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Piano Juncker, come verranno scelti i progetti?
Redazione Edicola - Opinioni europa, formiche, giuseppe pennisi, Jean-Claude Juncker
Giuseppe Pennisi – Formiche
Sembra un problema giuridico di lana caprina. Tutti gli addetti ai lavori sanno che un Comitato per gli Investimenti di otto esperti di alto livello farà proposte di finanziamento sulla base di istruttorie ed analisi di valutazione effettuate in sostanza dal personale Bei. Al momento della stesura di questo articolo, il regolamento del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (Feis) è ancora al vaglio del Parlamento Europeo e le procedure di nomina e di incarico dei componenti del Comitato per gli Investimenti sono ancora in fase negoziale nell’ambito dell’Ecofin. Un negoziato non certo facile, anche perché Francia e Germania sostengono di avere messo il cappello su due degli otto seggi.
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Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale
Redazione Editoriali ambientalismo, carlo lottieri, ecologia, impresalavoro
Carlo Lottieri
Se per alcuni anni sono sembrati rappresentare anche in Italia una novità di successo e un movimento con il veto in poppa, da tempo gli ecologisti sono in crisi di prospettive e visibilità. In sostanza, quel che resta del movimento verde fa ormai da stampella alla sinistra di Niki Vendola, ma in una posizione sostanzialmente subordinata.
L’eclisse dei verdi come partito, però, non sembra essere accompagnata da un accantonamento della loro ideologia, che anzi è stata abbracciata un po’ da tutti: a destra come a sinistra. Il guaio è che lo statalismo ecologista non rappresenta una risposta adeguata dinanzi alle difficoltà su cui richiama l’attenzione e anzi, in molti casi – anche al di là delle intenzioni – esso finisce perfino per aggravare i problemi.
Si tratta allora di immaginare un altro ambientalismo; ed è interessante rilevare come nel corso degli ultimi quindici anni l’editoria italiana abbia iniziato a dare spazio a quell’ecologia di mercato che affronta quei temi senza sacrificare la libertà individuale e il progresso economico sull’altare di una presunta sacralità della natura.
La prima cosa che uscì fu una piccola antologia, curata da Guglielmo Piombini e dal sottoscritto (Privatizziamo il chiaro di luna!, pubblicata nel 2001 da Leonardo Facco Editore), ma in seguito questa biblioteca controcorrente si è allargata sempre più. Un volume di straordinario interesse che da alcuni anni è pure disponibile in italiano è quello scritto dagli americani Terry L. Anderson e Donald R. Leal: L’ecologia di mercato. Una via liberale alla tutela dell’ambiente (edito nel 2008 da Lindau). Impegnati nell’applicazione di soluzioni innovative ai problemi ambientali, gli autori si focalizzano sulla necessità di definire e proteggere titoli di proprietà commerciabili. La tesi di Anderson e Leal è che se l’ambiente è di tutti (e quindi di nessuno), mancheranno gli incentivi a prendersene cura. I due studiosi non si limitano allora a mostrare i fallimenti dell’ecologismo, ma al tempo stesso sottolineano l’esigenza di responsabilizzare sempre più i comportamenti dei singoli, usando la proprietà per proteggere la natura stessa. La ricerca illustra molti casi concreti all’interno dei quali si è adottata una logica imprenditoriale ed è proprio dall’esame di queste esperienze che l’ecologia di mercato si rivela uno strumento fondamentale.
Per un lungo periodo, però, anni, la letteratura liberale sull’ambiente si è mossa soprattutto sulla difensiva: cercando di limitare le conseguenze più nefaste di una propaganda basata su nozioni equivoche come “sviluppo sostenibile”, “diritti delle generazioni future” e “principio di precauzione”. Lo stesso volume del danese Bjørn Lomborg (L’ambientalista scettico, pubblicato da Mondadori nel 2010) ha rappresentato più una dura requisitoria verso ogni allarmismo ingiustificato che non una proposta alternativa.
