte e a investire i propri soldi. E quando è accaduto, è stato solo perché la crisi o le tasse glielo hanno imposto. Ma anche in questi difficili momenti, l’atteggiamento non è cambiato.

Secondo Assogestioni nei primi sei mesi di quest’anno ai fondi sono arrivati circa 60 miliardi: la stessa cifra dell’intero 2013. Anche la consueta indagine della Coop sul consumi nota questa aumentata propensione al risparmio (per chi può permetterselo). Il segnale ha sicuramente un aspetto positivo che è quello di continuare a far affluire denaro (soprattutto attraverso una gestione professionale) al sistema economico. L’elemento che impensierisce è che questo risparmio contenga in sé la preoccupazione per il futuro. Che si tratti cioè di denaro accantonato per costituirsi delle riserve per fare fronte o a maggiori tasse o a maggiori spese dovute al cattivo stato dei conti pubblici. In poche parole un paracadute della paura.

Con le mosse e le dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Bce, c’è in Europa chi sta lavorando per rafforzare la ripresa fragile del Vecchio Continente. E allora da che cosa nascono queste preoccupazioni? Si sa che le aspettative di famiglie e imprese giocano un ruolo decisivo nell’andamento di un Paese. Se il quadro politico e incerto, se le riforme delle quali si parla stentano a decollare, se l’attività economica viene continuamente ostacolata e non agevolata, se crescita e sviluppo non sono la prima priorità, è difficile che le aspettative diventino positive.

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Un’occhiata all’indietro dà l’idea della strada che ci siamo lasciati alle spalle. Se le privatizzazioni di cui si parla oggi fossero state fatte prima della crisi finanziaria, sarebbe andata come segue: dalla vendita del 5% dell’Eni lo Stato avrebbe ricavato circa cinque miliardi di allora, cioè in termini reali tenuto conto dell’inflazione – più di quando si spera di raccogliere oggi vendendo il 5% sia di Eni stessa che di Enel. E una cessione di una quota del genere della società elettrica avrebbe prodotto due miliardi in più. Se non altro, forse la crisi del debito avrebbe agguantato l’Italia più tardi e sarebbe durata meno. Com’è noto la storia non si fa con i «se», neanche quella finanziaria. Ma guardare da dove veniamo, stimare l’enorme perdita di valore delle imprese a controllo pubblico in questi anni (esempio: nel 2006 Finmeccanica valeva il doppio di oggi) può aiutare ad affrontare il bivio al quale siamo di fronte. Vero è che il messaggio contenuto nelle occasioni perdute del passato resta ambivalente. Può dare ragione a Pier Carlo Padoan, quando il ministro dell’Economia sostiene che bisogna andare avanti senza soste con le cessioni di società e beni pubblici per arginare il debito. Ma può rafforzare anche la posizione di Matteo Renzi, che vuole prima far crescere il valore delle imprese ai livelli di quale anno fa e solo dopo venderne le quote. L’impressione è che per ora il premier abbia stoppato il proprio ministro più autorevole, proprio quando questi pensava di avere già il suo via libera.

Questa settimana i due continueranno a parlarne. Padoan dirà a Renzi che i ricavi da privatizzazioni di Eni e Enel, gli unici possibili in tempi brevi, servono quest’anno per non far saltare le metriche di contenimento del debito. Insisterà perché il piano non slitti. Probabilmente prospetterà al premier un compromesso: fra le banche d’affari di Londra c’è già la fila per proporre al governo varie tecniche di ingegneria finanziaria in modo da portare al Tesoro gli incassi da cessioni subito (come vuole Padoan) ma vendere le quote dopo (come dice Renzi). Si può lavorare con dei bond convertibili in azioni dei due grandi gruppi. Si può effettuare una vendita a termine. Di certo, sono tutti sistemi con i quali i banchieri della City incaricati dell’operazione finirebbero per guadagnare due volte a spese del contribuente: ricche commissioni al primo passaggio, quello dell’anticipo di cassa, e poi al secondo con la vendita vera e propria delle quote. Si può dunque essere scusati se si viene assaliti da un sospetto: quando le situazioni diventano così ingarbugliate, è perché nel Paese resta un’ambiguità di fondo. Non si è mai fatta chiarezza sull’uso migliore del patrimonio pubblico o sulla presenza dello Stato nei soli grandi gruppi rimasti. Non si riesce a decidere se la vogliamo o no, e perché. Si va avanti a fari spenti, un po’ a tentoni: il modo migliore per restare incagliati.  

Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In inglese si dice red herring. In italiano specchietto per le allodole. Questi paiono essere i lineamenti di riforma della scuola presentati al fine di un doveroso, prima che meritorio, débat publique dal governo Renzi. In primo luogo, tutti pensiamo di intenderci di scuola perché o come studenti, o come insegnanti, o come genitori abbiamo esperienza almeno della scuola d’obbligo. Quindi, un débat non può non essere acceso. E celare le difficoltà di predisporre una legge di stabilità che non vuole scontentare parte dell’elettorato tradizionale di un governo in gran misura composto da ex-sindaci (ad esempio, utilizzando la scure nei confronti del capitalismo municipale), ricorrendo a tagli lineari di profumo tremontiano ed al blocco dei salari del pubblico impiego. Un acceso – anche meglio se infuocato – dibattito sulla scuola può distrarre da questi difficili temi. In secondo luogo, i lineamenti di riforma sono tali da suscitare seri dubbi. Ho trattato di questa materia per diversi anni dirigendo una divisione specifica in Banca mondiale e collaborando con il rapporto mondiale dell’Unesco sull’istruzione (nonché scrivendo un paio di libri in materia); penso, quindi, di avere titolo di entrare nel merito.
I due problemi sono simmetrici. Vediamo, prima, perché il governo può ancora ricorrere (il disegno di legge di stabilità è atteso tra più di un mese) a una strumentazione migliore dei tagli lineari e del blocco agli stipendi e, poi, le insufficienze dei lineamenti sulla buona scuola.
Sotto il primo profilo, il governo dispone di un documento (purtroppo è stato deciso di non renderlo pubblico) di un Commissario alla revisione della spesa (Carlo Cottarelli, ndr) che ha individuato puntualmente 15-20 miliardi di spese non necessarie specialmente nel “socialismo regionale, provinciale e municipale” e negli enti (strumentali e di ricerca) dei ministeri. E’ un ampio campo su cui operare, sulla base di cifre certe e di valutazioni precise, ed è questo il campo dove trovare le risorse per far quadrare i conti della spesa di parte corrente ed avere spazi per rilanciare gli investimenti. Ove ciò non bastasse, nuove metodologie di valutazione della spesa sono state varate dal Cnel nel 2012 ed hanno avuto il consenso dei maggiori ministeri nonché delle istituzioni finanziarie internazionali.
Purtroppo esponenti della Cgil al Cnel hanno chiesto che il lavoro non venisse proseguito; sta alla segreteria della Cgil chiedere ai suoi nominati spiegazioni in proposito, anche in quanto l’opposizione della Cgil al lavoro sulla qualità della spesa pone la confederazione in una situazione almeno imbarazzante nelle discussioni sulla legge di stabilità. Sulla base del lavoro Cnel ed in collaborazione con gli enti di ricerca di alcune regioni, l’Uval (Unità di Valutazione), ora operante nell’agenzia per la coesione territoriale (quindi in seno alla stessa presidenza del Consiglio) ha completato in luglio un aggiornato buon manuale della valutazione della spesa per ora disponibile (anche al presidente del Consiglio) su supporto telematico (è in corso l’approntamento dell’edizione a stampa).
Quindi, esiste la strumentazione per affrontare la riduzione della spesa distinguendo tra quella “socialmente produttiva” (nel lessico dell’economia del benessere) a quella “socialmente improduttiva”, senza ricorrere a tagli e blocchi lineari, a red herring e a specchietti per le allodole come paiono essere i lineamenti per labuona scuola. 
Veniamo ai punti principali, riservandoci di esaminare gli altri man mano che il débat proseguirà.
a) Stabilizzazione dei precari. Le statistiche Ocse ed Unesco dimostrano che, in rapporto agli allievi, abbiamo il numero di insegnanti maggiore al mondo. Per arrivare alla media europea si potrebbe fare a meno di circa 50mila precari. Ciò che conta, soprattutto, è la qualità degli insegnanti. Occorre non ripetere l’errore del decreto Misasi del 1972 che stabilizzò ope legis tutti gli assistenti ed i docenti incaricati nelle università della Repubblica, dando un colpo mortale agli atenei pubblici italiani, quasi tutti al di fuori della statistiche sulle 150 migliori università mondiali, ed incoraggiando la nascita di quelle private. Quindi, per il bene dei nostri figli e nipoti occorre coniugare “stabilizzazione” con “selezione”. Ciò comporta procedure (concorsi) e tempi lunghi. Ciò implica anche tenere adeguante conto dell’apporto che possono dare le scuole paritarie, ignorate o quasi nei lineamenti per la buona scuola.
b) Modernizzazione dei programmi. Non si può non essere d’accordo con la modernizzazione dei programmi per le scuole “generaliste” e con un sistema duale di alternanza con il lavoro per l’istruzione tecnica, commerciale, industriale, agraria, turistica e via discorrendo. Ciò comporta però, per ragioni d’efficienza e economicità, istituti scolastici di almeno 400 allievi od un sistema di rotazione dei docenti in varie scuole. Inoltre, sono essenziali aule specializzate ed un sistema (consueto in molti Paesi ma raro in Italia) in cui gli studenti si spostano da aula ad aula a seconda della materia, mettendo fine al nesso tra classe (gruppo di studenti) ed aula. A sua volta, ciò richiede presidi o direttori addestrati in questo campo. Ciò comporta forte spesa pubblica in edilizia scolastica e formazione. I lineamenti non ne fanno alcun cenno.
c) Rendimenti dei livelli e tipologia di istruzione. Sono anni che non vengono effettuati studi sui rendimenti dei vari livelli e delle varie tipologie d’istruzione (ne feci uno con George Pscharopoulos nel lontano 1984 ma ora non presenta più alcuna utilità). Sono necessari per orientare studenti a scegliere in funzione delle opportunità del mercato del lavoro. Ma in questa materia, i lineamenti sono muti e silenti.
Attrattività, l’Italia resta in coda

