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Crisi, nessun settore sta pagando quanto l’edilizia

Crisi, nessun settore sta pagando quanto l’edilizia

Giovanna Tomaselli – La Notizia

La crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi. Lo rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat. Dal punto di vista geografico, il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%).
Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.
Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna.
Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: -63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese. Per il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni “oltre alla crisi, sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari”.

Il ministro offre sconti ma gli enti buttano soldi

Il ministro offre sconti ma gli enti buttano soldi

Andrea Cuomo – Il Giornale

La centrale di acquisto per le amministrazioni pubbliche conviene. E molto. Gli enti centrali e locali grazie alle convenzioni stipulate dalla Consip, la concessionaria servizi informativi pubblici, possono risparmiare tantissimo nell’acquisto di beni e servizi, dalla sedia ai computer, dalle risme di carta ai contratti telefonici.

Una specie di gruppo pubblico di acquisto che può far risparmiare all’erario fino a 2,6 miliardi secondo le valutazioni del ministero dell’Economia, che controlla la stessa concessionaria ai cui contratti calmierati ormai non solo lo Stato ma anche Regioni, Province, Comuni di fatto non possono quasi più sottrarsi, malgrado spesso sembrino preferire continuare far la spesa da soli.

Il prezzo spuntato dalla centrale acquisti è sempre inferiore a quello pagato da un’amministrazione pubblica che si muova da sola. Lo dimostra l’edizione 2013 della rilevazione dei prezzi curata da via XX Settembre e dall’Istat e pubblicata pochi mesi fa. Prendete gli arredi per ufficio, con la loro rigida regola alla Fantozzi, i travet con poltroncine in sky e i dirett. lup. mann. con «serra di piante di ficus e poltrona in pelle umana». Ebbene, una sedia operativa costa mediamente alle amministrazioni che la acquistino da soli 90,09 euro e 78,14 euro (il 13,26 in meno) se si approfitta della convenzione Consip. Se cresce il valore della seduta cresce anche il risparmio: per la sedia direzionale si spendono 208,73 senza convenzione e 172,53 con. Per una scrivania operativa rettangolare si risparmia il 35,79 per cento, per una direzionale il 38,02. E la scrivania operativa sagomata a «L»? Se la acquistano le amministrazioni centrali costa 345,24 euro, un ente locale la porta via a 329,64, se si fa la spesa con Consip si spendono solo 163,81, con un ribasso superiore al 50 per cento.

Passiamo alle auto: le city car costano alla Consip 9.308,28 euro e alle amministrazioni in libera uscita 9.904,05, le berline medie rispettivamente 16.933,24 e 20.096,59, i furgoni 11.933,98 e 15.268,54, con risparmi che vanno dal 4,08 al 21,84 per cento. E il carburante? La Consip fa il pieno di super a 0,678 euro al litro (Iva e accise escluse) mentre chi fa da sé paga 0,747. Meno differenza per il gasolio: 0,714 il prezzo per chi usa la convenzione, 0,745 per chi no. L’unico settore in cui fa poca differenza utilizzare la Consip sono i buoni pasto: le amministrazione lo acquistano a 0,837 euro ogni euro di valore, la Consip a 0,831. Quasi pari e patta. Ma con la carta lo sconto torna a essere rilevante: 2,511 euro la risma A4 senza convenzione, 2,396 con la convenzione (4,58 per cento di riduzione). L’energia elettrica in convenzione costa il 3,13 per cento in meno, il gas naturale il 6,23.

Super-risparmi nell’ hi-tech . Noleggiando le fotocopiatrici con i contratti Consip si risparmia dal 19,55 per cento al 63,45 a seconda della tipologia. Una copia a colori, ad esempio, costa 0,06 con la centrale acquisti e quasi 0,17 senza. Anche per i computer sconti rilevanti: un desktop compatto acquistato tramite Consip viene 331 euro, da soli 586,97. Sui server si risparmia dal 17,02 al 24,63 per cento, sui software dal 10,08 al 16,63, sulle stampanti addirittura l’81,86 per cento: l’azienda aggiudicataria della gara Consip la vende a 39 euro, altrimenti costa in media 215 euro. Infine la telefonia mobile: un minuto di conversazione costa 0,039 al complesso delle amministrazioni e 0,025 a quelle che utilizzano il mercato elettronico, un sms di Stato rispettivamente 0,047 e 0,020. Quanto al contenuto del messaggino, beh, su quello la spending review può davvero poco.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Ma se il Fisco continua a rincorrere le maggiori spese pubbliche, quante speranze ha l’Italia di ritrovare la crescita? La risposta è: zero. Spezzare questa spirale perversa per cui la famosa austerity si scarica su famiglie e imprese e non vale per lo Stato (che ha tagliato però gli investimenti in conto capitale e di fatto rinunciato a qualsivoglia ruolo propulsivo) dovrebbe essere una delle “grandi” riforme, al pari di quella, per fare un esempio, che il Governo Renzi ha annunciato per la giustizia civile.

