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Partecipate riluttanti

Partecipate riluttanti

Il Foglio

Il governo sta trovando qualche difficoltà tenere nei ranghi le società a controllo statale riluttanti a seguire gli ordini dell’azionista pubblico, ordini già inseriti negli impegni votati dal parlamento e inviati in Europa. Il caso di Poste lo testimonia. Il nuovo capo azienda, Francesco Caio, nominato dal governo Renzi a maggio, ha invertito i piani predisposti dal predecessore Massimo Sarmi (e benedetti dall’esecutivo Letta). La privatizzazione di Poste tramite quotazione parziale, programmata per fine anno, è da ridiscutere nei tempi e nelle modalità anche per oggettive difficoltà tecniche di un collocamento in Borsa frettoloso. Il ruolo di facilitatore passivo dell’operazione Alitalia-Etihad – di cui il cda di Poste condivide «la logica industriale e di mercato» – sta poi stretto a Caio, che non vuole accollarsi solo gli oneri con il trasferimento di capitale nella sola bad company ma intenderebbe investire nella nuova costituenda compagnia con gli emiratini e i soci italiani. Eventualità che ha irritato le banche creditrici e spiazzato l’esecutivo alla vigilia della risposta alle richieste di chiarimenti della Commissione Ue, sollecitata da Air France-Klm e Lufthansa in conseguenza dell’intervento di Poste nella ricapitalizzazione di Alitalia di fine 2013 in quanto costituirebbe, dicono i critici, aiuti di Stato.

Se le Poste ostentano una logica finanziaria e di discontinuità, alla Rai invece nulla cambia rispetto a qualsiasi novità, risparmio, minima privatizzazione. La cessione di rai Way, la società che gestisce gli impianti di trasmissione, è persa nelle nebbie mentre il piano di accorpamento tra Tg3 e RaiNews24 “spaventa” l’Usigrai, il sindacato interno. Che chiede se «si voglia chiudere il Tg3»: la stessa ipotesi, ma di fusione con il Tg2, non aveva invece sollevato problemi. Siamo sempre lì: un’azienda ferma e un sindacato imbizzarrito che non pagano dazio alla crisi (quella «preoccupante» di un’editoria non ingessata, Napolitano dixit) e non per merito ma ritenendosi immuni e diversi. Il governo non deve concedere altre deroghe se vuole essere preso sul serio in Italia, all’estero e sul mercato.

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Debiti PA, 500 milioni agli investimenti

Carmine Fotina Il Sole 24 Ore

Il governo prova ad accelerare sui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione, attesi dalla scadenza del 21 settembre, giorno di San Matteo, indicato dal premier Matteo Renzi come termine per smaltire tutto l’arretrato. In quest’ottica ieri è stato firmato un protocollo di impegni tra ministero dell’Economia, Conferenza delle Regioni, Anci (Comuni), Upi (Province), Confindustria, Confagricoltura, Ance (costruttori edili), Rete imprese Italia, Consiglio nazionale dei commercialisti, Unioncamere, Abi (banche) e Cassa depositi e prestiti. In pratica tutte le parti in causa, ognuna delle quali dovrà favorire una velocizzazione dei processi, anche se ieri – va sottolineato – il Mef ha indicato come obiettivo lo smaltimento «entro il 2014» senza riferimenti al 21 settembre. 

