About

Posts by :

Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?

Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

In un colloquio pubblicato dal “Foglio” il sindaco di Firenze, Dario Nardella, coglie un punto centrale del “renzismo” oggi: la necessità di scegliere fra consenso popolare ed efficacia del progetto riformatore. Nardella ricorda il ben noto caso Schroeder, il cancelliere socialdemocratico tedesco che negli anni Novanta trasformò la Germania e venne poi sconfitto alle elezioni. Come dire che un leader deve mettere in conto il rischio dell’impopolarità se davvero vuole lasciare il segno nella storia.

Qui è quasi d’obbligo la citazione di una celebre frase di De Gasperi: «Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». E a cosa pensa Matteo Renzi: ai voti da prendere o al paese da salvare? L’impressione è che il presidente del Consiglio abbia privilegiato a lungo gli elettori, ma che adesso sia tentato di imboccare la strada che potrebbe fare di lui uno statista. Tuttavia è incerto. Davanti a lui si divarica il bivio cruciale senza che sia emersa nella sua mente una decisione chiara su quale dei due sentieri imboccare. Lo scenario dei mille giorni evoca un lungo cammino che implica una plausibile perdita di popolarità. Il ricorso ai consueti fuochi artificiali mediatici indica la volontà di non perdere contatto con l’elettorato del 41%.

In altri termini la tentazione di tenere insieme i due corni del dilemma (il consenso e le riforme) è ancora molto forte per il premier. Forse la speranza segreta è di riuscirci attraverso qualche gioco di prestigio verbale, in attesa che un po’ di fortuna e qualche circostanza favorevole spinga la carovana italiana fuori dalla stagnazione economica. Al tempo stesso Renzi si rende conto che la sua missione potrebbe essere quella di spezzare le ingessature che imprigionano il paese anche a costo di compromettere un destino personale (e per lui non ci sarebbe nemmeno un contratto d’oro con Gazprom, come fu per il suo omologo tedesco).

L’esperimento politico più innovativo degli ultimi anni vive ormai di questa ambiguità che presto dovrà essere sciolta. Del resto, l’immagine del presidente del Consiglio che tira dritto per la sua strada è compatibile con emtrambe le ipotesi. Il nemico dell'”establishment”, l’uomo che non va nemmeno al convegno di Cernobbio perché preferisce stare a Roma a lavorare, l’avversario degli interessi organizzati è in grado di incarnare le due parti principali della commedia. Può diventare il leader che si affida direttamente al popolo saltando tutte le mediazioni e preparandosi – appena possibile – a raccogliere il plebiscito elettorale. Ovvero può trasformarsi nel premier che sacrifica se stesso guidando il paese verso le più radicali e dolorose riforme. Difficile sapere oggi quale sarà l’esito finale di un tormento che è visibile nei provvedimenti che il governo sta varando.

Si promettono tagli di spesa per 15 miliardi nel 2015, ma si confermano i 10 miliardi per garantire gli 80 euro a una vasta platea elettorale. Si lancia la riforma della scuola in nome del merito, ma il dato concreto riguarda l’assunzione di 150mila precari, mentre al tempo stesso si bloccano gli stipendi degli statali. Insomma, la direzione di marcia non è ancora chiara. Renzi non vuole essere la versione italiana della Thatcher (lo ha già detto più volte), ma potrebbe decidere di rappresentare la replica mediterranea di Schroeder. Vincitore per la storia ma sconfitto sul piano del consenso.

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.

La grande gelata sui consumi

La grande gelata sui consumi

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore 

Sette anni di crisi hanno eroso il reddito pro capite disponibile di 2.700 euro e le famiglie hanno reagito tagliando la spesa per consumi di 100 miliardi: la grande crisi dei consumi in Italia ruota intorno a questi due dati, con ricadute negative sulle abitudini di acquisto e sugli stili di vita: è quanto emerge dal Rapporto Coop 2014 “Consumi e distribuzione” presentato ieri a Milano dai vertici della catena distributiva leader.

