Edicola – Opinioni

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Davide Giacalone – Libero

Il passo in avanti è notevole: alla merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla l’inglese. Il decisionismo ha anche prodotto un’innovazione: non ci si limita ad appoggiare le scalate a opera di sconosciuti che operano dall’estero (come all’epoca dei “capitani coraggiosi”); non ci si produce in piani da suggerire e imporre ai diretti interessati (come all’epoca del “piano Rovati”); ora si pensa di procedere direttamente per decreto legge, seppure in presenza di una smentita del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli. Inglese più gazzetta uflfciale. ll bello è che il tema è sempre lo stesso: Telecom ltalia. Prima da spolpare, trasferendo all’estero e ai privati la ricchezza degli italiani. Poi da indirizzare e sottrarre alla gestione dei proprietari, portando Marco Tronchetti Provera alle dimissioni. Ora da condurre al fallimento (in gran parte meritato), mediante rottamazione del solo asset che fa da garanzia all’enorme debito, la rete.

Spero non sfugga la curiosa coincidenza: assieme al trapelare di tale operazione apprendiamo che è pronto il fondo “salva imprese” (dei cui difetti e pericoli abbiamo già scritto), finanziato con soldi pubblici, che più nega di volere essere una nuova Gepi e più ce ne sfuggono le differenze, e che dovrebbe occuparsi, tra le prime cose, della crisi Sirti. Ovvero della società, un tempo Iri, che lavora(va) alle reti di telecomunicazione. Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i (falsi) trionfi di mercato finiscono con ristatalizzazioni. Significativo, inoltre, che dopo avere provato a sposare Telecom ltalia e Metroweb, la cui proprietà è riconducibile allo Stato, e dopo avere ricevuto un rifiuto, si supponga di operare con un decreto per rottamare la rete del mancato marito, rivalutando quella della sposa non impalmata.

Veniamo alla sostanza: avrebbe ragione il governo ad intervenire per promuovere il rimodernamento delle reti di telecomunicazione? Sì. Quell’arretratezza è una palla al piede dell’Italia. Tale intervento può e deve essere articolato su due fronti. Il primo consiste nel rimodernare la pubblica amministrazione e moltiplicarne l’offerta digitale. Più cose il cittadino può fare on line, più c’è domanda di reti digitali, più è conveniente investire nel renderle capienti e capillari. Il secondo fronte consiste nel rendere più convenienti gli investimenti, mediante defiscalizzazioni, e meno estenuanti le pratiche burocratiche. C’è una terza cosa che lo stato deve fare: produrre norme chiare (in gran parte d’importazione europea) e far rispettare le regole.

Facesse queste cose, sarebbe da benedire. Non servono decreti legge, però. Se si pensa a quello strumento è perché si ha in mente un altro mestiere: stabilire come devono essere falte le reti, quali i programmi d’investimento, quale la redditività accettabile. Che è ilmestiere delle imprese e del mercato. Scegliere fra fibra ottica e reti in radiofrequenza (o, meglio, sulla proporzione del mix) è il mestiere del mercato. Tanto che un privato s’è fatto avanti chiedendo di acquistare una società statale d’impianti televisivi, ricca di punti d’illuminazione. Si può ben dire di no, ma aggiungendo in quale altro modo mettere quella ricchezza al servizio della digitalizzazione delle reti. Se si risponde: no, perché abbiamo in mente un’altra rete, si va alla statalizzazione. Il trionfo dei mercati senza mercato. Non mi stupisce che a questo antico mito italico si ritorni mediante anglofoni che usano il potere politico. Avverto solo che questo film lo abbiamo già visto. La prima versione era neorealismo ricostruttivo. La seconda temo sia un remake con sottotitoli. Per non capenti.

Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le leggera, e flebile, indicazione di una possibile ripresa economica, e le voci (peraltro incontrollate ed inconsulte data la situazione generale della finanza pubblica) potrebbero fare prospettare un graduale aumento dell’investimento pubblico. In tutta Europa – lo si è visto su Formiche.net del 24 febbraio – la spesa in conto capitale è quella che è stata maggiormente compressa dall’inizio del percorso verso la moneta unica iniziato nel 1992.

Il Piano Juncker – abbiamo visto sempre il 24 febbraio – per ora contiene soltanto alcune promesse e numerose illusioni. “In Italia,- ha scritto Paolo Coccia di Bnl-Bnp su Formiche-net del 15 novembre 2014 – i pochi investimenti pubblici si accompagnano ad un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il 13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli francesi”.

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Ma cosa è questa austerità?

Ma cosa è questa austerità?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I successi elettorali dei movimenti, se non apertamente anti-europei, quanto meno contrari alle specifiche assunte da politiche, strategie, programmi e misure adottate nell’unione monetarie impongono si approfondire cosa si intenda con austerità, vocabolo centrale nel lessico dei dibattiti di politica economica europei e nazionali in corso in questi giorni. E’ facilmente intuibile che uno degli esiti sarà una differente declinazione del termine austerità.

In questo approfondimento, possono essere di grande aiuto i saggi sul tema prodotti nella letteratura economica. Ma occorre fare attenzione. Il tema dell’austerità è diventato merce di largo consumo tanto nel mondo accademico quanto nella pubblicistica giornalistica. Ha prodotto una vera e propria piccola industria che sforna paper, libri, articoli come se fossero hamburger; occorre distinguere con cura tra quelli che dicono qualcosa di nuovo, basato su vera ricerca, e quelli che scopiazzano i lavori di chi ha pubblicato appena prima di loro. O, peggio ancora, si rivolgono al Prof. Google.

Tra i 150 saggi sull’argomento usciti nell’ultimo mese, tre sono parsi di interesse per i lettori di Formiche. Il primo è un lavoro preparato per l’Economic Policy Panel dell’EIEF (Einaudi Institute of Economics and Finance) tenuto a Roma a fine 2014 ed i cui atti saranno pubblicati tra qualche mese. E’ uno studio collettaneo di Alberto Alesina, Francesco Giavanni e Matteo Paradisi, con la collaborazione di uno stuolo di loro ricercatori. Definita austerity essenzialmente come ‘consolidamento fiscale’ (riduzione della spesa ed aumento dell’imposizione tributaria per ridurre deficit e, quindi, debito), il lavoro analizza, con una strumentazione quantitative, se il ‘consolidamento’ effettuato a partire dal 2009 nell’eurozona ha avuto effetti recessivi sull’eurozona. Le conclusioni sono due: a) gli effetti ci sono stati ma non superiori a quelli quantizzati in altri casi di ‘consolidamento’; b) le implicazioni su produzione ed occupazione sarebbero state notevolmente inferiori a quelle effettivamente computate se si fosse agito sul lato della spesa (riducendola) piuttosto che su quello delle entrate (aumentandole).

Harris Dellas e Dirk Niepelt, ambedue della Università di Berna, partono da una differente accezione del termine austerity – la riduzione dei consumi dai livelli desiderati causata dalla capacità di servizio del debito. In tal modo, austerity diventa essenzialmente uno strumento per ottenere dal mercato migliori condizioni finanziarie (e per il rimborso del debito e per avere fresh money , nuovi finanziamenti). E’ un segnale, quindi, per conquistare credibilità o per migliorare quella che già si ha. Ha funzionato nell’attuale crisi dell’eurozona? Per Dellas e Niepelt è un segnale ‘costoso’, aggettivo qualificativo eloquente.

