Edicola – Opinioni

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Nel gioco a due livelli in cui è impegnata Atene, le misure previste riguardano da un lato un maggiore impegno nella lotta all’evasione e nella produttività dell’amministrazione (‘credibilità’ rispetto ai partner dell’eurogruppo), dall’altro nell’aumento delle pensioni più basse (‘popolarità’ di fronte ai propri elettori). Un vero e proprio esercizio di equilibrio giacché Tsipras aveva fatto ben altre promesse in campagna elettorale.

Tuttavia, un supporto importante (per Tsipras) potrebbe venire da nuove stime sulla consistenza del debito. Secondo l’economista e finanziarie Paul B. Kazarian, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria con la quale ha acquistato alla grande titoli del debito pubblico greco, se si applicano criteri di contabilità aziendale (gli International Accountin Standards) e non quelli della contabilità economica nazionale il debito ‘netto’ della Grecia risulta notevolmente inferiore ai computi correnti. Pur non condividendo molti punti del documento di Kazarian, occorre ammettere che i numerosi riassetti effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale del debito sia inferiore al valore nominale: ciò è confermato indirettamente dal fatto che il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali. A spanne, si può dire che il peso del debito greco sul Pil scende da 318 miliardi di euro a circa 290 dando maggior spazio a tempi per l’aggiustamento strutturale.

Occorre però chiedersi se le misure contemplate nel documento della Grecia sono tali da favorire quella crescita accelerata che rimane l’unico rimedio per risolvere nel lungo periodo i nodi del Paese. Oggi viene pubblicato un documento del centro studi ImpresaLavoro che ha coordinato dieci pensatoi economici europei (ma non ce n’è alcuno greco) secondo cui l’ingrediente essenziale consiste nell’ampliare la libertà d’impresa. A conclusioni analoghe giunge un documento, diramato il 23 febbraio, in cui le banche nazionali di Belgio, Francia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, e la stessa Bce commentano (unitariamente) i primi due anni di applicazione di nuove regole del Fondo monetario sulla vigilanza e analisi economica in Europa.

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Renato Brunetta – Il Giornale

Jobs Act e investment compact : siamo tornati all’inglesorum di palazzo Chigi, definito da Guido Rossi ai tempi di D’Alema come «L’unica merchant bank in cui non si parla inglese». Oggi parliamo di Investment compact, balzato agli onori della cronaca per il pasticcio della riforma delle banche popolari. Le «questioni», di metodo e di merito, aperte sono diverse: 1) il ricorso, da parte del governo, allo strumento del decreto legge; 2) il rischio di insider trading e le altre indagini in corso 3) il merito della norma.

Il ricorso al decreto legge
La vicenda del decreto di riforma delle banche popolari rappresenta o rischia di rappresentare una delle pagine più oscure del governo Renzi. È di venerdì 16 gennaio, a chiusura dei mercati, la prima agenzia di stampa che annuncia l’imminente provvedimento. E la prima informazione ufficiale si riferisce, come affermato dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta in Parlamento, a una comunicazione che il presidente del Consiglio fa al suo partito, nel corso della riunione della direzione del Pd alle 17.30. Appare già strano che su una materia tanto sensibile un presidente del Consiglio decida di anticipare i contenuti e l’uso del decreto legge in una riunione di un club privato. Tanto più che inizialmente la riforma doveva essere prevista all’interno del disegno di legge sulla concorrenza ma, invece, improvvisamente, è diventata particolarmente urgente. Il 20 gennaio il consiglio dei ministri dà via libera al decreto che, effettivamente, contiene la norma che impone alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi di euro la trasformazione in società per azioni. Il governo, quindi, ha avuto la «sfrontatezza» di imporre per decreto una rivoluzione nella governance di un sistema che, negli anni della crisi e del credit crunch , è stato l’unico a ridare fiducia e credito a famiglie e imprese. Imposizione, quella del governo, priva di presupposti di necessità e urgenza, fondamentali, pena l’incostituzionalità del provvedimento, per poter emanare un decreto legge.

Il rischio di insider trading
Un altro aspetto della vicenda sono gli effetti che la notizia della riforma ha avuto sui mercati finanziari, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte. Non può, quindi, passare in secondo piano il dubbio di azioni promosse, in maniera consapevole e attenta, a seguito, evidentemente, dell’entrata in possesso di informazioni privilegiate. Ciò che si prefigura davanti ai nostri occhi e agli occhi dei cittadini è, pertanto, l’immagine di un governo che si presta, di fatto, a varie mani: mani che prendono informazioni, mani che cambiano testi all’ultimo momento, mani che scrivono all’ultimo momento, mani invisibili, mani di fata che, in realtà, hanno un ruolo chiave nell’attività dell’esecutivo.