Punto centrale del protocollo è anche l’impegno ad aprire nuovi spazi per pagare i debiti di parte capitale, finora penalizzati rispetto alla spesa corrente perché, come noto, oltre che sul debito pubblico incidono sul deficit. Non ci sono cifre nel protocollo, ma l’obiettivo sarebbe aggiungere ai circa 7,5 miliardi finora resi disponibili una tranche ulteriore – più vicina a 500 milioni che a 1 miliardo – attraverso nuove misure di allentamento del patto di stabilità interno. Il protocollo – ha commentato Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria – «è un segnale concreto che qualcosa si sta muovendo. Confindustria continuerà a seguire il tema con la massima attenzione e non sarà soddisfatta finché alle imprese non sarà pagato anche l’ultimo centesimo». «Una svolta politica rilevante – ha sottolineato l’Ance – per pagamenti che finora sono stati penalizzati». Un passo avanti anche secondo l’Anci, che invita però a risolvere il nodo strutturale «delle regole del Patto di stabilità interno». «Un’occasione, forse l’ultima, da non perdere» per Rete Imprese.
Sommando i vari provvedimenti emanati dagli ultimi governi (per ultimo il decreto Irpef) le risorse complessivamente stanziate ammontano, per il 2013, a 27,2 miliardi e, per il 2014, a 29,6 miliardi. In totale 56,8 miliardi. Finora, stando all’aggiornamento diffuso ieri, le risorse girate agli enti debitori ammontano a 30,1 miliardi, dei quali 26,1 miliardi sono già stati erogati ai creditori.
Per sbloccare le spese in conto capitale il Mef studia un mix di interventi. Ci sarà un nuovo allentamento del patto di stabilità interno e nel contempo si «verificherà» l’estensione anche a questo tipo di debiti del meccanismo di cessione crediti con garanzia statale. Si punta poi a riproporre anche per il 2015 la norma relativa al patto di stabilità verticale incentivato e a posticipare i termini previsti per il patto “orizzontale” tra le regioni.
Il documento comune nasce dalla consapevolezza di alcuni punti deboli. Diverse Pa locali non hanno richiesto le anticipazioni di liquidità, nonostante queste siano disponibili. Regioni, Province e Comuni si impegnano ora a «sollecitare gli enti rappresentati» su questo punto. Il percorso dei provvedimenti attuativi non sempre è stato celere e adesso il Mef si impegna «ad assicurare l’adozione di tutti gli atti previsti». Allo stesso tempo, l’Abi dovrà sensibilizzare i propri associati a mettere a disposizione delle imprese adeguate risorse per la cessione pro-soluto dei crediti, anche sfruttando il canale creato con il decreto Irpef (venerdì scorso è stata firmata la convenzione con il ministero dell’Economia). Dal canto suo, la Cdp assicura che sarà «adottata celermente» la convenzione quadro con l’Abi per consentire al sistema bancario di cedere alla stessa Cassa i crediti vantati nei confronti delle Pa e assistiti dalla garanzia dello Stato (e già ceduti dalle imprese alle banche).
Grande attenzione viene riposta anche sulla certificazione dei crediti, che le imprese devono presentare tassativamente entro il 23 agosto per far sì che scatti la garanzia dello Stato. «Il numero e il corrispondente ammontare delle istanze» presentate e di quelle rilasciate appare ancora basso, di qui l’impegno di tutte le associazioni di impresa coinvolte a «sollecitare i propri associati a presentare istanza di certificazione». Gli enti territoriali, a loro volta, dovranno assicurare rapidità nel rispondere alle istanze tramite la piattaforma elettronica del Tesoro e, «per quanto possibile, rafforzare la consistenza degli uffici anche nel periodo estivo». Il protocollo preannuncia la «tempestiva nomina» di commissari ad acta in caso di inerzia delle amministrazioni e prevede la creazione di “help desk” dedicati, sia a livello di Pa che di associazioni imprenditoriali, e un’attività di comunicazione per diffondere l’utilizzo della piattaforma elettronica.

Province quasi abolite

Province quasi abolite

Roberto Petrini – La Repubblica

Sono enti “fantasma” destinati, dopo una lunga battaglia per razionalizzare la macchina dello Stato, a scomparire, ma ancora riscuotono le tasse. Alla fine di quest’anno, nonostante il forte ridimensionamento, le 110 Province italiane incasseranno, secondo un’analisi della Uil servizio politiche territoriali, ancora imposta per 4,5 miliardi. Tre prelievi – sulla Rc auto, sui passaggi di proprietà e sui rifiuti – che andranno direttamente a pescare nelle tasche dei cittadini. Anche se il legislatore, nel corso degli anni, è stato assai abile a nasconderli e a renderli vere e proprie tasse occulte.

