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Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Nicola Imberti – Il Tempo

Quando si parla dei numeri del sindacato, bene che vada, si finisce in tribunale. Oppure, come capitato ieri con l’accusa lanciata dall’eurodeputata Pd Pina Picierno nel salotto televisivo di Agorà, si scatena la solita e annosa polemica che ruota attorno ad una semplice domanda: quanti sono veramente i lavoratori iscritti? I numeri, come ha spiegato la Cgil, non sono segreti. Basta visitare i siti delle tre principali confederazioni per sapere che, nel 2013, il sindacato guidato da Susanna Camusso contava 5.686.201 tesserati (26.432 in meno del 2012), la Cisl 4.372.280 (-70.470), la Uil 2.206.181 (+9.739). Ma a questo punto si insinua il dubbio: sono tutti veri?

Rispondere non è semplice. Ci provò due anni fa la Confsal, Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori, che, dati alla mano, lanciò un’accusa non molto distante da quella di Picierno. L’analisi prendeva come base di riferimento gli iscritti 2010 delle cinque confederazioni principali: Cgil, Cisl, Ugl, Uil e Confsal. In totale 16.671.308 lavoratori. Le prime anomalie riguardavano i pensionati. Secondo l’Inps (numeri certificati al 1° gennaio 2012) quelli tesserati dalle cinque sigle sindacali ammontavano a 4.907.363. Aggiungendo quelli Inpdap (427.517) e i 347.195 di altri istituti si arrivava a un totale di 5.682.075. Peccato che Cgil & Co. avessero dichiarato 6.957.126 pensionati iscritti. Esattamente 1.275.051 in più dei dati ufficiali.

Non andava meglio con gli altri lavoratori. Anche se qui, purtroppo, bisognava affidarsi a stime e dati più o meno ufficiali. Come quello che indicava nel 33,8% il tasso medio di sindacalizzazione in Italia. Confsal fissa in 19.650.000 gli impiegati nel settore privato. Applicando il tasso di riferimento elaborava che 6.641.700 di questi erano iscritti al sindacato. Ma anche qui le confederazioni ne avevano dichiarati quasi due milioni in più, esattamente 8.623.585. Una semplice somma ed ecco il risultato choc: esisteva uno scarto di 3.240.051 lavoratori tra quelli dichiarati e quelli che figuravano nelle statistiche ufficiali e certificate. Oltre 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno continua a parlare.

Certo, qualcuno può obiettare che lo studio della Confsal si riferisce a due anni fa. Ma la verità è che ad oggi quella denuncia è rimasta sostanzialmente inascoltata. Erano numeri che avrebbero dovuto aprire una riflessione. Soprattutto perché, in alcuni casi, la discrepanza tra i pensionati «dichiarati» e quelli «certificati» registrava percentuali significative come il +91,08% dell’Ugl (che attaccò duramente lo studio), ma anche un +8,34% della stessa Confsal.

Invece nulla è cambiato. Basta dire che poco meno di un mese fa si è conclusa, con l’assoluzione di tutti gli imputati, una vicenda che sembra confermare le oscure manovre attorno alle tessere sindacali. Una vicenda iniziata nel 2009 quando i carabinieri di Piacenza, dopo un esposto dell’allora segretario Cgil Gianni Coppelli, avevano scoperto che 129 persone erano iscritte a loro insaputa allo Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, subendo ogni mese un prelievo di 6-7 euro (tra di loro anche la madre del giudice per le indagini preliminari). Nel mirino dei magistrati erano finite 5 persone, ma alla fine il pm ne ha chiesto l’assoluzione perché «non è stato possibile stabilire con chiarezza chi abbia iscritto i pensionati». E Piacenza non è l’unico caso di tesseramenti anomali. Lo scorso marzo la Cgil di Grosseto è stata costretta a diramare una nota in cui spiegava di non avere nulla a che fare con dei «tentativi di truffa» in cui qualcuno, non si sa bene chi, cercava di vendere tessere false ad anziani.

Insomma, anche se è difficile capire quanto sia realmente esteso, il problema esiste. E molto spesso, come nel caso di Piacenza, è la stessa Cgil a denunciare che qualcosa non va. Altre volte, invece, se qualcuno come Picierno si azzarda a pronunciare la parola «tessere false» esplode la polemica. E intanto, sullo sfondo, restano 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno vuole parlare.

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Finora «sono stati impegnati 561 milioni di euro» (sugli oltre 1,5 miliardi complessivi a disposizione di Garanzia giovani per il biennio 2014-2015); ma la programmazione attuativa nei territori va avanti ancora a passo lento. Solo 12 regioni (Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, provincia autonoma di Trento) hanno pubblicato avvisi per misure dirette ai Neet; il Piemonte è in dirittura d’arrivo, mentre la Calabria è «in grave ritardo».