Attrattività, l’Italia resta in coda

Enrico Netti – Il Sole 24 Ore

Regno Unito, Germania e Francia saldamente sul podio dei Paesi che riescono ad attirare il maggio numero di investitori esteri. L’Italia resta nella parte bassa della classifica, preceduta da Spagna e Olanda. Il nostro Paese, la seconda potenza manifatturiera del continente, soffre di un deficit di attrattività e non regge il confronto con quanto offrono altre nazioni altrettanto provate dalla crisi come quelle della penisola iberica, ma che hanno già imboccato la via delle riforme. In Italia, dal luglio 2009 al luglio 2014, gli investitori esteri hanno avviato 583 progetti greenfield, che hanno portato alla creazione di poco più di 4.700 posti di lavoro. Il tutto ha richiesto finanziamenti per 7 miliardi di dollari. È quanto emerge dal report «fDi Markets» sui trend degli investimenti esteri. Sono stati analizzati oltre 15mila progetti effettuati in 21 nazioni: una partita da 146,2 miliardi di dollari di investimenti, che hanno portato alla creazione di quasi 288mila nuovi posti di lavoro.

La lunga crisi ha ridotto lo stock di investitori che guardano all’Europa occidentale e dopo i picchi del 2011 il trend ha imboccato la parabola discendente. «Negli ultimi anni l`Europa vede un calo degli Fdi – commenta Courtney Fingar, editor-in-chief di “fDi Magazine” e responsabile dei contenuti di fDi Intelligence, divisione del Financial Times -. L’Italia ha diverse criticità con gli investitori esteri, esasperati dai problemi economici, da una certa confusione nella strategia di promozione e dalla mancanza di coordinamento tra i diversi enti pubblici che affermano di avere un mandato per la promozione del Paese». Per l’Italia il bilancio poteva essere ben diverso con la realizzazione di un solo progetto in più: quello del rigassificatore di Brindisi, grande infrastruttura che avrebbe portato alla creazione di un migliaio di posti di lavoro e oltre un miliardo di dollari di investimenti. Dopo undici anni di “difficoltà” e una spesa di oltre 250 milioni British Gasnel 2012 ha gettato la spugna.