L’imposta più pesante che va alle Province è quella sulla Rc auto: fu introdotta nel 1981 da Spadolini con la motivazione bizzarra che chi guida può provocare incidenti e quindi deve contribuire a sostenere il servizio sanitario. L’aliquota va dal 9,5 al massimo del 16 per cento del premio assicurativo e quest’anno darà un gettito di 2,6 miliardi. Le Province, non soddisfatte di riscuotere ancora la tassa, hanno pigiato sul pedale: tutte e 110 la applicano e di queste 76 – tra le quali Roma, Torino, Napoli e Bologna – hanno imposto l’aliquota massima del 16 per cento.

L’altro balzello riguarda sempre l’automobilista: si tratta della Ipt, l’imposta provinciale di trascrizione che si paga quando si cambia macchina o moto. Incasso previsto per quest’anno: 1,3 miliardi. Si deve in tutte le Province ma in 75 – tra le quali figurano Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli e Torino – viene applicata anche la maggiorazione del 30 per cento. A Roma, tanto per fare un esempio, la Provincia ricava dalla tassa sui passaggi di proprietà 120 milioni, mentre Milano incassa 90 milioni. Della incongruenza di una tassa incassata da enti “fantasma” si è accorto persino il recente decreto sulla pubblica amministrazione che ha previsto, a partire dal prossimo anno, di trasferire l’incasso alle Regioni. Ma per quest’anno pagheremo ancora.

Terzo pilastro che resta in piedi della fiscalità provinciale è il Tefa: pochi lo conoscono ma tutti lo pagano. Si tratta del Tributo provinciale ambientale che versiamo, per una percentuale tra l’1 e il 5 per cento, insieme alla tassa sui rifiuti. Una tassa sulla tassa che renderà alle Province ancora quest’anno 355 milioni. E non è finita: altre microtasse provinciali danno un gettito di circa 99 milioni. Si tratta della Cosap, tassa sull’occupazione del suolo pubblico, pagata sui passi carrabili sulle strade provinciali o per lo spazio occupato da tralicci o centraline. Oppure del tributo per i rifiuti speciali che le aziende versano alle società di raccolta che poi lo girano all’ente provinciale.

Purtroppo la spending review va a senso unico, taglia le spese e lascia pure in piedi le tasse. Tanto è vero che l’Upi, l’associazione delle Province, si trova a protestare per la violenza dei tagli e lamenta effetti «devastanti» sui servizi. «La riforma ha ancora contorni nebulosi – commenta il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy – e si rischia che diminuiscano i servizi ma non le tasse». Chi pagherà le tasse provinciali lo farà con qualche mugugno in più. Le Province infatti hanno avuto un forte ridimensionamento con la riforma dell’aprile scorso e hanno perso molti compiti: non gestiscono più i centri per l’impiego, le politiche del lavoro, trasporti e sostegno allo studio per i disabili. I costi della politica sono stati tagliati per 400 milioni: gli amministratori non saranno più eletti direttamente dai cittadini ma saranno sindaci e consiglieri comunali che faranno il doppio lavoro senza doppia indennità. Anche il personale, pari oggi a 56mila unità, è destinato dopo la riforma a scendere notevolmente: 6mila andranno in mobilità e altri 8mila potranno essere trasferiti ad altri enti. I tagli alla spesa pubblica non servono per diminuire le tasse?

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Enrico Marro – Corriere della Sera

Obiettivo Fisco amico, soprattutto delle piccole imprese. Varati i primi due schemi di decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, uno sulle semplificazioni e la dichiarazione precompilata e l’altro sulla riforma del catasto, il governo sta preparando un terzo decreto su «abuso di diritto» e riordino delle sanzioni, che potrebbe approdare in Consiglio dei ministri ai primi di agosto. A settembre, invece, arriverà un quarto decreto che rivoluzionerà la tassazione per le piccole imprese che usano i regimi fiscali semplificati: circa 4 milioni di contribuenti per i quali dovrebbe arrivare la tassazione per cassa e non più per competenza.