Il merito della norma
Come sottolineato più volte dal governo, anche Fondo monetario internazionale, Commissione europea e Banca d’Italia hanno segnalato i rischi che il mantenimento della forma cooperativa determina per le banche popolari maggiori, quali: 1) la scarsa partecipazione dei soci in assemblea; 2) gli scarsi incentivi al controllo costante sugli amministratori; 3) la difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato e, quindi, di assicurare la sussistenza dei fondi che potrebbero essere necessari per esigenze di rafforzamento patrimoniale. In particolare, in un working paper dal titolo «Reforming the Corporate Governance of Italian Banks» , il Fondo Monetario Internazionale sosteneva la necessità per le banche popolari più grandi di trasformarsi in società per azioni. Le banche popolari nascono con un raggio di azione limitato ad aree geografiche definite, ma oggi la loro struttura attuale pare, agli occhi del Fmi, inadeguata, in quanto questo tipo di istituto di credito opera a livello nazionale e internazionale, e alcune di esse sono addirittura quotate in Borsa. Secondo il paper del Fondo, la riforma delle banche popolari migliorerebbe la governance di tali istituti.

L’anomalia della soglia degli 8 miliardi di attivo
Ma attenzione, né il Fondo monetario internazionale né la Banca d’Italia individuavano una soglia oltre la quale far intervenire la riforma. Ci si limitava a riferirsi agli istituti di maggiori dimensioni o quotati in Borsa. Quanto all’idoneità della soglia dimensionale prescelta, individuata dal provvedimento normativo in 8 miliardi di euro di totale attivo, il governo giustifica la sua scelta dimensionale come «equidistante tra il gruppo delle banche popolari quotate e il gruppo delle banche popolari più piccole». Tuttavia, tale soglia non trova riscontro in alcuna normativa esistente, primaria o secondaria, nazionale o internazionale. Sarebbe ben più fondato restringere l’ambito di applicazione della norma solo alle banche popolari quotate ed elevare la soglia a 30 miliardi. Una ulteriore soluzione alternativa potrebbe essere anche quella di prevedere una soglia di 20 miliardi di euro per le banche che, a decorrere dall’anno 2014, hanno effettuato acquisizioni e/o fusioni. Inoltre, sempre per queste banche, andrebbe concesso un termine più ampio per adeguarsi alla nuova disciplina, elevando i diciotto mesi attualmente previsti dalla normativa transitoria a quattro anni. Sul tema delle popolari e sul tema delle riforme, in Europa si discutono dossier da almeno dieci anni. E il tema non è solo italiano, anzi. Non riguarda neanche tanto l’area sud dell’Europa, ma, al contrario, soprattutto l’area nord dell’Europa: quella tedesca e olandese. Il fatto che se ne discuta da almeno dieci anni fa riflettere del perché non si sia ancora deciso in maniera drastica, tranchant, nonostante gli stimoli, gli incentivi, le richieste da parte dell’Unione europea nel merito. Quindi, nulla quaestio sul tema, sul merito del tema, che cioè debolezza, autoreferenzialità, inefficienza siano elementi da trattare e da superare. Il problema è il modo. Noi chiediamo al governo di fare chiarezza in merito alle ombre dell’ insider trading che circondano le vicende che hanno portato all’emanazione del decreto legge di riforma delle banche popolari. Vanno inoltre chiariti quei passaggi che hanno indotto il governo a decidere di procedere su un tema così delicato e complesso con lo strumento del decreto legge, tra l’altro proprio in un lasso di tempo in cui la presidenza della Repubblica era vacante.

In sintesi, il Paese non solo vuole chiarezza, ma anche una buona riforma che non distrugga o porti alla svendita di una cultura economica e finanziaria che è patrimonio del paese. La chiarezza non è certamente venuta da Matteo Renzi, nella sua ultima performance a Porta a Porta , quando si è limitato a dire alcune ovvietà (chi deve pagare paghi, chi è responsabile risponda, ecc.: concetti più degni di Chance, il giardiniere dello strepitoso Peter Sellers). Caro Renzi-Chance, la moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma anche apparire tale.