«La crisi è stata profonda ma era impensabile che non avesse una fine – sostiene Marco Pedroni, presidente di Coop Italia -. Crediamo invece che nel 2015 possa esserci la svolta, a patto però che si operi per il sostegno alla domanda interna con provvedimenti a favore delle classi più deboli, con investimenti strutturali di ammodernamento del Paese e con politiche di riattivazione del credito alle imprese». Perché gli 80 euro del bonus Irpef non sono passati dalle casse del supermercato? «Sono stati molto utili – ammette Pedroni – senza il bonus sarebbe stato peggio, ma non poteva da solo invertire il trend. Sugli scontrini gli 80 euro non si sono visti per il semplice fatto che la propensione al risparmio degli italiani è molto forte: nel biennio 2013/14 è cresciuta, con il 41% degli italiani che ha destinato il denaro disponibile al risparmio».

Nel Rapporto Coop 2014 si evidenzia che i consumi delle famiglie sono scivolati dai circa 900 miliardi del 2007 agli 800 di quest’anno. «La crisi ci ha tolto 100 miliardi di spesa per consumi – sottolinea Albino Russo, direttore dell’ufficio studi Coop -. Anche se ora, dopo 13 trimestri di contrazione della spesa alimentare, la caduta si è arrestata. Rimangono però i danni: oggi la famiglia media italiana spende il 20% in meno di quella tedesca». Rimane una situazione di estrema debolezza: nel primo semestre del 2014 le vendite sono calate dello 0,3% sia a valore che a volume. A livello disaggregato a fronte del -1/-1,5% del Centro Nord c’è il -3,1% del Sud.

Il calo della spesa ha avuto ripercussioni anche sulle reti commerciali. «Per la prima volta nella sua storia – sottolinea Pedroni – la grande distribuzione alimentare ha fatto segnare la prima riduzione dell’area di vendita: -0,2% e nel 2014 subirà una contrazione più consistente. In crescita solo discount e superstore, ma, a parità di rete, persino i discount mostrano i primi segnali di difficoltà delle vendite». Poi il presidente del gigante della distribuzione (12,7 miliardi di ricavi e 1.200 negozi) cita anche uno studio Mediobanca da cui emerge che nel 2013 la redditività della distribuzione (risultato d’esercizio/capitale netto) è precipitata al -0,5% mentre l’industria ha spuntato un 7,7%. La gdo ha problemi di efficienza? «No – risponde Pedroni – la differenza sta nel -6,1% tra prezzi al dettaglio e all’industria nel primo semestre, anche se ammetto per Coop errori nella proposta commerciale: nel 2015 però sarà molto più innovativa». E il nuovo modello gestionale e organizzativo della galassia Coop (vedi Il Sole 24 Ore del 10 luglio 2013)? «Stiamo unificando ruoli e strategie commerciali – replica il top manager – Dopo il food, l’ortofrutta e le carni siamo passati al capitolo del non food. Siamo fiduciosi». Dopo lo stop dell’Antitrust a Centrale italiana qual è il piano B? «Il suo ruolo si era esaurito – risponde Pedroni – ora lavoriamo su un progetto di centrale europea».

Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

Giuseppe Pennisi – I tagli di Renzi sono differenti dai tagli di Tremonti?

Giuseppe Pennisi – I tagli di Renzi sono differenti dai tagli di Tremonti?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I “tagli di Renzi” saranno probabilmente al centro del dibattito politico nei prossimi giorni. E’ quindi doveroso per un economista spiegare, sine ira ac studio, in che misura si differenziano dai “tagli” alla spesa pubblica messi atto quando Giulio Tremonti era il ministro dell’Economia e delle Finanze e vennero criticate riduzioni di spesa di questa natura (ossia ponendo a ciascun dicastero un obiettivo complessivo di contenimento senza analizzare, secondo metodi e tecniche concordati ed uniformi, le priorità sotto il profilo macro economico, micro economico e sociale).