Uno sguardo incrociato alle scadenze tributarie di fine estate e inizio autunno e agli appuntamenti per la politica economica del Governo riporta la questione fiscale in primo piano. Diciamo subito che aver messo nel 2012 il principio del pareggio di bilancio in Costituzione non è un’assicurazione. Non avendo previsto né un tetto alla pressione fiscale né un tetto alla spesa, può accadere che sia quest’ultima ad aumentare di continuo inducendo governi e parlamenti a rincorrerla a suon di aumento delle tasse più che facendo ricorso alla revisione della spesa.

È quello che è successo negli ultimi anni, con i risultati, pessimi, che conosciamo. Non è pertanto un caso che la spesa pubblica si avvii a chiudere il 2014 a quota 825 miliardi (di cui 535 di spese correnti), quasi un +8% rispetto al 2013, mentre la pressione fiscale – superiore di oltre 5 punti alla media europea – raggiunge il 44% in rapporto al Pil (che diventa però oltre il 53% reale se consideriamo l’economia sommersa e oltre il 65% come tassazione complessiva per le imprese).

È su questo sfondo di numeri deprimenti che si gioca la partita. L’attesa revisione del Pil secondo le nuove regole europee (è dato in lieve crescita) non può fare miracoli.

Renzi («No a nuove tasse, sì ai tagli di spesa») pare deciso ad imprimere una svolta dopo il chiacchiericcio estivo alimentato anche da ministri, viceministri e sottosegretari. Vedremo. Tanto più considerato che il calendario fiscale rimette sul piatto dei contribuenti la vicenda Tasi (Tassa comunale sui servizi indivisibili): sono stati a giugno scorso solo 2.187 i Comuni che hanno rispettato le scadenze e dove si è pagata la prima rata di acconto 2014 entro il 16 giugno. Per tutti gli altri, circa 6mila Comuni, l’appuntamento è per il 16 ottobre ed entro il 10 settembre dovranno deliberare le nuove aliquote. Poi, il 16 dicembre versamento per tutti della seconda rata a saldo. La politica fiscale sulla casa, tanto arrembante sul terreno del gettito quanto oggetto di una persistente incertezza regolatoria che ha incrinato la fiducia dei contribuenti, viene così, con la scadenza del 16 ottobre, a battere cassa proprio nei giorni in cui il Governo, dopo aver aggiornato il Documento di economia e finanza (Def) presenta il 15 ottobre a Roma e a Bruxelles la Legge di stabilità per il 2015, sulla quale la Commissione europea esprimerà un giudizio entro il 15 novembre. Si tratta di una coincidenza, ma non è cosa da sottovalutare. E comunque, anche nel momento in cui il Governo Renzi affronterà in Europa un duro negoziato, contribuisce anch’essa a rimettere al centro, se davvero si vuole parlare di ripresa, la questione fiscale che a sua volta ripropone, o dovrebbe riproporre, l’irrisolto nodo della spesa pubblica. Conviene ricordare, per fare un solo esempio, la storia del fondo sanitario dal 2001 ad oggi come ricostruita dal Centro Studi Sintesi per il Sole 24 Ore. Sono stati distribuiti 512 miliardi, ma 87 euro ogni 100 hanno seguito il parametro della “spesa storica”, quello per il quale un anno dopo l’altro chi spende di più è di fatto garantito nella copertura della spesa. Questa componente della spesa avrebbe dovuto ridursi del 9% l’anno fino ad esaurirsi a partire dal 2013. Non è andata così e, a motivo di un ritmo di discesa concordato con le Regioni, o meglio di un piano quasi per nulla inclinato, l’addio è previsto per il 2066. Fantarealtà.