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Nicola Porro – Il Giornale

Di fisco si parla molto. Qualcuno può pensare anche troppo. Ma il punto di vista da cui si parte, per carità sacrosanto, è quasi sempre tecnico. Possiamo dividere in due gli approcci. Il primo è quello microeconomico, per così dire ragionieristico: l’Irap è una tassa assurda perché colpisce anche il costo del lavoro e gli interessi passivi, oppure la progressività delle imposte sulle persone è eccessiva. Un secondo approccio è più macro: la pressione fiscale deprime i consumi, l’aumento delle imposte indirette potrebbe distorcere il mercato.

È molto più difficile assistere ad un dibattito più filosofico sul tema delle imposte. Meno economico e più culturale. In una certa misura la sinistra è stata più abile in questo campo. Ha cercato di dare una giustificazione sociale all’imposizione: le tasse sono belle; grazie ai tributi si sostengono i più deboli; è necessaria una redistribuzione dei redditi. Ecco. Una delle battaglie oggi dovrebbe essere proprio la riscoperta dei fondamenti filosofici e culturali per i quali un liberale non può che essere allergico alla natura stessa dell’imposizione fiscale. La circostanza fortunata per la quale l’eccesso di tasse riduce gli incentivi a produrre e lavorare e dunque ad accrescere la ricchezza di un Paese è solo il risvolto pratico di una critica ben più profonda che dovremmo fare alle tasse in sé. Per farla breve, il fatto che le troppe tasse facciano ammalare un’economia (cosa su cui oggi a parole praticamente tutti concordano) ha il valore di una tacca sul termometro di mercurio: il vero problema è la malattia. E adesso la scopriamo.

Il più lucido in Italia a scrivere di questi argomenti è, ed è stato, Antonio Martino. Vi citiamo solo qualche passaggio di “Stato padrone” (Sperling & Kupfer): «Vi è una relazione inversa tra Fisco e libertà personale. Il fatto che la fiscalità abbia una forma monetaria non dovrebbe trarre in inganno: per poterci procurare i soldi da versare all’erario dobbiamo lavorare». Il principio è semplice: la tassazione equivale da un punto di vista logico alla sottrazione dei propri spazi di libertà. Se per sei mesi l’anno lavoro per procurarmi le risorse da fornire allo Stato sono di fatto un suo schiavo, anche se a mezzo servizio. Questa impostazione comporta molte conseguenze. In modo apodittico, ma chiaro Martino scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il nostro vero nemico non è l’evasore, ma l’esattore. Se la fiscalità è eccessiva, ciò non è certo dovuto al fatto che gli altri non pagano o pagano poco, ma al livello esorbitante raggiunto dalla spesa pubblica: la causa dell’iperfiscalità è lo statalismo, non l’evasione». Le principali critiche all’eccesso di tasse non sono dunque economiche, ma filosofiche: esse minano la nostra libertà.

Meno salvataggi, più investimenti

Meno salvataggi, più investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Michele Ferrero è stato un imprenditore senza eguali. E non solo perché ha costruito un gigante mondiale dell’industria dolciaria, grazie solo alle sue intuizioni e alle sue proverbiali doti di laboriosità e tenacia. Ma, anche, perché ha fatto tutto questo rifuggendo dai salotti e salottini del capitalismo relazionale e dalle suggestioni della finanza creativa, optando per una visione dell’impresa che cresce in complicità con i dipendenti e il territorio – offrendo loro, negli anni del conflitto di classe, un Welfare sui generis – e affonda le radici nel rapporto di fiducia tra i suoi prodotti e il consumatore.

Pensavo a questa unicità quando, nei banchi della cattedrale di Alba, partecipando al suo funerale, osservavo che tra le tante personalità venute a rendergli omaggio ci fossero meno imprenditori famosi di quanto sarebbe stato doveroso che fosse. E mi è venuto spontaneo rimuginare le pagine dell’ultimo libro di Giuseppe Berta (La via del Nord, Il Mulino), nel quale lo storico dell’economia dice di aver perso ogni residua speranza che gli imprenditori settentrionali riescano ad adattare il vecchio triangolo industriale all’economia del nuovo millennio. E mi è venuto di pensare che non saprei fare un nome di chi, oggi, potrebbe portare un’azienda dalla dimensione locale a quella mondiale, senza passare né per la Borsa né per acquisizioni, come ha fatto Ferrero. Non è un caso che le esportazioni agroalimentari italiane siano inferiori a quelle tedesche: in questa filiera, come in quasi tutto il manifatturiero, l’Italia, a differenza della Germania, non ha puntato sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sull’innovazione dei prodotti e dei processi, sul trasferimento di conoscenze ai lavoratori. E non è un caso che il nostro export copra meno di un terzo del pil, mentre quello tedesco oltre la metà.