Il reddito d’impresa si calcolerà cioè su entrate ed uscite effettive e non su costi e ricavi teorici. In questo modo si dovrebbe superare il problema dei mancati incassi dovuti ai ritardi nei pagamenti. Le tasse, in altri termini, si pagheranno solo su quanto realmente incassato. La novità sarà accompagnata dall’incentivazione della fatturazione elettronica anche tra privati (registri e adempimenti semplificati), che dovrebbe appunto accorciare i termini di pagamento. Inoltre, per favorire la capitalizzazione delle piccole aziende è in arrivo una importante novità: le società individuali e di persone si vedranno tassare il reddito che resta in azienda in base alla nuova Iri (Imposta sul reddito imprenditoriale, prevista dalla delega) secondo l’aliquota proporzionale allineata all’Ires (società di capitali), cioè il 27,5%, mentre solo la parte di reddito che verrà prelevata dall’imprenditore e dai soci subirà l’aliquota Irpef di competenza, concorrendo alla formazione dell’imponibile complessivo. Infine, arriveranno anche un nuovo regime forfettario al posto del regime dei minimi articolato secondo il settore economico di attività e un sistema semplificato per le imprese di nuova costituzione.

Il cronoprogramma di attuazione della riforma fiscale prevede quindi a ottobre la presentazione del decreto legislativo di riordino della giungla delle agevolazioni fiscali. Il provvedimento sarà collegato alla legge di Stabilità 2015 perché da questo capitolo dovrebbero arrivare alcuni miliardi di risparmi. Una partita che si trascina da diversi anni e che nessun governo è riuscito a chiudere. Il processo di riforma sarà quindi completato con i decreti sul nuovo processo tributario, con la revisione della riscossione nazionale locale, che dovrebbe separare i destini dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia (oggi posseduta al 51% dalla prima) e col riordino del regime di tassazione trasnazionale. Il tutto sarà accompagnato da un’azione dell’Agenzia delle entrate più concentrata a prevenire l’evasione fiscale.

In questo senso il decreto sull’abuso di diritto e le sanzioni che dovrebbe essere approvato all’inizio di agosto è decisivo. Si tratta infatti di disinnescare la causa di una parte importante del contenzioso fiscale che poggia appunto sulla difficoltà interpretativa delle norme, aprendo da un lato spazi all’elusione e all’evasione e dall’altro a comportamenti vessatori dell’amministrazione fiscale. Per questo si tratta di fare chiarezza distinguendo nettamente, per esempio, tra condotte legittime in quanto finalizzate a pagare meno imposte possibili e condotte invece che hanno come scopo l’evasione. La definizione dell’abuso di diritto verrà accompagnata da una depenalizzazione delle fattispecie minori. Per esempio la dichiarazione infedele per piccoli importi non dovrebbe più far scattare un processo penale ma verrebbe punita con sanzioni amministrative. Decisioni che il governo si aspetta portino a un aumento del grado di fedeltà dei contribuenti e a una diminuzione delle liti giudiziarie.

L’intero processo di riforma va però accelerato. La legge delega 23 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’11 marzo ed è entrata in vigore il 27. I primi due decreti attuativi (semplificazioni e catasto) sono stati licenziati dal governo a fine giugno, ma non sono ancora definitivi. I decreti infatti passano all’esame delle commissioni parlamentari competenti, che deve concludersi entro un mese, e poi tornano in Consiglio dei ministri per l’approvazione conclusiva. La riforma prevede che tutti i decreti legislativi debbano essere approvati entro un anno. I provvedimenti da emanare sono numerosi. Tra gli altri anche quelli sul riordino dei giochi, e sul potenziamento della lotta all’evasione, oltre che la stima e il monitoraggio della stessa: una novità assoluta in Italia. La riforma del Fisco è appena agli inizi.