Il “miracolo” delle grandi opere

Il “miracolo” delle grandi opere

Valerio Castronovo – Il Sole 24 Ore

Particolari sconti fiscali per le infrastrutture figurano nel decreto legge “Sblocca Italia”, previsto nel Consiglio dei ministri di fine agosto. Le opere pubbliche, insieme all’edilizia, erano le leve su cui faceva affidamento anche lo “Schema” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione (a cui venne dato poi il nome di “Piano”) che il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, mise a punto insieme a Pasquale Saraceno, 60 anni fa, nell’agosto 1954, durante alcuni giorni di vacanza che essi passarono in Valtellina, a Morbegno e in Val Masino.
Ministro del Commercio estero nel 1947, Vanoni aveva svolto un ruolo di rilievo dal 1948 al 1953, quale titolare delle Finanze (a lui si dovevano, fra l’altro, la riforma tributaria e l’istituzione dell’Eni); Saraceno, un veterano dal 1933 dell’Iri (dove dirigeva il Servizio studi), era stato fra i promotori della Svimez e proprio nell’ambito dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (un cenacolo di autorevoli meridionalisti e giovani studiosi di valore) s’era avviato – in coincidenza con la redazione di un documento presentato in aprile all’Oece sulla struttura dualistica dell’economia italiana – un progetto inteso a individuare e valutare quali avrebbero potuto essere i fattori propulsivi per una crescita dell’economia e del lavoro e per la riduzione del divario fra Nord e Sud.

L’annuncio da parte di De Gasperi, in giugno, al Congresso della Dc a Napoli, che Vanoni stava lavorando a un piano in grado di «assicurare a ciascuno un lavoro, una casa, una sussistenza degna di un uomo libero», suscitò naturalmente molte aspettative. Si era ormai esaurita la spinta impressa all’economia italiana dal recupero nel dopoguerra degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa fisiologica dell’agricoltura e dagli aiuti straordinari del Piano Marshall; inoltre s’era manifestato un disavanzo complessivo della bilancia commerciale, che registrava saldi attivi soltanto con la Svizzera e la Germania occidentale.
In pratica, lo “Schema” di sviluppo a cui lavorò, sotto la regìa di Vanoni, un gruppo di esperti della Svimez e di consulenti stranieri (tra i quali Paul Rosenstein Rodan e Jan Timbergen) era una sorta di “manifesto”, di disegno di programmazione, per una politica economica di lungo periodo, che assicurasse un efficace coordinamento dei provvedimenti dello Stato e un buon funzionamento del mercato. In sostanza, nell’arco di un decennio ci si proponeva di conseguire tre obiettivi: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro nei settori industriale e terziario, che compensassero la riduzione dell’occupazione agricola (destinata a scendere, stando alle previsioni, dal 41 al 33% del totale); il superamento del divario Nord-Sud attraverso la promozione degli investimenti nel comparto industriale; il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Affinché tutto ciò si realizzasse, si calcolava che ci sarebbero voluti un tasso di sviluppo medio annuo del 5%, un costante aumento della propensione al risparmio, e un mutamento della ripartizione settoriale e territoriale degli investimenti, sostenuti in particolare dallo Stato e dalle imprese pubbliche.

Approvato alla fine del 1954 dal Governo centrista presieduto da Mario Scelba, questo “Piano” raggiunse, alla fine del decennio, alcuni risultati di rilievo: come, l’aumento di 2,6 milioni di addetti nell’occupazione extra-agricola (sebbene l’esodo dalle campagne fosse stato superiore alle previsioni) e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Inoltre, il varo dello “Schema Vanoni” concorse alla decisione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di incrementare i suoi prestiti, di cui venne a beneficiare la Cassa del Mezzogiorno.
Tuttavia, furono soprattutto l’aumento della produttività per unità di lavoro e gli effetti dei progressi tecnologici e organizzativi, con le relative economie di scala, nonché l’incipiente espansione della domanda di beni di consumo durevoli, a determinare un salto di qualità, nel giro di pochi anni, rispetto all’idea di un’evoluzione assai più graduale in cui s’imperniava il Piano Vanoni. D’altra parte, agì da acceleratore l’adesione dell’Italia nel marzo 1957 alla Comunità economica europea e, quindi, l’impegno per una progressiva liberalizzazione degli scambi. Sta di fatto che mano pubblica e mano privata posero, ognuna per la propria parte, le basi del “miracolo economico”.