Purtroppo la politica industriale italiana degli ultimi anni è consistita esclusivamente nel salvare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti, in una forma di patologico accanimento terapeutico. Nonostante che dal 2008 ad oggi siano fallite 82mila imprese (con la perdita di un milione di occupati) e si sia bruciato il 25% della capacità produttiva, nuove Ferrero all’orizzonte non sono spuntate. Anzi, ogni anno sono nate sempre meno imprese (nel 2013 -11,1% rispetto al 2007). Perciò vanno nella giusta direzione le misure dell’Investment Compact che allargano per le start-up le agevolazioni legate al concetto di innovazione, comprendendo anche quella non tecnologica; meno quelle che prevedono la creazione di una società per le ristrutturazioni industriali.

Non ci servono salvataggi ma investimenti massicci (anche pubblici) per colmare i buchi di un capitalismo sempre più a macchia di leopardo, con poche eccellenze di nicchie e troppi vuoti nei settori più strategici. Occorre progettare il riposizionamento del nostro sistema produttivo. Avendo coscienza che, visto il nostro declino, da soli non possiamo farcela. Per fare la rivoluzione industriale abbiamo bisogno della grande finanza mondiale – avendo cura di selezionarla, non tutti gli investitori sono uguali – e di alleanze industriali strategiche e solide in Europa. Possibilmente tenendo conto delle scelte geopolitiche che i grandi nodi dello scacchiere mondiali (Grecia, Libia, Russia-Ucraina) comunque ci imporranno di fare.

RilottizzeRai

RilottizzeRai

Davide Giacalone – Libero

Anziché ascoltare i consiglieri si ascoltino gli elettori. Se Matteo Renzi sta cercando idee per la Rai, un suggerimento lo avrei: dia retta agli italiani. E’ più facile di quel che si crede. Pare sia intenzionato a liberare la Rai dalla lottizzazione e dalle presenze, oltre tutto sempre più dequalificate, dei partiti politici. Bravissimo. Applaudo. Ma come? Semplice: l’11 giugno del 1995, or sono vent’anni, gli italiani furono chiamati a votare, fra gli altri, tre referendum. Due erano proposti dal Pds, il Pd di allora, e chiedevano di cancellare la legge esistente sia per quel che riguardava le concentrazioni che per la raccolta pubblicitaria. Gli italiani risposero di no, bocciando l’iniziativa. Uno, però, proposto dai radicali, proponeva di cancellare la legge che obbligava a mantenere pubblica la Rai, aprendo la via alla privatizzazione. Gli italiani votarono a favore (57% dei partecipanti e 54,90% dei consensi). Quella è la soluzione. Ci si libererebbe anche del canone, e scusate se è poco.

Non lo è, invece, come si dice il governo voglia fare, trasferire al proprietà a una fondazione, cui spetterebbe anche il compito di nominare i consiglieri d’amministrazione. Qualcuno s’incarichi di ricordare ai più giovani che la proprietà della Rai è già stata trasferita, ma finché resta in mani pubbliche è ovvio che la nomina dei vertici resta politica. Si può cancellare la lottizzazione, ovvero la spartizione, facendo in modo che prenda tutto uno. Ma in questo modo non vengono meno le mani politiche sulla Rai, semplicemente la mano diventa una. Che è peggio, non meglio.

Si dirà: ma la fondazione sarebbe di alto valore culturale e indipendente. In quel caso va messo l’antitrust alle scemenze, perché non ho mai visto nascere nulla con l’intento che sia di livello triviale e con vocazione alla sudditanza. Ma lì finisce. Se non è zuppa è pan bagnato. Allora, come si può procedere? Intanto evitando di discutere come se fossimo nello scorso secolo, analogico. Con il digitale tutte le imprese televisive si sono dotate di numerosi canali (altro che tre!). La soglia d’accesso a quel mercato s’è abbassata al punto che anche chi non era editore televisivo (le radio e i giornali, ad esempio) lo è diventato. Ciò comporta che non c’è alcun pericolo venga meno il pluralismo, a presidiare il quale bastano le leggi regolanti il mercato. Ciò non garantisce certo il venir meno del conformismo, ma neanche il cosiddetto (e inesistente) “servizio pubblico” ne è capace. Anzi: ne è uno dei più fantastici contenitori.