Chi decide di investire in Italia punta ai servizi per le imprese con l’obiettivo di presidiare il mercato. Tra i settori spicca quello delle tlc, su cui si sono riversati oltre 2 miliardi di dollari di investimenti, mentre il comparto trasporti e logistica ha creato il maggior numero di nuovi posti (650) e precede le tlc (300) e l’elettronica. La top ten delle multinazionali che hanno varato progetti vede nomi come Fed Ex, Vodafone, Ceva, Amazon, oltre al gruppo filippino Itkc e colossi dell’energia come Rwe ed Électricité de France. «Segnano il passo i grandi progetti greenfield nell’energia e nelle infrastrutture, ovvero quelli di cui il Paese ha assoluto bisogno, mentre vanno meglio gli investimenti in acquisizioni – osserva Donato Iacovone, a.d. di EY Italia -. Servono riforme, e più che le idee ciò che è veramente mancato è stato il coraggio di attuarle. Lo stesso coraggio che oggi l’Europa si aspetta per riconoscere credibilità al decreto “sblocca Italia”». Aggiunge Fingar: «Il governo Renzi ha annunciato alcuni cambiamenti, ma le implicazioni restano per il momento poco chiare».

Non c’è solo un deticit di attrattività, ma anche di competitività. A dirlo è la classifica del World economic forum (Wef) che per il secondo anno consecutivo mette l’Italia al 49° posto. Ci precedono Spagna, Portogallo, le repubbliche del Baltico e Malta. Come fermare il declino? Una possibile cura la suggerisce Francesco Saviozzi, direttore del Master in Imprenditorialità e strategia aziendale della Sda Bocconi, che insieme a Paola Dubini ha curato la parte italiana della ricerca del Wef. «Si dovrebbe trarre ispirazione dal pacchetto di semplificazioni e agevolazioni varato per le startup che dimostra che si possono creare condizioni attrattive per fare impresa – spiega Saviozzi -. Si deve soprattutto fare in fretta per dimostrare all’estero che si riesce a supportare veramente le imprese». I settori da valorizzare sono quelli delle scienze della vita, il biotech e il digitale con pacchetti di norme ad hoc e creando i presupposti per far ritornare i talenti fuggiti all’estero.

«È necessaria anche una vera e seria strategia per attirare gli investitori, con un modello proattivo e coordinato – conclude Fingar -. Sono molti i punti di attrattività offerti dall’Italia, dalle scienze alle tecnologie, senza dimenticare le Pmi con i loro elevati livelli di competenze. Ma questi plus non vengono ottimizzati e comunicati al meglio ai mercati internazionali».

Una finanza locale in cortocircuito

Una finanza locale in cortocircuito

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tormentone della Tasi si avvicina all’ennesima (ma non ultima) scadenza confermando e, anzi, rendendo ancor più evidenti i timori sull’effettivo peso del nuovo tributo sui servizi indivisibili dei Comuni. Le delibere, almeno quelle già approvate in oltre 4mila città (per le scelte sulla Tasi c’è tempo ancora fino a mercoledì), dimostrano senza ombra di dubbio che i sindaci continuano a considerare l’imposizione immobiliare come la via più semplice, anche se affatto indolore per i cittadini-proprietari, per far quadrare bilanci che da anni scontano pesanti tagli ai trasferimenti statali, regole più rigide sul Patto di stabilità interno, nuovi vincoli dettati dalla spending review.

Se è vero, come ricorda spesso Piero Fassino, presidente dell’Anci, che i Comuni tra il 2008 e il 2013 hanno avuto una riduzione di risorse pari a 17 miliardi, tra minori trasferimenti e «contributi al Patto di stabilità interno», allora non è difficile cogliere il senso delle scelte con cui molte città si sono misurate o si stanno misurando. A ciò va aggiunto che la spesa dei municipi – pur con un andamento più virtuoso rispetto a quello di altre amministrazioni – non ha davvero invertito la direzione di marcia: secondo i dati del Siope (uscite per cassa), nel 2013 le spese correnti hanno toccato i 55 miliardi, contro i 48 del 2008, mentre le spese in conto capitale sono scese l’anno scorso a 13 miliardi dai 20 del 2008. Le spese correnti tra il 2008 e il 2013 sono quindi cresciute del 14,5% rispetto a un’inflazione nel periodo dell’11 per cento. Certo, non va scordato che le uscite dei Comuni scontano nel 2013 l’effetto positivo dei piani per i pagamenti dei debiti alle imprese, ma non tutto il differenziale è (purtroppo) finito in quella direzione.