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Mancano meno di due mesi al 16 ottobre e molti italiani ancora non hanno capito quanto (e se) devono pagare di Tasi. I dubbi sull’imposta comunale, però, rischiano solo di aumentare confrontandosi con amici o parenti più o meno lontani. A leggere le delibere pubblicate finora sul sito delle Finanze le regole sono diverse da città a città, con una variabilità molto superiore a quella sperimentata con l’Imu.
Cambia pelle da nord a sud, infatti, il tributo per i servizi comunali indivisibili, introdotto dal 2014. Come un dialetto che si adatta alle esigenze locali, si traduce in aliquote e detrazioni molto diverse a pochi chilometri di distanza. A Gorizia, per esempio, sulle abitazioni principali (escluse quelle di lusso in categoria A1, A8 e A9) l’aliquota è fissata all’1,5 per mille con detrazioni modulate in base alla rendita catastale; poco più in là, verso il mare, la cittadina di Grado ha ritenuto di azzerare la Tasi per il 2014, «in un’ottica di semplificazione del rapporto con i contribuenti», si legge nella delibera. Ma è probabile che i conti comunali beneficino dell’Imu pagata sulle numerose seconde case presenti in città.
La grande autonomia lasciata ai Comuni nel determinare la Tasi genera differenze così forti da rendere quasi impossibile confrontare il livello del prelievo sulle abitazioni principali: a Celle Ligure (Savona) l’aliquota è dell’1 per mille, grazie – anche qui – all’elevata densità di seconde case; a Carugate (Milano) sale al 3,3 per mille, anche se l’immobile è di proprietà di anziani o disabili in istituto di ricovero e non locato (la detrazione base è di 100 euro, cui se ne aggiungono 50 per ogni figlio). Detrazioni a parte, il prelievo varia molto anche nelle grandi città: a Brescia l’aliquota è del 2,5 per mille; a Pisa del 3,3; a Modena del 2,5; a Firenze del 3; a Bergamo del 3,2.
In alcuni casi, inoltre, la Tasi diventa una specie di “maggiorazione” sull’Imu: a Maratea, in Basilicata, all’imposta unica municipale si somma un’aliquota Tasi dello 0,4 per mille su residenze di lusso (in classe A1, A8 e A9), seconde case e immobili locati; a Roccaraso, in Abruzzo, il Comune ha scelto di “spalmare” su tutti i fabbricati la Tasi all’1 per mille.
Non tutti i Comuni, poi, hanno beneficiato del meccanismo delle detrazioni. Accade sia al confine con la Francia, a Ventimiglia, sia in Calabria a Vibo Valentia, dove in entrambi i casi è prevista un’aliquota del 2,5 per mille sulle abitazioni principali senza “sconti”. In questi casi, sulle case dalla rendita catastale modesta il conto è superiore a quello dell’Imu, che con la detrazione di 200 euro garantiva di fatto una no tax area.
Altre amministrazioni, invece, hanno “disegnato” un vero e proprio puzzle di sconti progressivi: Pisa prevede nove fasce, in base alla rendita catastale; Parma aggiunge le esenzioni in base all’Isee; a Cassinetta di Lugagnano (Milano) le famiglie con Isee sotto i 12mila euro non pagano. Sono diffuse anche le detrazioni (dai 25 euro a Pisa ai 50 a Bergamo) per ciascun figlio sotto i 26 anni. Ma a Cernobbio (Como), quasi per fare uno sgarbo ai “bamboccioni”, lo sconto di 30 euro sulla Tasi è solo per i figli sotto i 18 anni.
Mai come in questo caso, poi, il parametro dell’aliquota rischia di essere fuorviante. A Cava de’ Tirreni, per esempio, l’aliquota Tasi sulle abitazioni principali è quella massima del 3,3 per mille come nel vicino Comune di Salerno. In quest’ultimo, però, le unità con rendita catastale fino a 750 euro godono di uno sconto pari a 100 euro (che raddoppia se la rendita è inferiore a 350 euro). Meno fortunati i proprietari di Cava de’ Tirreni, e non solo perché le loro case in collina non si affacciano sul mare: per loro è prevista solo una detrazione base di 50 euro.  