La Rai è ricca di impianti e sistemi produttivi. Si vendano, all’asta e prevenendo le concentrazioni. Ci si fanno bei soldi (da destinare al calo del debito) e si rende migliore il mercato. Segnalo, però, che con la quotazione di RaiWay il governo Renzi ha fatto il contrario, finanziando la lottizzazione. Il patrimonio culturale, che è degli italiani, non consiste nella produzione Rai, ma nel suo magazzino, nella sua storia, che è storia d’Italia. Se ne apra l’utilizzo a chi lo chiede. Naturalmente a pagamento.

Può, un Paese, fare a meno del servizio pubblico, esercitato da una società pubblica? Sì, nel mondo digitale può. Eccome. Perché il video non sia precluso alle minoranze basterà regolare quegli accessi e obbligare le emittenti a rendere disponibili gli spazi. Senza remunerazione specifica, perché si tratterebbe di un obbligo derivante da un titolo pubblico (l’autorizzazione a trasmettere). Senza canone, quindi. E senza l’idea bislacca di metterlo nella bolletta elettrica, o di dimezzarlo per poi raddoppiarne o triplicarne i pagamenti dovuti (tutta roma anticipata e poi ritirata dal governo). Il consiglio d’amministrazione in carica, di cui non si ricorda un solo atto degno di nota, scade ad aprile. Se si volesse intervenire sul meccanismo di rinnovo lo si dovrebbe fare per decreto legge. Obbrobrio. Orrido precedente. Al punto che Palazzo Chigi ha smentito d’averlo in mente. E ci mancava solo quello. Più facile e onesto avviare le procedure di vendita, considerando ininfluente chi amministrerà solo per pochi mesi.

Ha detto Renzi: “Vogliamo fare della televisione di Stato la più innovativa azienda di produzione culturale”. Quella era la Rai di Ettore Bernabei, governante Amintore Fanfani. Non starò a ricordare che era la sinistra a ritenerla uno sfregio alla libertà e alla democrazia, mi limiterò ad osservare che cercare in quel passato l’innovazione significa essersi dimenticati con quale sistema si ovviò al monocolore televisivo, a gran richiesta e con il plauso della sinistra: con la lottizzazione.

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nell’ultimo mese, una serie di articoli su Formiche.net hanno cercato di fare il punto sulle privatizzazioni. È venuto il momento di arrivare ad alcune conclusioni. Almeno per ora, la materia è in rapida evoluzione e non è detto che non ci siamo svolte improvvise. In una direzione o in un’altra.

Per tre lustri, redigo il capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla Liberalizzazione della Società Italiana pubblicato dall’editore Rubbettino. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Bunuel, uno ‘charme discreto’: affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto meno di quanto sperato. Oppure – ancora peggio – si nazionalizza più di quanto non si privatizzi. A fine 2014, il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazione in programma per il 2015, iniziato da poche settimane. Dimenticava, però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’UNICI, l’unione degli ufficiali in congedo, in pratica un circolo ricreativo. È stata, invero, portata in Borsa Fincantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350 milioni) per sostenere il suo piano di sviluppo.

Cdp Reti – che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e Snam già in portafoglio di Cdp – ha fruttato 2,1 miliardi con la cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay, essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici a quella Rai che, come si è visto nel primo di questi articoli, dovrebbe essere “la madre di tutte le privatizzazioni”, secondo un documento dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, organismo internazionale distinto e distante dalle nostre beghe.

Il Governo Renzi ha annunciato privatizzazioni per 11,2 miliardi all’anno fino al 2017, contro gli 8 miliardi fino al 2016, contemplati dal Governo Letta. Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli economisti chiamano la funzione obiettivo delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per ‘fare cassa’ ed alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora la priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso, anche ove in tre anni si privatizzasse per 33-34 miliardi, si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi. A maggior ragione, quindi, occorre essere chiari sugli obiettivi. Altrimenti, lo charme discreto diventa come quella catenine d’argento che si regalano per i Battesimi, “così fini, così fini – diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”.

Inoltre, allo charme discreto delle privatizzazioni si contrappongono mani pubbliche sempre più tentacolari. È di questi giorni il ritorno alla grande del Tesoro come azionista del Monte dei Paschi di Siena. Aumentano le voci di una bad bank pubblica per alloggiare (sulle spalle dei contribuenti) le sofferenze di istituti di credito privati. È ormai scontato un intervento pubblico “temporaneo” per l’Ilva. È in fase avanzata il progetto di un fondo per l’ingresso anche esso ‘temporaneo’ nel capitale di aziende in crisi. Lo “charme” rischia di diventare troppo discreto.