Molto interessante il saggio rivolto specificatamente ai Paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale pubblicato sul Journal of Economics and Business dell’Università di Rijka, in Croazia, e firmato da Anita Čeh Časni, Ana Andabaka Badurina e Martina Basarac. L’analisi utilizza una batteria di indicatori per il periodo 2000-2011. Il concetto di austerity è strettamente collegato a quello di incidenza del debito pubblico sul Pil, L’esito dei vari test effettuata nell’Università croata è che occorre incidere sulla causa non sui suoi esiti. Le proposte sono che una politica ‘credibile’ di ‘consolidamento fiscale’ deve essere coniugata con politiche che favoriscano crescita ‘duratura di lungo periodo’, quali ‘promuovere lo sviluppo industriale, incoraggiare la crescita e creare un clima per attrarre e favorire investimenti’, unitamente a ‘programmi di riduzione del debito’.

Rai Way, comunicazioni arretrate

Rai Way, comunicazioni arretrate

Davide Giacalone – Libero

Rispondere all’offerta di acquisto dicendo che il governo aveva stabilito di tenersi il 51% non ha alcun senso, né legittimità. Ciò non vuol certo dire che la sola risposta legittima e sensata sia positiva, ma anche in caso di rifiuto si deve affrontare il tema che presiede all’offerta pubblica di acquisto e scambio, con cui Ei Towers chiede di acquisire il controllo di Rai Way. Cosa fare degli impianti e come valorizzarli. Il governo ci pensi bene, prima di rispondere. Il resto, a base di nazareni morti o risorti e pro o anti­berlusconismi, è reazione tipica degli orecchianti: non sapendo di che si parla, la buttano in caciara.

La prima cosa da capire è che il pluralismo televisivo e la libertà d’informazione non c’entrano niente. Non si confonda il postino con il contenuto del pacco. Le regole di funzionamento dei fornitori di rete, di quei soggetti che non fanno televisione, ma trasportano il segnale televisivo, sono fissate per legge. Il fatto che Rai e Mediaset abbiano entrambe due società delle reti (cosa che si riproduce anche per alcuni più piccoli) ha a che vedere con la storia, con il modo in cui il mercato s’è formato, non con le regole del suo funzionamento.

La seconda cosa è il 51%, che taluni credono sia stato deciso resti in mano pubblica. Non è così. Nel novembre 2014 la Rai portò in Borsa il 35% di Rai Way. Lo fece per compensare la riduzione del trasferimento del canone (nel senso che il governo ne trattenne una parte per altre spese). Prima di quel passo la Rai doveva essere autorizzata dall’azionista, che è il ministero dell’economia, vale a dire il governo. Il governo autorizzò una vendita non superiore al 49%. Tutto qui, mica è una legge. Ora c’è un operatore privato che offre di comprare almeno il 66,67% delle azioni. Non ha senso rispondere: avevamo detto di no, perché nessuno aveva offerto nulla e quell’indicazione si riferiva alla quotazione per far cassa e avere soldi per spesa corrente. Chi cita quel decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), quindi, ha le idee confuse.

Andando in Borsa, però, Rai Way non si limita a foraggiare il vorace ruminante di quattrini, ovvero la Rai, ma entra ufficialmente nel mercato. Il che comporta qualche conseguenza. Una di queste è che taluno offra di comprare. E ci siamo. Ma se non ha a che vedere con le televisioni e si lavora in un mercato regolamentato, perché chiede di acquistare quel che già ha? Ei Towers e Rai Way, infatti, fanno lo stesso mestiere. Risposta: a. nel caso minimo, perché gestendo più impianti, per più clienti, si creano sinergie che possono far diminuire i costi e crescere i profitti; b. nel caso massimo, il più interessante, perché le sinergie si allargano al settore delle telecomunicazioni.

Questo è il tema che il governo non può eludere: l’Italia delle comunicazioni è arretrata; eravamo all’avanguardia e abbiamo smesso, per lustri, di investire nelle reti di telecomunicazione; invece si è investito in quelle televisive; se pensiamo di recuperare gli squilibri digitali interni (digital divide) mediante gli investimenti degli operatori telefonici (con Telecom distrutta da politicanti e corsari), magari in fibra ottica, ci rivediamo fra dieci anni; se, invece, utilizzassimo le radiofrequenze digitali potremmo tagliare costi e tempi, offrendo in fretta soluzioni accettabili a imprese, scuole, sanità, cittadini. In ciò consiste la più ghiotta sinergia.