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Renato Brunetta – Il Giornale

Difficile dare torto a Enrico Morando, migliorista doc (la corrente del Pd di Giorgio Napolitano) quando dice che ritornare sul tema delle pensioni è «estremamente negativo, perché la riforma della previdenza pubblica già è stata fatta». Ne avrebbe tuttavia dovuto parlare prima con Pier Paolo Baretta, ex Cisl, ben più possibilista, disposto a salvare solo le pensioni minori: 2.000 euro al mese.

Lordi o netti? Si tratta di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Fanno parte non solo dello stesso governo, ma dello stesso Ministero: quello dell’economia. Il primo: vice ministro; il secondo: sottosegretario. Forse era opportuno, prima di procedere ad ulteriori esternazioni, invocare il coordinamento del ministro Pier Carlo Padoan. Che, a sua volta, andando a ritroso nella catena di comando, avrebbe dovuto interessare della questione il premier, Matteo Renzi, che avrebbe, a sua volta, dovuto frenare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, prima dell’intervista che ha determinato una nuova piccola tempesta estiva.

Se abbiamo rievocato la vicenda è solo per dimostrare lo stato di confusione in cui versa il governo in una materia così delicata, come la previdenza, che interessa circa 16 milioni di persone. Se aggiungiamo che la maggior parte di loro sono capifamiglia, possiamo ben dire che l’argomento è universale. Riguarda tutti gli italiani. Dalla singola pensione non deriva solo il sostentamento del singolo, ma quell’economia familiare – il welfare naturale – che è uno degli antidoti più potenti ai morsi della crisi. Sono sempre più spesso i padri che aiutano i figli disoccupati o con un reddito insufficiente. I nonni che si sobbarcano dell’onere di far quadrare il magro bilancio familiare. Turbare, in modo intermittente, quel delicato equilibrio non è solo un atto inutile di crudeltà. Genera la più generale incertezza. E con essa un’ulteriore contrazione dei consumi – quelli che possono – nel timore di tempi più neri. Risultato: un ulteriore avviluppo della crisi, nella spirale della deflazione.

Ai tanti smemorati della maggioranza, ricordiamo che il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte esiste già. Lo ha previsto la legge 486 del 2013: gentile lascito del governo Letta. Colpisce tutte le pensioni superiori a circa 5mila euro netti al mese. Con una progressione che va dal 6 al 18 per cento per quelle superiori a 195mila euro lordi l’anno (circa 10mila netti al mese). In quest’ultimo caso la somma delle due aliquote (quella erariale ed il contributo) porta ad un prelievo marginale di circa il 65 per cento. Siamo al limite dell’esproprio. La rilevanza di questi argomenti spiega il diluvio di prese di posizione che questi propositi hanno alimentato. La ferma opposizione di parti consistenti della stessa maggioranza. Le preoccupazioni dei sindacati e di tutti coloro che operano nel sociale. La nostra stessa dura reazione per porre fine ad un gioco stupido e dannoso. Non sono mancate, naturalmente, le voci dissonanti. Gli economisti della voce.info hanno quasi brindato. Chi condanna senza appello il metodo retributivo non tiene conto del fatto che quand’esso era operante la «speranza di vita» degli italiani – la base di ogni discorso serio sulla previdenza – era di gran lunga minore di quella attuale.

Può sembrare pura necrologia, ma non è così. La logica del pro-rata, vale a dire della sola applicazione «de futuro» delle riforme, aveva quell’origine statistica. Il sistema venne progressivamente modificato – l’ultima volta con la legge Fornero – proprio a seguito dell’allungamento della vita media. L’alterazione del parametro demografico rendeva progressivamente insostenibile, cosa che invece era nel t-n, come direbbero gli economisti della Voce . Ossia nel tempo precedente. Può sembrare fin troppo sofisticato. Ma questa è stata la base materiale di decine di sentenze, sia della Corte Costituzionale (sentenza 116/2013) che della Cassazione (sentenza n. 17892/2014), nel ribadire la non retroattività di quelle disposizioni di legge o atti amministrativi a danno delle pensioni già in essere.