La combinazione di questi fattori spiega – ma non giustifica – il perché di un ricorso così spregiudicato all’utilizzo della leva tributaria. L’anno scorso i sindaci hanno incassato solo per Imu e addizionale Irpef quasi 20 miliardi (rispettivamente, 15,7 e 3,9), ai quali vanno aggiunti i 4,5 ottenuti dallo Stato come “rimborso” per l’Imu non pagata sulla prima casa. Nel 2008 si era ben distanti: 12,6 miliardi tra Ici e addizionale Irpef, più 3,3 di rimborsi Ici prima casa.

Viste le cifre in gioco, l’equazione è presto scritta: meno finanziamenti dallo Stato, spesa difficilmente contenibile, uguale pressione fiscale ai livelli massimi. Anzi, vien da pensare che quest’ultima finisca per diventare la “variabile dipendente”, determinata meccanicamente dall’andamento delle altre due voci. Ed è questa la spirale viziosa che va spezzata. Il rischio che a una riduzione dei trasferimenti e a maggiori vincoli sul Patto di stabilità i Comuni facessero fronte non con politiche di contenimento della spesa ma agendo sull’aumento delle tasse non era così imprevedibile (e anzi era stato ampiamente previsto).

La verità è che è giunto il momento di guardare avanti e uscire dalla vecchia disputa su chi pesa di più tra Imu e Tasi. C’è un sistema di prelievo sugli immobili da ripensare, cogliendo l’occasione della riforma del Catasto, che è importante ma che da sola non rimetterà tutto a posto ed eliminerà solo in parte le storture del prelievo attuale. Allo stesso modo, occorre immaginare meccanismi in grado di correggere la logica per cui lo Stato taglia e riduce, ma scarica sugli enti la responsabilità di trovare nuove risorse, cosa che i sindaci fanno puntualmente agendo sulle tasse. Serve, cioè, un progetto organico di finanza locale, non estemporaneo, capace di definire con chiarezza i rapporti tra centro e periferia. Ma capace anche di incidere realmente sulla spending review, di agire sugli sprechi e di restituire efficienza agli enti locali.

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

La Stampa

Loro cercano di mettercela tutta, rendendosi disponibili anche al lavoro manuale, ma la fiducia nel futuro è davvero scarsa, tanto da portarli a guardare all’estero come ultima spiaggia. Effetto mediatico e percezioni distorte? No, è un campanello d`allarme che forse non vogliamo sentire: solo il 10% delle ragazze e il 15% dei ragazzi italiani ritiene di avere in patria adeguate occasioni di impiego e cerca di reagire con pragmatismo e adattabilità a un avvenire ritenuto cupo.

Sono questi i risultati che si possono leggere nel Rapporto Giovani, curato dall’Istituto Toniolo in collaborazione con Ipsos e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, che da tempo esplora la galassia dei «millennials››. L’indagine è stata condotta su un campione di 1727 giovani di eta tra i 19 e i 30 anni. Oltre l’80% degli intervistati si dichiara pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, tre su quattro ambirebbero a un’attività in cui poter esprimere la propria creatività, senza badare troppo alla coerenza con i titoli di studio. L’85% dei maschi e il 90% delle femmine ritengono che l’Italia non offra possibilità di trovare lavoro ad un giovane con la preparazione posseduta e pensano di andare all’estero.

Di chi è la colpa? La crisi c’entra, ma non è l’unico motivo. Per il 30% il problema sono i limiti strutturali del mercato che dà poche occasioni, bassa qualità e contratti brevi e precari. In secondo luogo viene la situazione economica complessiva, al terzo posto la «preferenza data ai raccomandati», al quarto la «minore esperienza» (15,4%). Solo un intervistato su cento ritiene che i giovani rifiutino alcuni lavori. Per questo i giovani guardano anche al lavoro manuale, ma ad alcune condizioni: stipendio adeguato, lavoro creativo e flessibilità dell’orario. E nella classifica dei lavori preferiti compaiono quelli per le giovani generazioni oggi più facili da trovare, ma che sono di bassa qualità. Pochissimi consiglierebbero ad un amico di fare il telefonista di call center (35%), l’operatore di fast food (42%), o il distributore di volantini (15%).