Prorogando il rinvio

Prorogando il rinvio

Davide Giacalone – Libero

Correre si corre, ma a prorogare e posticipare. Nelle stesse ore in cui l’attuazione della delega fiscale, approvata dal Parlamento un anno fa, veniva ulteriormente posticipata, al punto che della parte più sostanziosa se ne parlerà entro settembre, la Camera votava la fiducia al governo, posta sulla conversione in legge del decreto Milleproroghe. Un mostro che, oramai, accomuna tutti i governi e si ritiene normale esista. Quel decreto, però, scade fra dieci giorni, quindi ora si deve correre al Senato, e il cielo non voglia che non si proroghino i mille ritardi legislativi e governativi. Che non sono figli solo di svogliatezza e complicità, dato che molti devono i natali all’incapacità.

Pensate alla faccenda delle frequenze televisive, che qui abbiamo già raccontato: mentre giornali e pensatori venivano mandati fuori a giocare, discutendo di sconti e regali a questo o a quello, accadeva prima che con un decreto legge si smentisse un decreto legge, togliendo all’Autorità delle comunicazioni un compito che le si era assegnato, poi che si scoprisse non solo lo sgorbio che ne nasceva (come qui avvertito), ma che si pretendeva di far pagare l’affitto a quelli che non erano più gli affittuari (alle emittenti televisive anziché agli esercenti le reti), in una gara a chi commette l’errore più marchiano. Sicché s’è risolta la faccenda prorogando il passato, che almeno un gettito lo assicurava. E di storie come queste “a mille ce n’è nel mio cuore da narrar”, come avvertivano melodiose le “fiabe sonore” della nostra infanzia. Appunto: a mille-proroghe.

Ieri s’è detto, al Consiglio dei ministri, che i tre decreti legislativi in materia fiscale (catasto, fatturazione elettronica e internazionalizzazione delle imprese), non potevano essere discussi perché il ministro dell’economia era assente, impegnato con l’Eurogruppo. Se ne riparlerà fra una decina di giorni. Spero, almeno a testimonianza che l’intelligenza è sopravvissuta, che a qualcuno non sia sfuggita la perfida ironia: si potevano discutere i decreti fiscali alla presenza del ministro competente, ma tenuto all’oscuro di quel che contenevano (il celebre 3% quale esimente per l’avvio del procedimento penale in caso di evasione), ma non si possono discutere con lui assente, benché concordati. Se fosse vera una simile versione si sarebbe potuto procedere diversamente: i decreti venivano posti in discussione e varati, ove non vi fossero state obiezioni; mentre se ne sarebbe rinviata la discussione ove fossero sorti dei dubbi o dei contrasti. Il che risulta piuttosto difficile, visto che la volta scorsa manco s’accorsero di cosa c’era scritto, finché non fu fatto notare dai primi lettori del testo, ovviamente non componenti il Consiglio dei ministri.

Per il governo che corre e s’affretta, la formula qui proposta sarebbe stata più consona. Invece no, hanno rinviato. Come se il varo di un decreto fosse il parto (comunque non rinviabile) cui il futuro babbo intende assistere. La verità è più prosaica: come dimostra il pasticcio dell’imposta sul deposito in banca del denaro contante, che c’era eccome nei documenti preparatori, questi decreti sono il frutto d’insalsicciamenti in cui ciascuno porta il proprio ingrediente, scoprendosi poi che gli uni supponevano fosse un cotechino e gli altri un salame di cioccolata. Un tempo esisteva la regia di Palazzo Chigi, per le stesure definitive. Ora si deve rinviare, per evitare altri scivoloni. Tutto qui.

Peccato che se t’inventi il nome di “certezza del diritto”, per giunta fiscale, e poi metti in scena solo la certezza del rinvio, l’impressione che ingeneri è che il diritto sia nebbioso e incerto, consegnando tutti in balia di toghe che s’esprimono negli anni. Il che nuoce gravemente alla salute produttiva. Oltre a scoraggiare chi voglia investire. Per sfortunata coincidenza, inoltre, tutto questo accade assieme ai supplementari della partita greca. La sostanza è definita, l’apparenza va sistemata. Non era un giallo di Christie, Doyle o Simenon, in cui si deve scoprire come va a finire e chi è l’assassino, semmai una trama alla Levison e Link (il tenente Colombo): sai già chi è l’assassino, lo spettacolo consiste nel vedere come ci si arriva. Ecco, ad Atene, dopo avere riempito i giornali di moda maschile e fatto scrivere fiumi di amenità, hanno scoperto l’ovvio: se rinvii sempre le cose da farsi, o addirittura le neghi, il tempo che perdi non passa in cavalleria, sei tu che passi alla cassa per pagarlo.