Anche in questo caso non ha senso che il governo risponda: ho deciso di tenermi il 51%. Vor­rebbe dire che non hanno capito la domanda. Possono rispondere: 1. no, lo facciamo da soli (poi, però, spiegano dove trovano i soldi e perché buttano via un premio del 52,7% rispetto al prezzo di quotazione, di soli tre mesi fa); 2. no, lo facciamo fare a un altro (poi raccontano scelto come e da chi finanziato); 3. no, perché c’è chi offre di più (nel qual caso il 51% si conferma la risposta sbagliata). La terza ipotesi è la sola ragionevole, ma ce n’è una migliore: 4. sì, ma se ti prendi tutto devi anche sottoscrivere impegni relativi a quantità e tempi degli investimenti, perché non ci serve trasferire una rendita, ma è bene che sia un privato a far rinascere l’Italia digitale.

Nel frattempo, giusto per non lasciare infezioni in giro, meglio chiudere l’assegnazione delle frequenze per televisioni e radio, in grave ritardo. Questo è il tema. Il governo ci pensi, mentre gli altri, in cortile, giocano con il pallone sbagliato.

L’Europa convalescente

L’Europa convalescente

Giuseppe Pennisi – Startmag.it

Il settimanale Americano “The National Review”, di orientamento conservatore, definisce l’Europa “Convalescente”. Cosa preoccupa oltreoceano dello stato di salute dell’UE? Su ‘The National Review’ , settimanale americano di orientamento conservatore , Michael Bird chiama l’Europa ‘convalescente’. I suoi strali sono orientati principalmente alla Gran Bretagna ma con riferimenti all’intera eurozona. E’ un segno di miglioramento in quanto in passato l’Unione Europea veniva chiamata ‘ il vecchio ammalato della comunità internazionale’.

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Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Alla fine delle lunghe notti di Bruxelles non sorge sempre il sole. Specialmente a febbraio, quando l’alba è di solito nebbiosa e piovosa. Lo era anche alle 16 del 24 febbraio quando l’Eurogruppo ha approvato il programma presentato dalla Grecia. Se non sorge sempre il sole, cosa si fa dopo giornate (e nottate) di negoziati? Prima di andare a riposare, gli eurocrati usano andare a “La Morte Subite” (un nome che è tutto un programma), una birreria aperta nel 1910 ubicata nel centro storico che è diventata ora ristorante di lusso. Lì si tracannano birra ed alcol più pesanti (oltre che vini di pregio) sino alle ore piccolissime.

L’ultima parola (tedesca)

La sera del 24 febbraio il commento più frequente era, in toni un po’ sprezzanti, “il nouveau bail à court terme avec la Grèce”, letteralmente “il nuovo contratto di locazione a breve termine con la Grecia”. Si sotto-intendeva che era stato firmato per stanchezza, che comunque alcuni Parlamenti nazionali (specialmente quello tedesco) hanno l’ultima parola, che Tsipras non riuscirà a tenere gli impegni con il resto dell’eurozona e, al tempo stesso, mantenere tranquillo il fronte interno.

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La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

Davide Giacalone – Libero

La sola spending review fatta è consistita nel tagliare il commissario incaricato di metterla a punto. Le sole spinte alla ripresa vengono da fattori esterni e le dobbiamo alle scelte della Banca centrale europea (altro che eurorigore). Gli 80 euro hanno funzionato egregiamente come messaggio elettorale, ma non hanno spinto i consumi, appesantendo invece la spesa pubblica, proprio perché non sono permanenti sgravi erariali e sono stati finanziati con aggravi fiscali. Così messe le cose c’è il serio rischio di vedere scattare le clausole di salvaguardia, messe a presidio dei conti pubblici e grazie alle quali il governo ha ottenuto il consenso delle autorità europee. Clausole che significano una sola cosa: ulteriore pressione fiscale. Tutte cose che i nostri lettori hanno già letto molte volte, ma che ora sono scritte anche nel «Rapporto sulle prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità», inviato dalla Corte dei conti al Parlamento.