Registrati 262mila giovani Neet
I giovani registrati al programma Ue antidisoccupazione giovanile, partito in Italia lo scorso 1° maggio, sono poco più di 260mila (262.171 al 23 ottobre – appena 62mila hanno fatto un primo colloquio con i servizi per l’impiego). Le opportunità di lavoro pubblicate sono 19.109, per un totale di 27.393 posti disponibili (il 71,6% delle occasioni è concentrata al Nord, il 14,6% al Centro, il 13,8% al Sud, solo lo 0,1% all’estero). La fotografia sullo stato di avanzamento di «Youth Guarantee» è stata scattata, ieri, direttamente dal ministro, Giuliano Poletti, nel corso di un’audizione dinnanzi la commissione Lavoro del Senato, presieduta da Maurizio Sacconi. A livello internazionale solo Italia e Francia hanno approvato piani attuativi di Garanzia giovani (gli altri paesi sono indietro). Ma da noi, da Milano a Palermo, «la messa a punto» del programma viaggia a macchia di leopardo: «Alcune regioni, come Lombardia e Piemonte, sono più avanti perchè disponevano già di piani territoriali per i giovani. Altre sono indietro».

Risorse da impegnare entro il 2015
Il punto, ha ricordato Poletti, è che le risorse vanno impegnate entro fine 2015 (tassativamente). Poi possono essere spese nell’arco dei tre anni successivi. Finora sono stati impegnati circa 230 milioni per le misure nazionali (oltre 188 milioni per il bonus occupazionale e quasi 40 milioni per il servizio civile). Altri 70 milioni (nazionali) sono in corso d’impegno. Mentre le risorse oggetto di programmazione attuativa regionale sono poco più di 260 milioni, il 22,01% degli 1,1 miliardi totali (al netto dei fondi per bonus occupazionale e servizio civile). Il ministero del Lavoro «sta operando a stretto contatto con le Regioni – ha detto il dg per le politiche attive, i servizi per il lavoro e la formazione, Salvatore Pirrone -. Da un lato, stiamo monitorando le iniziative già messe in campo, dall’altro cerchiamo di dare una spinta propulsiva». Del resto, gli iscritti a Garanzia giovani viaggiano al ritmo di 50mila giovani Neet al mese, e con i soldi attualmente a disposizione il servizio potrà essere garantito «potenzialmente a 4-500mila ragazzi». «Il ministro ci ha dato l’immagine di un piano nazionale che solo alcune Regioni riescono in qualche misura a implementare, sia pure con un generale ritardo – ha commentato il giuslavorista, senatore di Sc, Pietro Ichino -. Cè il grave rischio che gran parte delle risorse messe a disposizione dall’Ue restino inutilizzate».

Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.

Il flop della Garanzia Giovani

Il flop della Garanzia Giovani

Metronews

«Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario “Garanzia Giovani”, attuata in ordine sparso dalle Regioni, si è rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte». Lo rivela una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti. «A maggior ragione – sosiene lo studio – se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (quelli non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili nel nostro Paese in circa 1,27 milioni». L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.

«Una montagna di denaro pubblico – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – che ha partorito un costosissimo topolino». Al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Dall’inizio del programma sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro 58.700 euro. «Sono stati offerti pochi posti perché l’economia non va e nessuno assume solo per un incentivo ma quando ne ha necessità» spiega ancora Palmerini. «Occorrerebbero interventi strutturali con l’adeguamento della formazione alle richieste del mercato e la ricucitura dello scollamento tra scuola e mondo del lavoro».

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.

Bonus bebè mensile, fondi più che dimezzati

Bonus bebè mensile, fondi più che dimezzati

Paolo Baroni – La Stampa

La coperta per il bonus mamma si fa più corta. Il passaggio della legge di Stabilità sotto la lente delle Ragioneria generale dello Stato ha lasciato il segno: già era stato introdotto un tetto di reddito complessivo per la famiglia pari a 90 mila euro, ma anche lo stanziamento è stato rivisto in maniera molto significativa. Domenica scorsa in tv il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva annunciato la novità spiegando che col nuovo anno alle neo-mamme sarebbe stato assegnato un bonus mensile di 80 euro finanziati coi 500 milioni di euro già stanziati a favore delle famiglie. In questo modo, secondo i primi calcoli, praticamente tutti i nuovi nati (che in media sono giusto 500 mila all’anno) avrebbero beneficiato del contributo.

La versione finale della legge di Stabilità in realtà ridimensiona in maniera significativa lo stanziamento. Per il 2015 non si parla più di 500 milioni a disposizione ma di 202 (i restanti 298 vanno ad un fondo ad hoc destinato sempre alle politiche familiari), quindi anziché 500mila i bonus finanziabili saranno meno della metà, 200 mila. Per il 2016 sono invece previsti 607 milioni, 1012 per il 2017 e per il 2018, e ancora 607 per il 2019 e 202 per il 2020.