Lo studio di Anderson e Leal ci dice invece che oggi è possibile essere propositivi anche in questioni che fino a poco fa erano veri e propri tabù. La situazione sta insomma iniziando a mutare, a riprova che si più imbrogliare molta gente per un breve periodo di tempo, e anche un piccolo gruppo di persone per molto tempo, ma è difficile che una serie di sciocchezze vengano accettate da un gran numero di persone e per molti anni.
In questo senso va segnalato anche il volume di Henry I. Miller e Gregory Conko, Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta (edito sempre da Lindau e pubblicato nel 2008), in cui i due studiosi dissolvono i pregiudizi che ostacolano l’utilizzo delle biotecnologie in ambito agricolo, impedendoci di trarre beneficio dall’innovazione. Gli autori mostrano quale intreccio di interessi sia schierato a difesa di una demonizzazione (specialmente europea) che frena la ricerca, mantiene alti i prezzi e obbliga a utilizzare ampie estensioni. Quest’ultimo punto è interessante perché rileva come in questo caso – come già nella vicenda della mucca pazza, del bioetanolo, del Ddt e in altri casi simili – siano state proprio le tesi ecologiste a causare problemi rilevanti alla salute e allo stesso rapporto tra uomo e natura.
Anche sulle questioni energetiche sono ormai le prospettive liberali a rivelarsi meglio in grado di affrontare il futuro. Evidenziando che non saranno il solare o l’eolico a risolvere i nostri problemi, un esperto di questioni energetiche quale Carlo Stagnaro – direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni – nel 2005 aveva curato un volume (Più energia per tutti. Perché la concorrenza funziona, edito da Leonardo Facco) nel quale aveva mostrato come più competizione in tale settore significhi una maggiore efficienza per l’economia nel suo insieme: e come per questo sia necessario non già moltiplicare i vincoli, ma invece rimuovere le barriere all’ingresso, alleggerire la regolamentazione, evitare una tassazione discriminatoria delle fonti.
Qualche anno dopo Stagnaro – che da qualche mese è consulente del ministro Guidi – è tornato su tale problema con una corposa ricerca, nella quale ha coinvolto un gran numero di esperti. Intitolato Sicurezza energetica. Petrolio e gas tra mercato, ambiente e geopolitica (edito da Rubbettino) lo studio ha analizzato i problemi dell’energia attraverso tre principali fattori: le politiche economiche, le politiche ambientali e la politica internazionale. Ne è derivata una proposta che è un mix di fiducia nella razionalità umana, difesa del mercato, riduzione dei conflitti internazionali (grazie a relazioni politiche improntate alla negoziazione e agli scambi).
“Pace e commercio” era la divisa dei liberali fin nell’Amsterdam secentesca, ma può essere uno slogan efficace ancora oggi per affrontare con realismo questioni su cui gli ecologisti verde-rossi hanno davvero ben poco da dire.
Punto Economia – Puntata n.4
Redazione Media davide giacalone, impresalavoro, massimo blasoni, Punto Economia, simone bressan, telefriuli
L’approfondimento di Telefriuli curato dal Centro Studi ImpresaLavoro, in onda ogni giovedì alle 20.15 – Puntata del 6 marzo 2015
Arriva la dichiarazione pre-complicata
Redazione Editoriali burocrazia, davide giacalone, dichiarazione dei redditi, impresalavoro, semplificazione
Arriva la dichiarazione pre-complicata – Videocommento di Davide Giacalone
Sinistra in confusione totale anche sulla banda larga
Redazione Edicola - Opinioni banda larga, davide giacalone, libero, sinistra
Davide Giacalone – Libero
A perdere la memoria si rischia di far sempre gli stessi errori. Cosa che, nel campo delle telecomunicazioni, sta avvenendo. Ronald Reagan non perse lo spirito, quando gli fu diagnosticato l’Alzheimer, e disse che si trattava di una malattia promettente: ogni giorno incontri un sacco di persone nuove. Ma qui siamo all’epidemia, visto che al governo sembra non conoscano il passato e giocano a mosca cieca con il presente. Prima fanno girare l’ipotesi di un decreto legge che stabilisce la data di decesso del solo asset di valore che si trova nel patrimonio di Telecom italia, la rete fissa e le sue terminazioni in rame. Poi smentiscono con risolutezza. Quindi il decreto diventa un «piano», nel quale si leggono quali sono le mete da raggiungere. Che poi sono quelle già stabilite in sede europea, rispetto alle quali siamo indietro.