Considerazioni che dovrebbero bastare. Sennonché la logica espropriativa che è alla base delle argomentazioni di chi vorrebbe colpire il presunto privilegio rappresentato da una pensione non di semplice povertà è ancora più devastante. Il parametro numerico è solo uno degli elementi che caratterizzano la relativa equazione. Le altre incognite – altrettanto essenziali – sono date dall’entità dei contributi versati e dal numero degli anni che hanno caratterizzato quel prelievo. Ma di questo non si parla. È semplicemente scomparso dal radar dei nuovi «livellatori». La cosa è paradossale. Se si accettasse la tesi del ricalcolo delle pensioni – passaggio dal «retributivo» al «contributivo» ad essere principalmente colpiti non sarebbero i «ricchi», ma i poveracci. Di fronte a quest’obiezione, le risposte sono state sempre sconcertanti. Il ricalcolo – è stato detto – va applicato solo ai benestanti. Vale dire a quella classe media, considerata la forte progressione delle aliquote Irpef , già massacrata da una pressione fiscale senza precedenti. Si avrebbero, in questo modo, due diversi sistemi di calcolo: vantaggioso per i meno abbienti, punitivo per gli altri. Il tutto, naturalmente, in barba al principio d’eguaglianza – articolo 3 della Costituzione – e della progressività del carico fiscale – articolo 53 della stessa.

Le polemiche di questi ultimi giorni non hanno senso. O meglio hanno un senso traslato, com’è nella migliore tradizione del politicismo italiano. L’indizio è stato fornito da la Repubblica : non solo giornale bene informato, ma molto spesso il vero suggeritore occulto delle posizioni di alcuni esponenti del governo. La polemica è legata all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Proposta condivisa da tutto il centrodestra. Piuttosto che impegnarsi in una discussione seria su questo argomento, ecco la mossa del cavallo. Alimentiamo un nuovo tormentone sulle pensioni, per arrivare all’inevitabile compromesso: voi la piantate di agitare il tema e noi facciamo lo stesso per le pensioni. Risultato finale? Niente di niente.

È accettabile questo baratto? Lo sarebbe se non avessimo a cuore il destino degli italiani. Insistere sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non è un totem: come ama ripetere Matteo Renzi. Ma quel che più conta è che quel freno (non certo l’unico) ha progressivamente azzoppato l’economia italiana, impedendo la crescita della produttività che è il vero ed unico volano dello sviluppo. Ha infatti reso impossibile politiche attive per il lavoro, che sono il volto nascosto che alimenta il denominatore. E se il Pil non si muove – checché ne dicano i cultori della «decrescita felice» – si fermano tutte le altre componenti dell’economia.

Questa politica, che è il sale dello sviluppo economico moderno, può essere sostituita dalla pura redistribuzione del reddito, come traspare dal libro di Gutgeld, il consigliere di Matteo Renzi («Più eguali, più ricchi»)? Che il mercato vada addomesticato è fuori dubbio. Ma da qui a sopprimerne, con politiche cervellotiche, l’intimo dinamismo ce ne corre. Vale un vecchio principio, tratto dalla saggezza contadina. Le pecore vanno tosate, non ammazzate. La loro eventuale macellazione può servire per un grande banchetto, ma il giorno dopo, se non si hanno altre risorse, è lo spettro della fame a prendere il sopravvento.

P.S. Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il suo «Le pensioni non si toccano» ha messo fine al disastroso dibattito agostano sulle pensioni. Bene, anche se la frittata è difficilmente rimediabile. I 16 milioni di pensionati non si fidano più. Con tutto quel che ne conseguirà in termini di incertezza. Come farsi del male inutilmente. E lo diciamo con amarezza e grande preoccupazione.

Edilizia, la crisi ha dimezzato i permessi di costruire

Edilizia, la crisi ha dimezzato i permessi di costruire

SINTESI DEL PAPER

La crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi. Lo rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat e disponibile online all’indirizzo http://impresalavoro.org/edilizia-crisi-dimezza-i-permessi-costruire/
Dal punto di vista geografico, il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%).
Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.
Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili per cui è stato richiesto il permesso di costruire, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna. Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste di permesso per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: – 63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese.
Il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni osserva che «oltre alla crisi, sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari, storicamente considerati dagli italiani una forma di investimento sicuro. Come ha rilevato Confartigianato, tra il 2011 e il 2013 la tassazione è aumentata del 102% e l’introduzione della Tasi potrebbe rappresentare un ulteriore aggravio stimato tra il 12 e il 60%. È chiaro che politiche fiscali di questo tipo finiscono per scoraggiare qualsiasi tipo di investimento nel mattone».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Edilizia, la crisi dimezza i permessi di costruire – Paper“.
Rassegna stampa:
La Padania
La Notizia
Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…