Perché questo «taglio»? Perché nella versione originaria della proposta, quella lanciata domenica dal premier, il bonus bebè triennale – partendo da una spesa 2015 di mezzo miliardo – nel 2016 sarebbe costata 1 miliardo e addirittura a 1 mi- liardo e mezzo l’anno seguente. Troppo, per i severi controllori del Bilancio. Di qui l’intervento calmieratore: l’anno prossimo si parte con 200 milioni destinati poi a salire in maniera progressiva negli anni seguenti ma insufficienti comunque a coprire l’intera platea. Con la dotazione messa a disposizione nella versione finale del ddl, infatti, solo 4 neonati su dieci avranno diritto al bonus l’anno prossimo, diventeranno poi 6 su 10 nel 2016 e quasi sette su 10 nel 2017.

Il nuovo articolo 13 della legge di Stabilità mette poi nero su chiaro tutti i dettagli del provvedimento. «Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle relative spese per il sostegno – recita la norma – per ogni figlio nato o adottato a decorrere dal 1° gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, è riconosciuto un assegno di importo annuo di 960 euro erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione». Inoltre è previsto che l’assegno non concorra alla formazione del reddito complessivo sottoposto a tassazione Irpef e che venga corrisposto «fino al compimento del terzo anno d’età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione». Varrà per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro della Ue di cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno, residenti in Italia.

Come detto è previsto un tetto di reddito di 90.000 euro, limite che non vale più a partire dal quinto figlio (o adottato) in su. All’Inps, ente al quale le neo-mamme dovranno inoltrare le domande, spetterà anche il compito effettuare un monitoraggio e nel caso «si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa» è già previsto che il governo possa rideterminare sia l’importo annuo, riducendolo rispetto ai 960 euro di partenza, sia il tetto di reddito dei 90 mila euro.

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Bisognerà aspettare il testo definitivo del disegno di legge di Stabilità, quello che arriverà alla Camera. Ma se verrà confermato il nuovo regime fiscale sul Tfr (il Trattamento di fine rapporto) e sul fondi pensione, c’è da scommettere che questa sarà una delle parti sulle quali si concentreranno le richieste di modifica in Parlamento. Non solo perché le norme sarebbero retroattive, a partire dal 2014, ma perché penalizzanti sul piano fiscale. Bocciata, in particolare, l’operazione Ttr in busta paga. Non sarebbe per nulla conveniente trasferire il flusso annuale del trattamento di fine rapporto nella retribuzione mensile, nemmeno per quelle fasce di reddito che si collocano nella parte bassa.

Maurizio Benetti, esperto del settore ed ex dirigente generale dell’Inpdap, spiega che l’operazione non converrebbe neppure per le retribuzioni inferiori a 15 mila euro, quelle cioè che rientrano nel primo scaglione Irpef con aliquota del 23 per cento, questo perché, con l’aumento del reddito conseguente all’anticipo del trattamento di fine rapporto nello stipendio, diminuirebbero le detrazioni da lavoro dipendente e quindi «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%», un livello superiore a quello stabilito dal regime di tassazione separata previsto per chi lascia il Tfr in azienda e lo ritira al momento del pensionamento (liquidazione) oppure per chi se lo fa anticipare per gli usi consentiti dalla legge (acquisto della casa, spese per la salute, eccetera).

Per i redditi che arrivano fino a 15 mila euro infatti l’aliquota sarebbe intorno al 23%. E non scatterebbero le addizionali Irpef regionale e comunale, come invece sullo stipendio. Il governo, però, difende la manovra, sottolineando che si dà solo una possibilità in più al lavoratore il quale, se vuole, può prendere mensilmente il Tfr. Cariche di critiche arrivano in Parlamento anche le norme della manovra che prevedono l’aumento dall’11 per cento al 17 per cento dell’aliquota sulla rivalutazione annuale dello stesso trattamento di fine rapporto (ricordiamo che il possibile anticipo non vale per i dipendenti pubblici, i collaboratori domestici e i lavoratori agricoli) e al 20 per cento sui rendiment dei fondi pensione e al 26 per cento sugli investimenti delle casse previdenziali dei professionisti.

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.

La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.

Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.

Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.

Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.

La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie ( altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.

Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Antonio Castro – Libero

Non solo Matteo Renzi vuole aumentare le tasse sui rendimenti degli investimenti dei fondi pensione dei professionisti privati (dal 20 al 26%), e innalzare quelle sui guadagni realizzati con l’accumulo dei versamenti delle polizze integrative (dall’11,5 al 20%), ma intende anche farlo retroattivamente partendo dal 1˚ gennaio 2014, ovvero quando a Palazzo Chigi c’era ancora il suo predecessore Enrico Letta.