Come si recupera? a. Il governo non farà scelte tecnologiche, che competono al mercato; b. Investiremo 6 miliardi nelle reti. E che ci comprate? Perché se investite una scelta dovrete pur farla, e, nel caso in cui l’amnesia si sia fatta strada, ricordo a tutti che il governo, per il tramite della Cassa depositi e prestiti, è proprietario di una società (Metroweb) che investe nella rete in fibra ottica. Alla faccia delle scelte che spettano al mercato! Restiamo alle amnesie. Yoram Gutgeld scrive, su Il Foglio, una cosa giusta: se l’ltalia è indietro ciò lo si deve anche al fatto che non abbiamo la televisione via cavo, ovvero reti tv che potrebbero far concorrenza a quelle tlc. Vero. Ma deve essersi dimenticato il perché: non le abbiamo perché fu protetto il mercato della Rai, violando il diritto ad operare di imprenditori privati. Che esistevano, eccome. Nel 1973 Ugo La Malfa ci fece cadere un governo Andreotti, proprio perché il ministro Giovanni Gioia difendeva un monopolio già allora anacronistico.
Che fare? L’Italia è molto indietro, nella penetrazione della larga banda, ma quella che esiste è occupata solo in parte. Vogliamo la casa più grande, ma già viviamo nel tinello di quella piccola. Come si spiega? Capita perché, in questi giorni, faccio avanti e indietro con il portone d’ufficio per ritirare le CU (certificazioni uniche), e mi va anche bene, perché se sono fuori, essendo raccomandate con ricevuta di ritorno, mi tocca andarle a prendere all’ufficio postale. Per essere in regola con un adempimento fiscale, relativo a soldi già incassati e ritenute già pagate, accumulo carta. Tale carta andrà al commercialista, ma già si sa che è in parte irregolare, perché il governo ha reso noto il modello da utilizzare solo il 23 febbraio, talché molti non si sono adeguati. Il commercialista trasmetterà tutto al fisco, il quale ci darà una dichiarazione non precompilata, ma precomplicata, che butteremo nel cestino, giacché non contiene la detrazione delle spese. Ecco come si spiega: un’amministrazione pubblica che non lavora in digitale.
Non a caso Gutgeld, che fa il consigliere a Palazzo Chigi, neanche sa che tutte le scuole sono già connesse in rete, mentre crede che scarseggino. E non lo sa perché le scuole ci fanno solo l’amministrazione del personale. Ecco, è lì che il governo deve lavorare, spingendo l’offerta digitale, creando interesse alla capillarizzazione delle reti e adottando i pagamenti elettronici presso le sedi proprie. Senza giocare al piccolo comunicatore. E senza coltivare sospette amnesie.
ImpresaLavoro: “Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi”
Redazione Media banche, credito, fvg, impresalavoro, prestiti, tgr
Servizio del TGR Rai del Friuli – Venezia Giulia andato in onda il 3 marzo 2014 riguardante i dati diffusi dallo studio di ImpresaLavoro: “Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi”.
Produttività, l’Italia perde punti preziosi
Redazione Scrivono di noi carola olmi, impresalavoro, la notizia, massimo blasoni, produttività
Carola Olmi – La Notizia
L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007 stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Per comprendere se un Paese sia più o meno competitivo, occorre però analizzare il livello non soltanto dei salari reali ma anche quello della produttività. E in Italia questa è sensibilmente diminuita.
Le cause sono sia la scarsa attitudine delle nostre imprese e dello Stato a investire in ricerca e sviluppo sia la crescita a un ritmo sempre più basso dello stock di capitale utile alla produzione (un dato che serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa). Significa che senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività, ma anche che senza investimenti non avremo mai alcuna innovazione. Lo dimostra una ricerca realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni.