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Davide Giacalone – Libero

Dalle zampogne alle rampogne. Dai dati Ocse ai rilievi della Bce. In ventiquattro ore la musica passa da «allegro immotivato» a «mesto con brivido». Questo, però, solo nella bocca dei propagandisti e nelle pagine degli approssimativi, perché qui avevamo osservato la realtà ed avevamo visto giusto. Ieri ancora suonavano le trombe per la correzione delle previsioni Ocse. Che lette attentamente, senza lasciarsi distrarre dal chiasso strumentale, erano preoccupanti.

Nell’autunno scorso l’Ocse prevedeva una crescita italiana, per il 2015, di appena lo 0,2%. Ora corregge quella previsione al rialzo, portandola allo 0,6. Una buona cosa? Certamente, ma solo se si commette l’imperdonabile errore di misurarsi con sé stessi, in una sorta di autoerotismo statistico.

Gli stessi dati Ocse ci dicono che la crescita dell’eurozona è prevista all’1,4%. Quindi la nostra è meno della metà. Può festeggiare solo chi pensa diingannare gli altri e nel frattempo si prende in giro da solo. Lo 0,6 era la previsione fatta dalla Commissione europea a novembre, sempre per l’Italia, quando la stessa fonte immaginava una crescita dell’eurozona pari all’1%. Eravamo a poco più della metà. A gennaio hanno rivisto le previsioni: eurozona +1,3; Italia +0,6. Inchiodati e ricollocati a meno della metà. L’Ocse ha confermato questa prospettiva, che è allarmante, non rassicurante. Quando l’alta marea, indotta dall’aumento di liquidità praticato dalla Banca centrale europea, rilluirà, quando l’espansionismo monetario non potrà essere spinto oltre, alcuni avranno preso il largo e dispiegato le vele, mentre noi saremo ancora a ridosso degli scogli. Per di più con la ciurma che discute di riforme costituzionali.

Ieri è arrivato il bollettino della Banca centrale europea, che conferma queste nostre riflessioni. Per niente fenomenali, semmai piuttosto banali e di buon senso. Merce che scarseggia, nel gran bazar della propaganda. Dicono alla Bce: la politica di bilancio, in Italia, non sta rispettando il necessario programma di rientro dal debito. E va di lusso, perché se non avessimo accettato le correzioni alla legge di stabilità e non fosse partita la politica espansiva europea (e se i greci non facessero intatti), a questo punto ci troveremmo con la trimestrale di cassa che certifica il disallineamento, provocando la reazione altrui e innescando il meccanismo delle ulteriori (dolorose) correzioni.

Siamo solo agli scappellotti, e va bene. Risponde il nostro ministro dell’Economia: lavoriamo sul debito operando con le riforme. In serata tramite comunicato, il Mef addirittura specifica che il bollettino contiene imprecisioni. La politica di bilancio non deve dire grazie solo al risparmio sui tassi d’interesse. Una risposta poco cortese e soprattutto affrettata, perché il secondo rilievo della Bce è chiaro: sulle riforme l’Italia è in ritardo e il Paese deve portarne a termine altre, se si vogliono usare per la crescita. Si rammenti che la Bce, anche perché unica protagonista attiva di rango europeo, ha una visione positiva dei dati, tanto è vero che colloca la crescita dell’Eurozona, per l’anno in corso, all’1,5. Più dell’Ocse e della Commissione europea. A Francoforte non c’è alcuna propensione al pessimismo. Ma i numeri sono numeri e i fatti sono fatti. Contestare i numeri appare come 1’ultimo tentativo di negare la realtà.

Neanche qui si ha alcuna propensione all’umore funesto. Se guardiamo la curva del prodotto interno lordo, da anni in caduta, e la accostiamo a quella delle esportazioni, da anni in crescita, vediamo ad occhio nudo la forza indomita del nostro sistema produttivo. Gli splendidi risultati che dobbiamo a imprese e lavoratori. Ma quello è solo un pezzo d’Italia. Sulle cui spalle, per giunta, carichiamo il peso di una spesa pubblica improdutüva e galoppante. Non è la realta industriale italiana (pur molto provata) a provocare il pessimismo, è la superba cretineria di usare gli indicatori economici per misurare il proprio presente istantaneo con il proprio passato prossimo. Esercizio da scemi. O da imbroglioni.