Cose che noi abbiamo illustrato e temuto per tempo. Senza alcun compiacimento, semmai con rammarico. Sono le cose che portano a prevedere (dati della Commissione europea) una crescita dell’Italia inferiore alla metà della crescita dell’eurozona (0,65 contro 1,3%). Noi qui suoniamo e cantiamo l’inno alla fine della crisi e all’inizio della ripresa, ma si tratta di un risultato che dobbiamo al pezzo d’Italia che non ha  ai smesso di restare agganciato ai mercati globali, non ha mai smesso di vedere crescere le esportazioni (nel 2014, rispetto al 2013, in crescita del 2% verso il mondo intero e del 3,7 verso l’Ue), ma commettiamo il gravissimo errore, o cediamo al perfido trucco propagandistco, di misurarci solo con noi stessi, mentre ci si deve misurare con gli altri paesi, con i concorrenti. E mentre le nostre imprese concorrono bene con i loro simili, l’Italia concorre male, sprofondando più degli altri e poi crescendo meno degli altri. Perché? La spiegazione sta tutta nelle cose non fatte, nella spesa non rivista, nella burocrazia pazzotica, nell’incertezza del diritto, nelle tasse troppo alte. Abbiamo messo troppa zavorra sulle spalle dell’Italia che corre. Che non è stramazzata e ancora procede perché ha una forza straordinaria, ma non può reggere il ritmo di chi non viene salassato negli spogliatoi. Questo è quel che ci siamo sforzati di spiegare. Questo quel che la Corte dei conti certifica. Non se ne sentiva il bisogno, ma ora c’è anche il bollo dei contabili in toga.

Grazie alle politiche della Bce pagheremo, quest’anno, fra i 5 e i 7 miliardi in meno di interessi sul debito pubblico. Basta dare un occhio agli spread, che tre­quattro anni fa erano l’indicatore (falsato, lo spiegammo, ma reale) del nostro collasso, per rendersi conto che quelle politiche hanno avuto successo. Ma, da sole, non bastano. I tagli alla spesa pubblica, ricorda la Corte, sono previsti, dal governo, in 16 miliardi per il 2016 e 23 nel 2017. Con la legge di stabilità, per far tornare i saldi, se ne sono aggiunti altri 3 nel 2016. Come pensiamo di arrivarci se manca una politica coerentemente a ciò indirizzata? Anzi, andiamo in direzione opposta, come testimonia la gioia con cui s’è comunicata l’imminente assunzione di un’altra vagonata d’insegnanti, rigorosamente presi da quelle graduatorie che altro non sono se non testimonianza fossile dell’inefficienza pubblica, sicché avremo più spesa per meno (o, nel migliore dei casi, medesima) qualità.

Questo è l’andazzo, che difficilmente conduce verso i risultati annunciati. Sicché si passa alle misure d’emergenza già previste: tasse. Le quali, a loro volta, comprimono la crescita, contribuendo a spingerci sotto la metà di quella altrui. L’ossigeno viene da fuori, ma noi ne sprechiamo una parte per alimentare il fuoco che ci arrostisce le terga. La Corte fa due ulteriori osservazioni. Prirna: la si smetta d’indicare la lotta all’evasione come fonte di copertura delle nuove spese. Giusto, ne sento parlare da quando sono nato e se fosse anche solo lontanamente vero gli evasori fiscali dovrebbero essere protetti come il Wwf protegge i Panda, invece si moltiplicano come conigli. Seconda: l’elasticità concessa dalle autorità europee agevola il govemo. Vero solo apparentemente, perché fa perdere tempo. Anche questo lo abbiamo ripetuto cento volte: crea effetti illusori, lasciando correre l’infezione della spesa improduttiva. Il Rapporto morirà nei cassetti parlamentari. I problemi irrisolti s’incancreniscono, infischiandosene delle sceneggiate assembleari.