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L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, inps, lavoro, libero, tito boeri
Davide Giacalone – Libero
L’Italia ha bisogno di chiamare molte più persone al lavoro, non di inventare un reddito per chi non lavora. Finché coltiveremo l’illusione che il reddito sia un diritto e la produzione una eventualità continueremo a perdere competitività, impoverendoci. Nella sua prima intervista da presidente dell’Inps il prof. Tito Boeri dice, da par suo, almeno quattro cose interessanti. La prima, però, merita subito che la precisi e chiarisca: «Bisognerebbe spendere meglio le risorse pubbliche, prevedendo ad esempio un reddito minimo per contrastare le situazioni di povertà, finanziato dalla fiscalità generale». Se per reddito minimo s’intende una retribuzione base per chiunque lavori, è un conto. Da fare. Se s’intende quello che in politichese chiamano «reddito di cittadinanza» è tutt’altro, e va malissimo.
Con la partenza (positiva, se parte) del contratto di lavoro a tutele crescenti, per cui si cancella la non licenziabilità e si acquistano diritti con il passare del tempo, è naturale che cambino gli ammortizzatori sociali e sparisca la cassa integrazione. Ciò comporta disponibilità di fondi adeguati. E già sappiamo che sulla carta ci sono fino all’anno prossimo, mentre dal 2017 scarseggiano e la copertura, in caso di disoccupazione diminuisce. Male, perché son nozze con i fichi secchi. Può starci che si fissi un reddito minimo, che sia tale di nome e di fatto. Come è successo in Germania. Se, invece, andiamo al reddito di cittadinanza, cioè ai soldi elargiti per il solo fatto di esistere, allora ricorderemo i forestali della Calabria come preclaro esempio di sana amministrazione e lodevole dedizione al lavoro. Se si accedesse a una follia di quel tipo, restando ignoto dove mai si possano prendere i soldi, rivaluteremmo le pensioni regalate. Voglio credere che Boeri non abbia sostenuto nulla di simile, ma sarà bene lo spieghi anche agli altri. Mi domando, altrimenti, perché mai un giovane, o anche un maturo, debba andare a faticare per incassare 100 o 200 euro in più di quelli che riceverebbe stando con le mani in mano. O, meglio, usandole per fare lavori in nero. Senza contare la fucina delle truffe, per cui un solo posto di lavoro genera un pensionato, un disoccupato e un occupato, dove uno è pagato dall’impresa e gli altri mantenuti dal contribuente.
Giusta l’idea di rendere flessibile l’età pensionabile, nel senso che ciascuno ha diritto di ritirarsi quando vuole, salvo il fatto che riscuoterà solo in ragione di quel che ha versato. E bene la trasparenza dei dati, che è la sola cosa che manca per avere ciascuno piena contezza di quanto prenderà di pensione. Non è questione di buste gialle o di pin, di carta o d’informatica, perché ci sono centinaia di società private che rendono disponibili, ai loro clienti, quelle previsioni. È la cosa più facile del mondo. Ma a una condizione: che siano chiari e trasparenti i dati. Questo è il problema dell’Inps. Sono sicuro che Boeri farà un buon lavoro, diradando le nebbie. Fatte queste due cose, resi noti i dati e flessibile l’età di uscita, però, ciascuno scoprirà d’essere povero. Le pensioni del futuro saranno più povere. Quelle giuste cose, quindi, hanno un senso non se servono a diffondere la depressione, ma se incentivano al risparmio integrativo. La qual cosa è possibile solo se cala la pressione fiscale. Il che è l’opposto del regalare redditi a chi non lavora. Per tornare da dove siamo partiti.
Boeri, infine, assicura di volere intervenire anche sulle pensioni in essere, laddove la distanza fra il capitale versato e il reddito che se ne ricava è eccessivo. Non illegale, perché tutto discende da leggi dissennate (modello reddito di cittadinanza), ma eccessivo. Così attacca il totem dei diritti acquisiti. Ha ragione e fa bene. Pronti a sostenerlo. Ma qui mi si consenta di avere meno sicurezze, giacché gli sarà difficile trovare qualcuno disposto a fare quel che è necessario. Non dimentichiamoci che la destra alzò le pensioni minime e la sinistra ha regalato gli 80 euro. Il partito della spesa pubblica è piuttosto ben attrezzato.