Da allora – si era nel 2002 – alcuni aspetti chiave sono mutati:

a) In primo luogo, il governo dispone di un documento (purtroppo è stato deciso di non renderlo pubblico) di un Commissario alla revisione della spesa che ha individuato puntualmente 15-20 miliardi di spese non necessarie specialmente nel “socialismo regionale, provinciale municipale” e negli enti (strumentali e di ricerca) di Ministeri. E’ un ampio campo su cui operare sulla base di cifre certe e di valutazioni precise su duplicazioni e inutilità economica e sociale di interventi. Numerosi di queste voci non appartengono alle “competenze” delle amministrazioni centrali, ma non sarebbe difficile (di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica) convincere il Parlamento a varare, al più presto, una norma di “surroga”, in base alla quale se le autonomie non effettuano le razionalizzazioni necessarie entro il 31 dicembre il governo utilizza poteri sostitutivi dal 1 gennaio.

b) Nuove metodologie di valutazione della spesa sono state varate dal Cnel nel 2012 ed hanno avuto il consenso dei maggiori ministeri nonché delle istituzioni finanziarie internazionali. Purtroppo esponenti della Cgil al Cnel hanno chiesto che il lavoro non venisse proseguito; è sta alla Segreteria della Cgil chiedere ai suoi nominati spiegazioni in proposito. Tuttavia, sulla base del lavoro Cnel ed in collaborazione con gli enti di ricerca di alcune regioni, l’UVAL (Unità di Valutazione), ora operante nell’agenzia per la coesione territoriale (quindi in seno alla stessa Presidenza del Consiglio) ha completato in luglio un aggiornato buon manuale della valutazione della spesa per ora disponibile (anche al Presidente del Consiglio) su supporto telematico (è in corso l’approntamento dell’edizione a stampa). Quindi, esiste lo strumento per affrontare la riduzione della spesa distinguendo da quella “socialmente produttiva” (nel lessico dell’economia del benessere) a quella “socialmente improduttiva”.

L’Istat inoltre sta aggiornando la matrice di contabilità sociale, essenziale per quantizzare effetti economici e sociale delle riduzioni di spesa. Strumentazione di cui non si disponeva né nel 2002 né nel 2008. Dunque, il problema potrebbe affrontato selettivamente, e su base qualitativa, come venne fatto in Francia con il programma de “rationalization des choix budgettaires”. Sono ovviamente disponibile a fornire a Palazzo Chigi ed a Palazzo Vidoni le informazioni tecniche del caso, ma la Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha tutti i dati necessari.

A tali aspetti salienti se ne aggiungono altri, più tecnici. Tuttavia, proprio in base ai lavori, è possibile pure quantizzare le implicazioni di un ulteriore anno di blocco delle retribuzioni pubbliche in un’Italia che, dati della Commissione Europea alla mano, ha subìto una “svalutazione fiscale” del 30%. E’ un aspetto importante anche perché non avere, precedentemente, diminuito drasticamente i costi della politica (rimborsi elettorali, indennità per Governo e Parlamento) rischia, secondo i manuali di neuro economia, di aggravare tensioni e costi sociali. Ci si affidi a chi sa trattare la materia non a certi martelli che hanno indossato tutte le casacche ed ora si aggirano per Palazzo Vidoni.

L’osservatrice romana

L’osservatrice romana

Barbara Palombelli – Il Foglio

Immaginate un padre di famiglia super indebitato – con gli usurai e i creditori sulla porta di casa – che decida di regalare 80 euro ciascuno ai suoi figli per mandarli al parco dei divertimenti. La favoletta-incubo che abbiamo vissuto nei mesi scorsi e che ha portato il segretario pro-tempore del Pd a un consenso di oltre il 40 per cento dei voti sulla metà degli elettori italiani si può riassumere così. Un incosciente – che pure conoscerebbe a menadito il bilancio statale, secondo gli agiografi imparato a memoria e custodito sul comodino – che mente ai suoi, li illude e li porta al fallimento. Per fortuna nostra, egli non è solo al posto di guida del governo e le continue smentite-ritrattazioni sono il frutto di decine di persone di buonsenso che – dietro le quinte dello spettacolino mediatico che molti per mesi hanno bevuto e apprezzato – riescono a fermare e bloccare le promesse insensate (primo fra tutti il capo dello stato, impegnato a rimettere la barra dritta quasi tutti i giorni).