Mala scuola

Mala scuola

Davide Giacalone – Libero

L’ultimo proclama recita: d’ora in poi si assumerà solo per concorso, nella scuola italiana. Per la verità quel “ora” data dal 1948, perché tale modalità è scolpita nell’articolo 97 della Costituzione, «salvo i casi previsti dalla legge». E quei casi hanno prodotto assunzioni di massa. È finita? Neanche per idea, perché si dice che da ora in poi ci vorrà il concorso, ma prima di “ora” c’è l’adesso e la prossima infornata di insegnanti sarà ancora ope legis, con apposito decreto legge il prossimo Consiglio dei ministri. Quanti insegnanti assumeranno, senza concorso? Neanche questo si sa, perché il numero varia da 120 a 148mila, ma Renzi ha detto che si attingerà a tutte le graduatorie esistenti, in cui si trovano al momento circa 500 mila insegnanti. Quando si sarà deglutito questo enorme rospo, ammesso che i ricorsi non provochino il rigurgito, non ci saranno altri posti, altre cattedre da assegnare. Per anni. A meno che non si voglia far crescere la spesa pubblica fino alle stelle, con conseguente, siderale, pressione fiscale. “Ora”, quindi, nel vocabolario della politica, significa: poi, un giorno, forse.

Con questo provvedimento si metterà fine alla precarietà e alle supplenze, dicono dal governo. No, procedendo in questo modo si rende sempre più precaria la formazione scolastica, cui suppliranno (con viaggi di studio e integrazioni private) solo le famiglie che possono permetterselo. La politica scolastica concepita come politica per chi nella scuola lavora, anziché per chi nella scuola studia, produce discriminazione a favore dei tutelati e a sfavore dei meritevoli. È una politica che segna il trionfo della coalizione fra somari, impiegati senza voglia né vocazione all’insegnamento e famiglie che alla scuola chiedono promozioni e pezzi di carta. La grande alleanza antimeritocratica. Con scorno di insegnanti e studenti interessati al sapere.

Come si potrebbe rimettere la scuola sui sani binari dell’apprendimento e della selezione? Tre cose, giusto per cominciare, e lasciando da parte la vera rivoluzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

1 . Standardizzare le valutazioni e monitorare in continuazione non solo i singoli istituti e studenti, ma anche i risultati che ottengono dopo essere usciti da scuola. Continuiamo a considerare paragonabili numeri, come il voto di diploma o quello di laurea, che paragonabili non sono. Da una parte si va larghi, dall’altra si gioca a far i severi, nell’insieme si ottengono numeri privi di senso comune. Il che vale anche per la valutazione dei docenti che, affidata ai dirigenti scolastici, risentirà di dinamiche solo marginalmente culturali o professionali. La standardizzazione delle valutazioni è pratica corrente in ogni processo produttivo che superi il livello degli scarpari. La si adotti anche a scuola, nel tempo sarà una preziosissima banca dati.

2. Soldi e carriere vadano dove le cose funzionano meglio. Un docente che ottiene risultati ragguardevoli (misurando i suoi alunni nel tempo) merita riconoscimenti economici e di carriera. Lo stesso per una scuola intera. Dove i risultati sono troppo sotto la media è segno che si deve mandare a casa insegnanti e dirigenti. Siccome il prossimo passo consisterà nell’assumerli in blocco, senza minimamente valutarli, si sta andando in direzione opposta.