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Isidoro Trovato – Corriere economia

Tanto tuonò che non piovve. La riforma del regime fiscale per le imprese è uno di quegli argomenti “evergreen” nel dibattito politico economico italiano. Stavolta però il traguardo potrebbe persino essere alla portata anche se la tanto attesa legge dell’11 marzo 2014 sulla semplificazione, pur contenendo indirizzi importanti, costituisce un’opera di «manutenzione straordinaria» dell’attuale sistema e risponde, secondo il mondo produttivo, solo in parte alla necessità di una riforma realmente sistematica e organica. Serve qualcosa di più specifico e una riforma fiscale davvero incisiva per il futuro delle imprese.

Da un’elaborazione dell’ufficio studi e della direzione politiche fiscali di Confartigianato, infatti, emerge che nell’arco delle ultime due legislature, tra il 29 aprile 2008 e il 28 marzo 2014, sono state approvate 629 norme fiscali, di cui 72 semplificano (11,4% del totale), 168 sono potenzialmente neutre dal punto di vista dell’impatto burocratico (26,7%) e 389 presentano un impatto burocratico sulle imprese (61,8%): ogni tre norme fiscali promulgate, due aumentano i costi burocratici per le imprese. La politica di semplificazione appare come una tela di Penelope se per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico negativo sulle imprese. È del tutto evidente la necessità di procedere speditamente a una radicale semplificazione degli adempimenti tributari che gravano sulle imprese e sui cittadini. Per una reale semplificazione, però, è necessario non solo incidere sui singoli adempimenti ma anche rivedere le modalità con cui si giunge alla determinazione del reddito da tassare. Occorrono altri interventi, secondo gli artigiani, ma soprattutto bisogna metter mano ai regimi contabili delle imprese minori che sono la stragrande maggioranza del mondo produttivo: basti pensare che il 57,1% delle aziende applica un regime di contabilità semplificata mentre il 42,9% è in contabilità ordinaria. Circa 9 persone fisiche su 10 e 6 società di persone su 10 applicano la contabilità semplificata mentre le società di capitali sono interamente comprese nella contabilità ordinaria (obbligatoria).

Obiettivo primario, dunque, per le aziende è quello di armonizzare le aliquote. Ma con obiettivi e gradualità diverse. «In ordine di priorità – spiega Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato – bisogna introdurre un regime forfetario da riservare alle aziende di ridotte dimensioni (quelle che hanno ricavi tra 30 e 40mila euro) e con limitata struttura imprenditoriale che preveda pochissimi adempimenti contabili (solo conservazione dei documenti). Servirà poi modificare l’attuale regime semplificato per permettere la determinazione del reddito secondo il criterio della cassa. Tel regime favorirebbe anche quello dell’Iva per cassa, oggi poco utilizzato, in quanto i contribuenti per determinare il reddito restano costretti al rispetto del criterio di competenza economica. Avevamo salutato con grande entusiasmo quel provvedimento ma i legacci burocratici lo hanno reso impraticabile e solo così tornerebbe a essere utile. Altro provvedimento di grande efficacia è quello che prevede una specifica azione per favorire le start-up d’impresa riducendo il carico fiscale per i primi anni dell’avvio dell’attività». Ulteriore obiettivo è quello di uniformare il reddito d’imposta e favorire la capitalizzazione delle aziende. «La nostra proposta – spiega Fumagalli – prevede di mantenere l’imposta stabile per chi lascia il reddito nella sua impresa. In pratica, chi reinveste in azienda non sconterà più la tassazione progressiva bensì quella proporzionale nella misura del 27,5%. Si uniformerebbero le imprese indipendentemente dalla forma giuridica e si favorirebbe la capitalizzazione di imprese individuali e società di persone».