Al rientro da un’estate in cui ci siamo immersi nel sangue della cronaca nera – un horror continuo molto alimentato dai giornali e dalle tv – scopriamo che il premier aveva scherzato. Non ci saranno riforme mensili, non si cambierà verso, non succederà nulla di diverso dai soliti governi: leggi delega, decreti attuativi, regolamenti da scrivere nei prossimi anni, rinvii di provvedimenti che sembravano già incassati. Eppure, basterebbe dire la verità agli italiani.

Quella sarebbe una rivoluzione: mostrare i conti veri e ragionare insieme su dei sacrifici inevitabili, per poi ripartire senza questa ombra che ci sentiamo addosso, l’ombra del disastro che aleggia e tiene il paese in una condizione di paura senza precedenti. Siamo spaventati, terrorizzati. Più di quando eravamo poveri sul serio, più di quando i terroristi internazionali e nostrani sparavano e gambizzavano nelle strade. Ora più che mai è la paura che governa le scelte delle persone.

Chi può, da Marchionne al cameriere che tenta la fortuna all’estero, se ne scappa dall’Italia. Chi resta, sa che il suo patrimonio – anche senza quella patrimoniale che era necessaria e che fu rinnegata senza motivo – è dimezzato e non può essere messo sul mercato per mancanza di clienti. Anche gli entusiasti del presidente del Consiglio dicono di esserlo solo perché “dopo non c’è niente”, sai che allegria.

Dopo, magari meglio se subito, dovrebbe esserci la verità. Quella che dovevano dire Mario Monti ed Enrico Letta. Quella che Matteo Renzi ha nascosto dietro una mancia costosissima e poco produttiva. Ho nostalgia di Giuliano Amato 1992: si presentò pallido come un cencio in tv, ci disse come stavano le cose, ci dette una gran mazzata, riposizionò l’Italia fra i grandi dell’Europa (dove non siamo più da tempo). E il giorno dopo ripartimmo, tutti insieme, verso la ripresa. Quella vera.

Quello spread fra politica ed economia reale

Quello spread fra politica ed economia reale

Giuseppe Matarazzo – Avvenire

Ricordate i titoloni dell’autunno nero del 2011, quando il Paese sembrava al collasso e lo spread (il differenziale tra i rendimenti dei Bund tedeschi e i nostri Btp) sfiorava i 600 punti? A fare le spese di quelle montagne russe dei mercati fu l’ultimo governo Berlusconi, spinto alle dimissioni dal pressing nazionale e internazionale. Archiviata la stagione azzurra, lo spread, nel giro dei tre governi (Monti, Letta e Renzi) che si sono succeduti, è tornato sotto controllo a livelli minimi (ieri a 153). I mercati internazionali ora ci vedono con meno sfavore: l’Italia è un Paese più afidabile. Ma è anche salvo dal baratro? Davvero è lo spread a misurare lo stato di salute di un Paese?