3. Adottare massicciamente il digitale, anche per ridurre lo spreco di denaro, a carico delle famiglie, che comporta l’acquisto di testi scolastici talora sconfinanti nel ridicolo. Gli studenti sono ovunque digitalizzati, è la scuola ad essere rimasta analogica. Basta alibi pauperistici, grazie ai quali le Regioni stanno buttando valangate di quattrini nell’acquisto di ferraglia inutile, con gran goduria (riconoscente) dei venditori privati.

Non è tutto, non basta, ci vuole di piu. Lo so. Ma sarebbero provvedimenti che dimostrerebbero non solo la reale volontà di cambiare, ma anche di sapere come si può farlo. Richiederanno tempo, per produrre frutti, ma si sarà ben seminato. Qui, invece, si dice “ora” per significare “un di”, nel frattempo lasciando che la scuola sia redistributrice di spesa pubblica. Una fucina di mantenuti che è sempre meno possibile mantenere.

Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Che fine ha fatto il Piano Juncker per rilanciare l’anemica economia europea? Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe trattato di un programma  ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni a partire dal giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita.

La Commissione europea (Ce) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (Bei), ma la Ce di proprio ha messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro (anche se una cinquantina di miliardi di euro sono stati in parte “promessi” ed in parte “impegnati” tra novembre e metà febbraio). Al Fondo sarà associato un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’Ue a mettere a punto i progetti più efficaci. Il Fondo dovrebbe costituisce, secondo i comunicati della Ce, “il fulcro dell’offensiva sugli investimenti” del Presidente Juncker, che mobiliterebbe almeno 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta l’Unione europea. Saranno sostenuti soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche, e le imprese di dimensioni più piccole.

La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di progetti di investimento europei migliorerà infine l’informazione degli investitori sui progetti esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del Piano Juncker non verrebbero contabilizzati ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni ed il Pil, sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo. Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una Ce che appare sempre più pallida e sbiadita) il vice presidente della Ce, Jirki Katainen, sta facendo un road show che entro settembre lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali.

Già allora è stato sottolineato che sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della Ce, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr). C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della Bei e i prestiti del Feis. A questo riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la Ce intende creare un fondo di garanzia che attraverso contributi regolari provenienti dal proprio  bilancio dovrebbe raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’esecutivo comunitario nota però che il recente aumento di capitale della Bei ha generato un effetto leva di 18.

Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles vuole che la selezione dei progetti sia nelle mani di esperti indipendenti, mentre gli Stati membri vogliono influenzare le scelte, e per certi versi condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad assicurazioni su questo fronte. La trattativa già in gennaio era in salita. Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio dal presidente della Bei Werner Hoyer: “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”. Ciò sarebbe molto più importante di un’azione sugli investimenti pubblici.

Tanti progetti, poche certezze. Tanti impegni pubblici, pochi privati. Ma soprattutto poca innovazione. Il Piano Juncker lascia più di qualche perplessità alla Bei, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia dell’esecutivo di Bruxelles. Ma al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra l’attenzione della Bei. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma a Lussemburgo – sede della Bei – non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perché il piano Juncker funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.

Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema maggiore di gap di innovazione”. Il gap dii investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la Bei, 130 miliardi di euro, circa la metà del piano Juncker (che vale 315 miliardi). L’innovazione oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui a detta della Bei “occorre fare in modo che progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere accesso agli strumenti finanziari dell’Ue”.

Qui serve un cambio di strategia politica. La Bei coopera con i commissari interessati, vale a dire Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”.

Perché Hoyer parla solamente adesso? Le ragioni sono almeno tre:

a) Da un lato, a Bruxelles ed in alcuni capitali europee (tra cui Roma) non si è mai voluto ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più piccola: in Italia è passata dal 3% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti “pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese.

b)  Da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La  alma dei mercati finanziari viene interpretata come la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire.

c) Da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia). Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti europei, spiazzando altri obiettivi. In questo quadro, il Piano è quanto meno una “vittima collaterale”.