Assurdo combattere l’Europa, non ci sarà ripresa senza Bce
Redazione Edicola - Opinioni bce, davide giacalone, europa, libero, ripresa
Davide Giacalone – Libero
Fra quanti sostengono il governo, specie all’interno del Partito democratico, ve ne sono non pochi che si rifiutano di riconoscere meriti all’azione dell’esecutivo, cominciando a non sopportarne più i (ai loro occhi) demeriti. Singolare, quindi, che fra chi si oppone al governo, specie leghisti e ortotteri, ci sia chi s’affanna nell’attribuirgli meriti che non ha. Perché la ripresa c’è, la dobbiamo alle politiche espansive della Banca centrale europea e ne approfitteremo, per nostre colpe, solo a metà. Accusare il governo d’essere «servo dell’Europa», o proporre come risolutiva l’uscita dall’euro, significa non accorgersi dell’evidenza: la ripresa viene da lì, mentre le arretratezze stanno qui.
Come è possibile un simile abbaglio? Una fregnaccia s’aggira per l’Europa: l’idea che le democrazie non contino più, che gli elettori siano superflui, che le regole dell’economia e dei bilanci abbiano usurpato le sovranità nazionali, a loro volta viste come fonte d’identità e ricchezza, in una cancellazione totale della memoria. La leggenda è bella e accattivante, perché consente ai ricchi di far la parte dei depredati e ai viziati di far quella degli oppressi. Tale confusione porta certi slogan ad essere, a seconda dei casi e delle nazionalità, sulla bocca dell’estrema destra o dell’estrema sinistra. Infatti la destra francese o italiana ha guardato con trasporto alla sinistra greca, incassando la delusione per i «cedimenti». Ma può un popolo votare contro i propri debiti? Quella non è democrazia, è surrealismo.
In passato i nazionalismi hanno fatto valere la forza del sangue e la voglia di espandersi territorialmente, provocando guerre e spargimenti di sangue. Quel che ieri erano confini territoriali oggi lo sono finanziari: non si cancellano senza dolore. Noi europei, tutti assieme, siamo il 7 per cento della popolazione mondiale (noi italiani siamo lo 0,8 per cento, i tedeschi l’1,1 per cento, microscopici), produciamo il 25 per cento della ricchezza globale, ne deteniamo il 30 per cento e consumiamo il 50 per cento della spesa sociale. A far la parte dei poveri non siamo credibili e per giunta viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Semmai c’è un problema di giustizia sociale.
Avendo usato la prima metà del secolo scorso per massacrarci, abbiamo pensato bene d’istituzionalizzare la convivenza pacifica. Quando la guerra fredda s’è scongelata, aprendosi le frontiere e partendo la globalizzazione, ci siamo accorti che, pur forti e ricchi, non lo eravamo abbastanza per bilanciare la forza dei mercati e della finanza. Sapete qual è il bello? Che l’Unione europea era il rimedio, così come l’euro era l’antidoto alla supremazia interna tedesca. Se le cose sono andate diversamente non è colpa né del destino né dei tedeschi, ma di classi dirigenti che hanno perpetuato la loro inutile sopravvivenza mettendola in conto alla spesa pubblica improduttiva. Così siamo arrivati a un sistema che effettivamente non funziona, ma non per eccesso di tecnocrazia, bensì per deficit di democrazia. Giacché gli europei non eleggono quel che conta (un governo europeo), ma votano per quel che non sapendo cos’altro dire va cianciando delle colpe europee. Che sono nazionali.
Vale per tutto il continente. Francia e Italia sono i due giganti schiacciati dalle proprie bubbole. Che oggi concimano il terreno alle forze anti sistema, i quali scoprono la comoda via d’identificarlo con l’Europa. E chi se ne frega se le sole politiche espansive esistenti sono quelle della Banca centrale europea, si ripudi la bandiera blu per ripudiare gli obblighi derivanti dai debiti. Che la mattina dopo sarebbero insostenibili, difatti i greci, che sono demagoghi ma non fessi, se ne guardano bene. Occhio alla fregnaccia, perché ha la grande forza delle banalità che sembrano sgominare le complessità. Forza che, sommata ai difetti strutturali della costruzione europea, può produrre effetti molto dolorosi.