La risposta è no. Lo spread è importante ai fini della fiducia dei mercati: se c’è una differenza fra due titoli con la stessa scadenza, la ragione è nella diversa fiducia che si nutre nel debitore. Se i mercati domandano all’Italia di pagare un tasso di interesse più alto è perché hanno più fiducia nella Germania rispetto all’Italia nel rimborso del debito. Questa differenza è importante, per questioni di fiducia e di soldi. Per il debito dello Stato e per gli interessi che pagano le imprese. Detto questo, lo spread non è un indicatore economico. E soprattutto non è «libero». Se non è un «imbroglio››, come accusò Berlusconi, è perlomeno manipolabile dalla speculazione di chi – come le grandi banche d’affari – ha interesse a tenerlo basso o a farlo alzare. E non certo per il bene comune. Con lo spread che potrebbe scendere addirittura sotto i 100 punti dovremmo essere tranquilli e sorridenti. E invece… il Paese non vive di (solo) spread. Dopo tre anni di esecutivi “emergenziali” abbiamo salvato il differenziale sui rendimenti. Ma non il Paese. Non gli altri spread che separano l’Italia dal resto del mondo. Anzi.

Se il sentiment degli investitori migliora, il Paese reale non sta meglio di tre anni fa. Lo dicono i numeri degli indicatori, questi sì economici. La carrellata di dati dei giorni scorsi è impietosa: siamo di nuovo in recessione, con il Pil in calo anche nel secondo trimestre (-0,2%) che lascia intravedere un segno meno per il 2014, lontano dalle stime ottimistiche del governo (mentre gli Usa da cui la crisi è cominciata viaggiano con un +4,2%); il debito pubblico continua a crescere, toccando a giugno il nuovo massimo di 2.168 per la prima volta dal 1959 l’Italia è in deflazione, con i prezzi in territorio negativo, segno di un mercato interno dei consumi depresso, nonostante il bonus da 80 euro; la disoccupazione è salita al 12,6% (nel 2011 era al 9%), mentre in Germania è al 4,9%; e la fiducia delle imprese diminuisce al pari della produzione industriale. Un Paese, per dirla con Sergio Marchionne, «inerte, incapace di reagire». Nonostante i tecnici e le annunciate rottamazioni. E non è una consolazione (mal comune mezzo gaudio) se anche Berlino comincia a intravvedere qualche segno meno su Pil o produzione industriale. La Germania resta una locomotiva. L’Italia rischia di restare ferma in stazione.

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Massimo Franco – Corriere della Sera

Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.

Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.

«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco: -0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.

La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.

Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.  

Il tramonto della fretta

Il tramonto della fretta

Antonio Polito – Corriere della Sera

Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.

Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.  

Rottamare non è un pranzo di gala

Rottamare non è un pranzo di gala

Carlo Stagnaro – Il Foglio

L’Italia ha molti problemi economici, ma uno dei principali è anche tra i meno discussi: gli alti prezzi dell’energia elettrica. Gli italiani, e soprattutto le piccole e medie imprese, pagano le terze tariffe elettriche più salate d’Europa, dopo Danimarca e Cipro, e la loro bolletta è del 35 per cento sopra la media dell’Unione europea. Questo impone una significativa zavorra alla crescita: ecco perché il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha infine messo mano alla questione con una legge a lungo attesa e recentemente votata dal Parlamento.

La principale ragione del caro-energia è che Roma ha sempre trattato i consumatori elettrici alla stregua di un bancomat, una fonte facilmente accessibile per le risorse necessarie a finanziare gli obiettivi redistributivi dei politici e conquistare voti. Tutto iniziò all’epoca del monopolio, quando i dipendenti delle imprese pubbliche avevano diritto a prezzi scontati. Quel “diritto” è rimasto in vigore per gli ex dipendenti anche dopo la privatizzazione dell’operatore dominante e la liberalizzazione del mercato elettrico. Tale concessione a un gruppo di lavoratori è stata sussidiata dai consumatori fino a ora. Nel tempo, i sussidi si sono aggiunti ad altri sussidi che si sono aggiunti ad altri sussidi ancora.

Da quando il monopolio è stato superato, il governo ha mantenuto un ruolo centrale nella definizione dei prezzi, e lo ha utilizzato con generosità. Dal 1963 le Ferrovie pagano l’elettricità a prezzo ridotto. Più recentemente diversi settori industriali, e in particolare le imprese energivore, hanno ottenuto un trattamento preferenziale. I costi di rete sono superiori a quello che può essere considerato un ragionevole “livello efficiente”, dato il profilo di rischio degli investimenti sottostanti. Tutto questo è sussidiato dal normale consumatore che deve pagare sempre di più.