Lavoro, una riforma prematura

Lavoro, una riforma prematura

Gaetano Pedullà – La Notizia

Una riforma che guarda a sinistra ma non vede lontano. L’abolizione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, gli ormai famosi co.co.co., insegue un principio giusto: basta con le scappatoie che favoriscono il precariato. E basta con il lavoro palesemente subordinato spacciato per prestazione autonoma o a progetto. Detto questo, il successo delle forme contrattuali nel mirino del ministro Poletti testimoniano come le imprese ancora oggi non abbiano molta scelta nelle assunzioni. La rigidità nella prosecuzione del rapporto anche in caso di difficoltà da parte delle aziende, scoraggiano le assunzioni a tempo indeterminato. E siccome non è vero che le famiglie (e le imprese) si stanno arricchendo – come sostiene il premier – la rincorsa del giusto obiettivo di ridurre la precarietà rischia di rivelarsi un boomerang. La ripresa infatti è ancora lontana e smantellare con tanta fretta uno dei maggiori elementi di flessibilità contrattuale è una mossa prematura. Partiti di sinistra e sindacati ne faranno una bandiera, ma l’effetto concreto sul mercato del lavoro rischia di essere negativo, proprio mentre la crescita all’orizzonte spingerebbe le imprese a investire di più. Un azzardo.

È un errore imperdonabile cancellare la Riforma Biagi

È un errore imperdonabile cancellare la Riforma Biagi

Giuliano Cazzola – Libero

Tra un mese esatto ricorrerà il tredicesimo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi. E domani – stando alle anticipazioni – il Consiglio dei ministri, nel dare attuazione alle deleghe del Jobs act Poletti 2.0, prenderà a picconate la legge che porta il nome del professore bolognese. In sostanza, a Matteo Renzi e a Giuliano Poletti riuscirà ciò che venne impedito all’Unione di Romano Prodi nel 2007 e ad Elsa Fornero nel 2012. Eppure, mentre Prodi presiedeva un esecutivo (Cesare Damiano era ministro del Lavoro) sostenuto anche dalle formazioni neocomuniste, Renzi ha nella sua maggioranza i gruppi confluiti in Area popolare, i cui esponenti giustificano loro presenza nella coalizione vantando la partecipazione ad un progetto riformatore.

Da giorni viene annunciato un bel po’ di «macelleria giuridica» nel nome (abusato) della lotta al precariato. Sotto la scure giustiziera del governo legislatore-delegato finirebbero taluni rapporti atipici già rivisitati ampiamente dalla legge Fornero: l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero la gogna dell’abrogazione. Mentre verrebbe fortemente depotenziato l’effetto-innovazione derivante dalla riforma del contratto a termine. E che dire, poi, del «superamento» del contratto di collaborazione a progetto? Il ricorso alla potatura delle forme contrattuali (anche se talune solo di nicchia) prima ancora di essere grave, rappresenta una scelta stupida. Il titolare di un ristorante che ha la necessità di due camerieri in più, la domenica in cui gli capita di ospitare un matrimonio, non sa che farsene del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; gli serve avvalersi del lavoro a chiamata. Ma l’errore di politica del diritto sta nella convinzione che basti rendere un po’ meno rigido, in uscita, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato per potersi sbarazzare delle forme flessibili.

In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici, regolati con meticolosità e sapienza giuridica da Marco Biagi, consentissero di sottrarsi al giogo di un contratto a tempo indeterminato imprigionato nel «carcere di massima sicurezza» dell’articolo 18 dello statuto. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro. Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge a lui intestata, tipologie flessibili in entrata, allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, le forche caudine della reintegra da parte del giudice.

Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici, mirati a regolare le diversità delle condizioni lavorative, anziché imporre, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

Non è un caso che, in occasione della prima lettura del Senato, nell’emendamento dei partiti centristi a firma di Pietro Ichino, campeggiassero le parole senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro. C’era la consapevolezza che il mercato del lavoro non potesse essere rinchiuso in un’unica fattispecie, anche se prevalente e meno vessatoria sul versante del recesso. Per lanciare il contratto di nuovo conio sono arrivati al punto di retribuire i datori di lavoro, i quali, per ogni assunto nel 2015, riceveranno, in ciascuno dei prossimi tre anni, un bonus di 8mila euro. Ciò significa che un’intera annualità di retribuzione (pari a 24mila euro) sarà a carico di Pantalone.