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Dal 1993 al 2012 lo Stato italiano ha speso 330 milioni per sovvenzionare 25 giornali legati ad altrettanti movimenti politici. Altri 90 milioni di contributi, c’è scritto nel rapporto sui costi della politica del commissario alla spending review Carlo Cottarelli e curato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon, li abbiamo versati a partire dal 2003 a sole sei emittenti radiofoniche. Più di 37 a Radio Radicale, 26 a Ecoradio, quasi 17 a Città Futura, 5,2 a Veneto Uno, 3,6 a Galileo e persino 1,3 a Onda Verde. Tutte cifre che si devono sommare ad altre voci che hanno costituito il più imponente sistema di finanziamento pubblico dei partiti del mondo occidentale. Con la differenza che in questo caso ci troviamo di fronte a una zona grigia dove il confine tra l’attività politica vera e propria e un altro genere di interessi può essere veramente labile. Anche grazie a una normativa compiacente. Basta citare l’assurdità per cui, fino a un decreto legge approvato nel 2012 dal governo Monti, il contributo ai giornali veniva erogato sulla base delle tirature e non delle copie effettivamente vendute, raccontano sempre gli esperti del team di Bordignon. Segnalando come le rese dei quotidiani di partito si aggirino «in media intorno al 90%, da confrontarsi con il 22% del Corriere della sera e di Repubblica».

Ma questa zona grigia, insistono gli autori di questa parte del rapporto (Paolo Balduzzi, Marco Gambaro e Riccardo Puglisi), non è l’unica nella quale il limite fra finanziamento dei partiti e costi “indiretti” della politica è alquanto fumoso. Ci sono altre aree «che raggiungono dimensioni rilevanti e generano spesa strutturale» con «ordini di grandezza probabilmente superiori ai finanziamenti diretti ai partiti». Per esempio, i servizi reali di cui i politici godono nelle strutture di governo centrale e locale. Strutture nelle quali spesso «le remunerazioni sono inflazionate rispetto alle prestazioni richieste». E i politici «operano in modo da inserire persone appartenenti alla stessa area, indipendentemente dal merito e dal profilo professionale: si tratta in questo caso di premi o di pagamenti indiretti». Per non parlare di quelle «risorse degli apparati amministrativi che risultano di fatto al servizio dei politici», prefigurando «un uso privato e improprio di risorse pubbliche». Caso tipico, quello dell’impiego dei mezzi di un ministeri o di una Regione per i viaggi elettorali.

Poi ci sono le aziende pubbliche. Dove le nomine, dice il rapporto, sono politiche e dove spesso ai cambi di maggioranza corrispondono cambi di dirigenti apicali e a seguire dei livelli appena inferiori,senza che i precedenti dirigenti siano rimossi. Questi ultimi continuano a mantenere ruolo e salario, «pur essendo di fatto spinti in posizioni organizzative marginali». Non si spiega forse così il numero abnorme e crescente di società ed enti pubblici, che fra centro e periferia ha ormai superato ampiamente quota 8 mila e che Cottarelli ha definito «una situazione anomale nel contesto internazionale»?