A peggiorare le cose, i produttori rinnovabili italiani godono di quelli che sono forse i sussidi più generosi d’Europa. I sussidi alle energie rinnovabili valgono circa un quinto del costo dell`energia per il consumatore finale. La famiglia italiana tipo oggi paga circa 94 euro all’anno, in aggiunta alla propria bolletta, per sostenere le energie “verdi”, contro i 31 euro all’anno del 2010. La crescita è stata particolarmente rapida in ragione degli incentivi al fotovoltaico, il cui impatto è salito a 21 euro/MWh nel 2013 da 5 euro/MWh nel 2010. Per ogni MWh solare, il produttore riceve sussidi che sono dalle cinque alle sette volte superiori al valore dell’energia stessa. Roma fa gravare altre tasse e oneri sui consumatori elettrici, come le accise, una componente tariffaria per coprire i costi dell’uscita dal nucleare e una per sostenere la ricerca di sistema nel settore elettrico. Tutti questi oneri, che finanziano vari altri schemi redistributivi, spiegano circa la metà del gap tra i prezzi energetici italiani e la media europea. Le tariffe sarebbero “soltanto” del 17 per cento superiori, anziché l’attuale 35 per cento, se tali oneri fossero allineati alla media Ue. Il problema è diventato particolarmente serio con la recessione. La crisi economica ha abbattuto i consumi energetici. Di conseguenza i consumatori pagano sempre più sia perché la base dei gruppi sussidiati si è dilatata, sia perché il numero di quanti pagano prezzi pieni si va restringendo. Occorre trovare un nuovo equilibrio tra gli interessi delle piccole imprese in affanno e quelli degli investitori finanziari sussidiati che ricavano il loro reddito da risorse sottratte forzosamente ai consumatori.

Fortunatamente, sembra che la tendenza stia cambiando. Il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha promosso un pacchetto di riforme, di cui fanno parte un decreto convertito in legge dal Parlamento il mese scorso e altre misure. A partire dalla fine del 2014, grazie a tali provvedimenti, l’ammontare dei sussidi ai vari gruppi di interesse si ridurrà di circa 1,5 miliardi di euro l’anno. Si tratta grossomodo del 10 per cento del monte complessivo dei sussidi. L’obiettivo è ridurre i prezzi per i normali consumatori.

I precedenti tentativi di riforma hanno cercato di contenere il tasso di crescita dei sussidi, oppure di proteggere alcuni influenti gruppi di pressione dal peso di tasse e oneri, ma non hanno mai affrontato il relativo groviglio di sussidi che ha spinto le tariffe inesorabilmente verso l’alto. Il nuovo pacchetto è diverso perché aggredisce il problema a testa bassa e senza guardare in faccia a nessuno. Nessuno è stato risparmiato. Tutti i sussidi citati sono stati ridotti o rimodulati allo scopo di renderli meno onerosi per i consumatori.

La riforma naturalmente ha generato grande scontento. I vari interessi particolari hanno fatto una rumorosa opposizione. Né, a dispetto di tutto il clamore, questa è una riforma perfetta. Secondo alcuni, i tagli avrebbero dovuto essere ancora più profondi. Ma il meglio non dovrebbe essere nemico del bene. Quello che realmente conta e che per la prima volta le piccole e medie imprese, anziché mettere mano al portafoglio, vedranno un beneficio concreto. Anche in Italia, insomma, se ci sono volontà politica, visione e coraggio, i risultati possono essere raggiunti, e i “diritti acquisiti” dei cacciatori di rendite possono essere controbilanciati dalle istanze dei portatori del “dovere acquisito” di pagare il conto, Per parafrasare lo slogan elettorale di Renzi, almeno sulla politica energetica si sta cambiando verso.