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La conclusione della riunione dell’Ecofin del 20 febbraio ha lasciato molte bocche amare, poiché appare difficile che nell’arco di quattro mesi, pur con il supporto dell’Ocse, il Governo della Repubblica ellenica riesca a preparare un programma di riassetto strutturale tale da convincere i partner dell’Eurogruppo. Appare ancora più difficile che i lineamenti di tale piano siamo pronti e consegnati a Bruxelles nel corso della giornata di oggi e discussi (e approvati) domani da un’altra riunione collegiale.

C’è, senza dubbio, grande attesa per quali saranno i contenuti nella lettera che entro stasera dovrebbe arrivare alla Commissione europea e all’Eurogruppo. C’è anche – occorre dirlo – una buona dose di scetticismo, almeno negli editoriali dei quotidiani economici e nelle dichiarazioni di esponenti grandi e piccoli delle istituzioni europee. L’impressione generale è che si è solamente guadagnato tempo per evitare una probabile uscita della Grecia dell’eurozona e il caos sui mercati finanziari mondiali che ciò causerebbe. La settimana scorsa – com’è noto – si è mossa anche Washington, spesso negli ultimi tempi poco attenta ai problemi europei (a ragione di quelli in altre parti del mondo) per incidere soprattutto su Atene affinché si giungesse a un accordo.

Ma se ci fossero informazioni nuove e tali da cambiare le carte in tavola? Un dato nuovo, e non irrilevante, è stato portato all’attenzione di un gruppo ristretto di economisti e specialisti di finanza, il 18 febbraio a Londra in una riunione riservata (ma non troppo) tenuta nei piani alti della torre di Morgan Stanley a Londra. Sono i calcoli di Paul B. Kazarian, economista e finanziere Usa di origine armena, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria a Providence, Rhode Island, (Japonica Partners con cui ha assestato un paio di colpi fortunati). Ora, cinquantanovenne, è ricchissimo e ha un portafoglio gonfio di bonds greci (quelle che la Banca centrale europea considera quasi-spazzatura) nella convinzione che gli porteranno un’enorme guadagno. A suo avviso, il debito “netto” greco è notevolmente inferiore a quanto indicato nelle cifre ufficiali e il Paese ha tutti i numeri per rimettersi in cammino.

La materia è molto tecnica. Quindi, va spiegata con ordine. Il debito sovrano greco è stimato in 318 miliardi di euro, applicando metodologie e procedure Eurostat che sono essenzialmente le stesse di quelle applicate da Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse. Kazarian sostiene che se ciò che in ballo è il fallimento della Repubblica ellenica, al fine di valutare la consistenza effettiva del debito e il suo peso sull’economia occorre impiegare strumenti di contabilità aziendale, per l’appunto gli International accounting standard (Ias), in vigore da diversi anni negli Usa e in Europa.

Gli Ias hanno due colonne: il dare e l’avere. Nella colonna del dare, soprattutto, tengono conto del valore attuale dell’indebitamento. I numerosi riassetti del debito greco effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale dell’indebitamento sia inferiore al debito nominale computato da Eurostat e altri. Sino a questo punto, il ragionamento di Kazarian tiene: è confermato indirettamente dal fatto che – come notato su queste pagine – il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali.

La colonna dell’avere contiene stime del valore del patrimonio pubblico greco: dai beni demaniali, alle partecipazioni statali, a beni culturali (quali il Partenone). Ritengo che non si debba tenere conto della colonna dell’avere, sarebbe come se nella contabilità dell’indebitamento italiano si computassero i 3800 miliardi di euro di risparmi delle famiglie e anche il valore del Colosseo e del Duomo di Milano. Se ci sofferma però sul dare, il peso del debito greco scende di 20-25 miliardi di euro. E un percorso di riassetto strutturale appare maggiormente fattibile.