Cessioni, servono vere aperture

Cessioni, servono vere aperture

Nicola SalduttiCorriere economia

Il governo ha indicato nel Piano nazionale di riforma un obiettivo chiaro: nel 2014 gli incassi da privatizzazioni dovrebbero arrivare a 9-10 miliardi. Somma che serve ad alimentare il fondo di ammortamento per l’acquisto di titoli del debito pubblico. Un legame diretto: meno beni di Stato e meno debiti. Una formula virtuosa che sembra essersi inceppata. Un obiettivo che, alla luce dei possibili rinvii, appare meno probabile di qualche mese fa. Sul fronte delle cessioni immobiliari il Demanio continua a insistere, ma la situazione del mercato non appare favorevole. Sembra invece abbastanza probabile un ulteriore passo indietro nelle due società-simbolo dello Stato azionista, Eni ed Enel. Il Tesoro e la Cassa Depositi potrebbero cedere un altro pacchetto. Ma in questo caso molto dipenderà dalla capacità dei nuovi manager, appena nominati, di rendere i potenziali azionisti interessati alla nuova tranche. Perché una cosa è certa: a vent’anni dal grande avvio delle privatizzazioni, una stagione che ha consentito alla Borsa italiana di compiere il grande salto, quasi raddoppiando la sua capitalizzazione, che ha visto 7-8 milioni di italiani diventare azionisti, adesso le cessioni di Stato sono diventate una materia più complicata. Non è un caso che le banche d’affari stiano proponendo la possibilità di studiare la formula dei prestiti convertibili (utilizzati finora soltanto per l’uscita dello Stato dall’Ina, l’Istituto nazionale delle Assicurazioni, poi confluita nelle Assicurazioni Generali). La vera scommessa a questo punto potrebbe partire dai Comuni, una volta concluso il lavoro di Corrarelli sulla spending review. Con due passaggi indispensabili, ormai: le possibili fusioni tra le municipalizzate e la discesa (a largo raggio) degli enti locali sotto la fatidica soglia del 15% e con un ruolo di governance molto più defilato. Come dire, le privatizzazioni. Quelle vere.

Lavoro, rinvii e distrazioni

Lavoro, rinvii e distrazioni

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

L’Italia sta chiedendo più flessibilità all’Europa sulle regole di bilancio e in cambio promette incisive riforme economiche. La partita è delicata, ma non potrà iniziare sul serio se il governo Renzi non dà prima qualche segnale immediato sulle riforme. Il fronte su cui, giustamente, vi sono le maggiori aspettative è il mercato del lavoro, che funziona malissimo e ostacola la crescita.
I dati parlano chiaro. Su cento italiani fra 20 e 64 anni, meno di 60 hanno un’occupazione. In Germania sono 77, nel Regno Unito 75, in Francia 70. Anche negli altri Paesi c’è stata la crisi, perciò non si può dar la colpa solo a questo. La distanza rispetto ai valori dell’area euro era già molto alta prima del 2008. Nello scorso maggio si sono creati 50 mila nuovi posti di lavoro. È una buona notizia, ma nello stesso mese la Germania ne ha creati (fatte le debite proporzioni) quattro volte di più. Dobbiamo cambiare passo, e alla svelta.
I problemi «strutturali» del mercato del lavoro italiano sono noti. I servizi per l’impiego sono inefficienti e molte imprese non trovano persone con le qualifiche richieste. La cassa integrazione tiene artificialmente in vita aziende e posti di lavoro decotti, mentre gli ammortizzatori sociali non proteggono adeguatamente i veri disoccupati. Fisco e burocrazia scoraggiano gli investimenti, in particolare dall’estero. E, soprattutto, i rapporti di lavoro sono disciplinati da una giungla di norme e di fattispecie contrattuali, peraltro soggette a continui conflitti interpretativi. Oggi in Italia assumere è un vero e proprio terno al lotto.
Dal 1996 ad oggi sono state fatte tre grandi riforme (Treu, Biagi e Fornero). Il bilancio? Grandi ambizioni, misure non all’altezza degli obiettivi, applicazioni incomplete, niente valutazione. E nessuna modifica (o quasi) alla disciplina del lavoro a tempo indeterminato, risalente ai primi anni 70. Il credito che Matteo Renzi si è guadagnato a Bruxelles è in buona parte dovuto agli impegni presi sul fronte dell’occupazione. Il Jobs Act è stato presentato come un provvedimento capace di aggredire, questa volta davvero, i problemi strutturali, inclusa la rigidità in uscita. Sono finora seguite due iniziative concrete: il decreto Poletti sui contratti a termine e il disegno di legge delega sul mercato del lavoro. È proprio su quest’ultimo che il governo deve giocare bene le sue carte. Il testo contiene novità promettenti sugli ammortizzatori e sulle politiche attive. Ma il vero nodo è l’articolo 4 della delega, dove si prevede una drastica semplificazione del codice del lavoro, rendendolo finalmente certo e comprensibile. Verrebbe inoltre introdotto un contratto di lavoro a tempo indeterminato «a tutele crescenti» in sostituzione dell’attuale disciplina e un «contratto di ricollocazione» per accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto ad un altro. Queste innovazioni cambierebbero in modo virtuoso gli incentivi per imprese e lavoratori e segnerebbero una inequivocabile svolta rispetto al passato.
Riuscirà Matteo Renzi a far passare la riforma, superando le resistenze del sindacato e di una parte del Pd? La delega è ferma in Commissione al Senato e si rischia il voto finale a settembre. Un brutto segnale, che certo non depone a favore della serietà e fermezza d’intenti. È chiaro che l’articolo 4 è una forca caudina sul piano politico. Ma se Renzi non sarà capace di attraversarla, la sua credibilità riformatrice ne uscirà indebolita. Forse irrimediabilmente.