Spulciando tra le bozze (non bollinate) della legge di Stabilità 2015 è saltato fuori, infatti, che il balzello non si applicherà solo dal 2015, ma è addirittura retroattivo al gennaio scorso, in barba allo Statuto dei contribuenti e al buon senso. Casse private e fondi integrativi saranno sottoposti a un prelievo straordinario che, tirando le somme, supererà complessivamente i 500 milioni di euro. Prelievo che metterà in difficoltà le casse e che azzererà qualsiasi welfare di categoria (sussidi ai disoccupati, prestiti, case di riposo, ecc). Con un patrimonio di oltre 61 miliardi (di cui 8 investiti in titoli di Stato), le 19 casse previdenziali dei professionisti rappresentano del resto un tesoretto che fa gola a qualsiasi governo, ma che mai era stato così violentemente intaccato.

Da qualche anno, ai fini statistici Istat e Eurostat, il patrimonio privato delle Casse viene computato nelle voci in attivo dello Stato, come se si trattasse di asset pubblici. Ma si tratta solo di un giochino contabile (ideato dall’ex ministro Giulio Tremonti), per dimostrare a Bruxelles che i conti dell’Italia non sono/erano poi così disastrosi. In verità gli enti pensionistici rientrano nel «perimetro dello Stato», solo perché gestiscono un servizio pubblico (la previdenza), sono sottoposti al controllo dei ministeri vigilanti (Lavoro e Tesoro), ma neanche un euro di questi soldi viene dalle casse pubbliche. La privatizzazioni degli enti, e l’autonomia di gestione e investimento, è stata barattata decenni addietro (1995) dimostrando la sostenibilità attuariale dei conti previdenziali e garantendo così che la fiscalità pubblica non sarà costretta a coprire eventuali disavanzi. Di più: con la famosa ministra Elsa Fornero alle casse venne chiesto uno sforzo ulteriore: dimostrare la sostenibilità previdenziale e finanziaria a 50 anni.

Insomma, sono stati fatti i calcoli e applicati interventi e riforme per non far esaurire il patrimonio e garantire così, per il prossimo mezzo secolo, l’erogazione delle pensioni. Le casse hanno tutte (tranne una), superato questo stress test previdenziale, ottenendo dal ministero del Welfare il sigillo della sostenibilità. Se ora però si cambiano le regole e si raddoppia quasi la tassa sui rendimenti degli investimenti (unico caso in Europa di doppia imposta), c’è il rischio che alcuni enti non riescano a far quadrare i conti. E senza la sostenibilità futura potrebbe scattare il commissariamento da parte del Welfare e quindi l’assorbimento (patrimonio incluso) nel SuperInps, che nell’immediato avrebbe solo da guadagnarci dall’ingoiare i patrimoni dei professionisti. Solo che dopo questa annessione le pensioni accumulate (e i relativi contributi e rendimenti) verrebbero regolate dall’Inps, quindi dal governo. Domani, 23 ottobre, i presidenti delle Casse riuniti nell’Adepp, decideranno le contromisure. E hanno già minacciato di vendere in blocco gli investimenti in titoli della Repubblica italiana (8 miliardi circa).

E che dire del salasso sulla previdenza integrativa? Per decenni (dal 1993 all’altro ieri), governi ed esperti previdenziali ci hanno fato venire il mal di testa ripetendoci che dovevamo mettere da parte qualcosa in più per la vecchiaia, perché con il sistema contributivo meno generoso del retributivo sarebbero statiti guai. Ora la legge di stabilità consente di dilapidare il trattamento di fine rapporto (Tfr) per campare oggi da cicale, fregandosene del futuro di povertà. L’aumento della tassazione dei proventi percepiti dai fondi pensione integrativi (patrimonio 2013 110 miliardi), passa infatti dall’11,5% (era l’11% fino ad aprile, primo scippo targato Renzi), al 20%, e avrà efficacia retroattiva dal 1˚ gennaio 2014. C’è di buono che per chi avesse già incassato al momento della pubblicazione della legge (fine dicembre 2014?) il tesoretto personale messo da parte (per i vecchi iscritti è possibile infatti chiedere la liquidazione di tutto quanto accumulato invece di incassare una rendita mensile), dovrebbe scattare una parziale compensazione, ovvero il fisco non reclamerà le maggiori tasse sui riscatti avvenuti nell’anno. Anche per gli enti non commerciali e le fondazioni bancarie aumenterà retroattivamente l’imposta. In tutto Renzi è a caccia di 3,6 miliardi. Nero su bianco, sulle slide della scorsa settimana.