E che cosa ne sanno i giovani del provvedimento governativo a loro dedicato partito a maggio? Poco o niente e rivelano una bassa fiducia sull’impatto generale che la misura potrà avere. Sulla Garanzia giovani, infatti, il 45% dichiara di non saperne nulla e il 35% di averne sentito vagamente parlare. Meno di un giovane su cinque la conosce abbastanza bene (14%) o molto bene (5%). Anche tra i «Neet», i giovani che non studiano e non lavorano e che rappresentano il target principale del provvedimento, la percentuale di chi la conosce abbastanza o molto bene risulta molto bassa (attorno al 22%). Riguardo agli effetti solo il 37% pensa che migliorerà molto o abbastanza il rapporto dei giovani con il mercato del lavoro. Prevalgono gli scettici con un 54% che afferma che cambierà poco o nulla. I meno convinti sono proprio i «Neet», per i quali la sfiducia sale al 58%.

«I giovani – afferma Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani – sono stanchi di promesse e annunci: vogliono solo fatti. Senza risposte credibili e concrete il rischio è quello di alimentare sfiducia, frustrazione e fuga verso l’estero. Preoccupa che l’80% concordi con chi pensa che per migliorare davvero la propria condizione, più che sperare nella Garanzia giovani, la scelta migliore sia quella di andare all’estero».

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Al netto delle pensioni e degli interessi, la spesa pubblica ha iniziato a diminuire da noi nel 2011, con un calo che è stato però la metà di quello della Spagna e un terzo dell’Irlanda e del Portogallo. In Spagna sono state tagliate persino le tredicesime, in Grecia si è fatto molto peggio. Quindi dire, come fa Renzi, che nella pubblica amministrazione italiana “c’è troppo grasso che cola”, non è sbagliato. Anzi è corretto. Quindi il ricorso ai possibili tagli e al blocco degli stipendi è senz’altro una misura spiacevole ma giusta. Certo, si tratta di capire dove tagli e dove blocchi. Sarebbe un’azione molto positiva dare una robusta sforbiciata agli stipendi dei tanti politici (a tutti i livelli) che con la politica hanno trovato il paese della cuccagna e un posto di lavoro quando fare politica non dovrebbe essere una professione. Sarebbe invece una carognata bloccare lo stipendio a un poliziotto che prende 1.400 euro al mese e rischia ogni giorno la vita mentre potrebbe essere una soluzione positiva l’accorpare in qualche modo i 5-6 (ma quanti sono?) corpi di polizia.

In questa battaglia contro gli sprechi e la spesa pubblica, il pié veloce Renzi si è mosso in ritardo. Ha sbagliato cioè i tempi di intervento dopo avere avuto vari mesi per identificare nella spending review di Cottarelli i tagli che avrebbe dovuto fare ma non ha fatto. E solo di fronte al bisogno di trovare 20 miliardi in seguito ai calcoli sbagliati dei tecnici del suo governo, ha deciso il blocco degli stipendi della PA (ma nello stesso tempo l’annuncio di migliaia di assunzioni nella scuola per il prossimo anno, tutto da verificare) e i tagli lineari nei vari capitoli di spesa dei ministeri sulla scia di quanto fatto da qualche suo predecessore. Sbagliando un ‘altra volta perché il blocco dei contratti abbinato al blocco del turnover, rischia di rendere ancora meno motivato chi lavora nel settore.

Renzi ha commesso anche un altro errore. Nella sua strategia va avanti a muso duro, come un panzer, quando la tattica dovrebbe suggerirgli un po’ di buon senso: non può ignorare del tutto le parti sociali, i sindacati, che infatti sono già sul piede di guerra. E qui s’innesca un altro errore, questa volta dei sindacati che non possono più difendere l’indifendibile ma possono invece essere propositivi e fare pressing perché si aumenti la qualità del lavoro, si eliminino gli sprechi, si cambino norme vecchie, si puniscano gli illeciti. Sarebbe per il sindacato darsi quel nuovo ruolo che finora è mancato.