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tagliare, razionalizzare, fondere. Ed alla fine anche privatizzare, portando le aziende fuori dal controllo pubblico. È questa la direttrice di marcia del governo per il dossier società partecipate: categoria omnicomprensiva che comprende anche le utilities, quelle che si occupano cioè dei servizi pubblici locali come acqua, elettricità, rifiuti. Il cantiere è aperto ed è anche piuttosto ampio, visto che sono vari i provvedimenti annunciati sul tema: le prime indicazioni concrete dovrebbero arrivare entro questo mese con le proposte elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, sul capitolo specifico delle partecipazioni di Regioni e Comuni. Lo sbocco sarebbe poi la legge di stabilità.

L’argomento è stato inserito anche nella versione finale del disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 11 e tuttora atteso in Parlamento. Per la precisione si tratta di due articoli, nell’ambito del processo di semplificazione normativa, dedicati rispettivamente alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali. Sono in entrambi i casi deleghe, per cui al momento vengono fissate le linee guida di provvedimenti che poi dovranno essere specificati nel dettaglio dallo stesso governo.

I criteri indicati per quel che riguarda le società partecipate sono in linea con quelli a cui – seppur in forma discorsiva – ha già accennato lo stesso Cottarelli nei suoi interventi pubblici: distinzione delle società in base all’attività svolta; possibile reinternalizzazione di quelle che si occupano di servizi strumentali o di funzioni amministrative; definizione di strumenti che evitino effetti distorsivi sulla concorrenza nel caso di attività di interesse economico generale; introduzione di obiettivi di efficienze e di economicità; utlizzo per acquisti e personale delle stesse modalità operative (e quindi dei vincoli) delle amministrazioni pubbliche; eliminazione di sovrapposte.

I particolare per i servizi pubblici locali si punta a definire «ambiti territoriali ottimali», a rafforzare la trasparenza delle procedure di affidamento e a disciplinare i regimi di proprietà e di gestione delle reti. Dunque per una parte consistente delle attuali società (sono circa 10mila solo quelle degli enti territoriali) il destino è la chiusura o il ritorno all’interno della pubblica amministrazione propriamente detta. Proprio Cottarelli ha recentemente ricordato che secondo i dati Cerved ne esistono 2.671 in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti: veri e propri poltronifici insomma. Altre aziende saranno accorpate con un programma di fusioni su base territoriale. Ma per le aziende che rimarranno ed in particolare per quelle che erogano servizi pubblici il governo pensa anche ad una soluzione più estrema: la cessione del controllo ai privati. Questa possibilità è menzionata in un recentissimo documento in inglese del ministero dell’Economia: le utilities vengono inserite nel programma di privatizzazioni accanto a Poste, Eni, Enel e Ferrovie ed alle altre società pubbliche; per loro si parla di «apertura del controllo ai privati». Privati che attualmente sono presenti ma come soci di minoranza rispetto agli enti locali.