Edicola – Opinioni

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Come uno studente svogliato, che la sera prima dell’interrogazione prova con scarso successo ad affrontare in volata secoli di storia ignorati per mesi, la Pubblica amministrazione italiana sta arrivando splendidamente impreparata all’appuntamento con il nuovo Isee. Qui, però, in gioco non c’è un voto in pagella, ma la possibilità di gestire decentemente l’edilizia popolare nelle città con le periferie infiammate oppure l’assistenza ad anziani e famiglie nei territori schiacciati dalla crisi. Non è certo la prima volta che una riforma arriva con l’affanno all’appuntamento dell’attuazione, ma in questo caso inciampare nell’applicazione pratica delle regole approvate ormai 12 mesi fa sarebbe un peccato grave. L’Isee di seconda generazione ha qualche problema, a partire dall’effetto collaterale dell’Imu che aumenta il valore imponibile della casa di proprietà e si riflette anche sull’indicatore, ma se ben attuata offrirebbe più opportunità che incognite.

Il sistema dei controlli automatici promette di spazzare via la pletora delle autodichiarazioni fantasiose che finora hanno permesso a molti di agguantare prestazioni e servizi a cui non avrebbero avuto diritto. I parametri, raffinati rispetto al passato, provano a offrire un’attenzione più puntuale ai bisogni effettivi delle famiglie, con tutele maggiori quando i figli sono tanti o c’è un portatore di handicap. Tutto il sistema, insomma, nasce per distribuire in modo più efficace i soldi pubblici per il welfare, che certo non aumentano allo stesso ritmo in cui crescono i bisogni.

Proprio quest’ultimo fattore rende indispensabile un surplus di impegno per evitare inciampi. Un po’ di aiuti che si spostano da chi è povero solo sulla carta verso i soggetti davvero in difficoltà sarebbero un’ottima notizia, ma un anziano che perde un sostegno solo perché la sua casa vale per il Fisco il 60% in più sarebbe intollerabile. Eppure il rischio c’è. A renderlo concreto c’è anche il fatto che la rete per lo scambio di informazioni fra le diverse pubbliche amministrazioni sembra ancora piena di buchi e che di conseguenza molti Comuni dovranno applicare “al buio” i nuovi parametri. In questo modo, il passaggio al nuovo Isee rischia di trasformarsi in una lotteria, il cui risultato dipende dall’incrocio più o meno fortuito fra i nuovi criteri di calcolo e le vecchie soglie di accesso ai servizi: una lotteria di cui non hanno bisogno le famiglie in difficoltà né i Comuni, lasciati in prima fila a gestire un problema più grande di loro.

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il ‘semestre europeo’ che sarebbe dovuto essere a guida italiana si sta chiudendo senza essere stato pilotato, in effetti, da nessuno. Le ragioni sono oggettive: i protratti, e difficili negoziati, per la costituzione di una nuova Commissione Europea in una fase in cui l’eurozona è il grande malato dell’economia mondiale, sono in corso guerre guerreggiate alle frontiere orientali e meridionali dell’area, e le tensioni tra il ‘virtuoso’ Nord ed il ‘peccaminoso’ Sud si fanno più acute. Non si deve certo attribuire al Presidente del Consiglio italiano il ‘bailamme’ in cui si è dipanato il semestre. Gli si può rimproverare , però, di avere, come è sua abitudine, fatte troppe promesse e destato eccessive aspettative. Accendendo la miccia per delusioni. Alla vigilia dell’imminente Consiglio Europeo del 18-19 dicembre, sarebbe auspicabile consigliargli la prudenza, virtù cardinale che pare lontana dalle sue convinzioni.

Oggi l’Europa sembra in mano a leader intellettuali e politici di stampo medioevale. Il confronto è tra iconoclasti e gli alchimisti. I primi sono guidati dall’economista Anatole Kaletsky ed annoverano tra i loro ranghi sia premi Nobel come Paul Krugman che giornalisti di belle speranze e tanto ottimismo. I secondi hanno trovato il loro Leader Massimo nel Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker.

Per i primi ci sarebbero indicazioni molto solide di una svolta. Anzi, sarebbe dietro l’angolo una “Grande Convergenza” tra le politiche macro-economiche degli Stati Uniti (dove la crescita del Pil rasenta il 4% l’anno) e quelle di Unione Europea, Giappone ed anche India e Cina. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce, inizierebbero un programma ‘vigoroso’ di ‘misure non convenzionali’, si allenterebbero i vincoli di bilancio (senza troppo preoccuparsi di Trattati e di Compact), si liberalizzerebbe, si privatizzerebbe. E via discorrendo. A mio avviso, queste indicazioni, ove ci fossero, non tengono conto dei nodi demografici che caratterizzano l’Europa in generale e l’Eurozona in particolare e che frenano innovazione, consumi ed investimenti ed impongono un crescente stato sociale (previdenza, sanità) e comportano una bassa produttività dei fattori di produzione. Inoltre, nell’eurozona, i Paesi ‘che pesano di più’ non ritengono che Trattati e Compact, liberamente sottoscritti, possano essere liberamente e gioiosamente violati.

Gli alchimisti hanno trovato – si è detto – il loro Leader nel Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, di cui Matteo Renzi è un aedo, ancor più che un corista a cappella. La prova si ha nel tanto atteso e tanto applaudito (da coristi e aedi) piano di investimenti di 300 miliardi di euro che dovrebbe ‘dare la scossa’ all’eurozona. In effetti, non solo – come notato da numerosi commentatori – la Commissione Europea stanzia sono 21 miliardi (che dovrebbero attrarre i Governi, i privati ed anche mia zia Carolina dubbiosa sul futuro della propria pensione ed anche dei propri risparmi), ma se dedica un po’ di tempo allo studio del bilancio comunitario ci si accorge che i 21 miliardi sono rimasugli (infrattati in migliaia di voci) non utilizzati dalla Commissione presieduta da José Barroso.

Non sono stati impegnati o perché mancavano i progetti o per lungaggini burocratiche degli Stati membri, delle loro Regioni e negli stessi labirinti comunitari. Quindi, più nulla che poco per ‘svoltare’ e ‘cambiare marcia’ in un’eurozona dove l’investimento in infrastrutture è ridotto, mediamente, a meno del 2% del Pil (non riporto per carità di patria l’ulteriore taglio proposto nella nostra Legge di Stabilità). In breve si tratta di una ricetta ispirata alla Vêc Makropoulos, la pozione che l’alchimista greco-ebreo preparò per l’Imperatore Rodolfo d’Asburgo (quando Praga era la capitale dell’Impero) immortalata in un dramma di Ċâpeck, uno dei massimi scrittori boemi del primo Novecento.

Matteo, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti. Cerca, piuttosto, di circondarti di chi di queste cose se ne intende.

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash” del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.

In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”.

In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.

Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Luca Ricolfi – La Stampa

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. È così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro». Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? È la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro. Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica.

Unità d’Italia e dopoguerra
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Francesco Forte – Il Giornale

La disoccupazione è volata in ottobre al 13,2%. Quella giovanile è salita al 43,3. La pressione fiscale eccessiva, la sua distribuzione sbagliata, le tecniche vessatorie di accertamento attuate dai tre governi succeduti a Berlusconi hanno generato disoccupazione e bloccato il Pil fra recessione e stagnazione. E il Pil quest’anno decresce dello 0,3%, per il brusco peggioramento del secondo semestre, mentre nel 2015 si recupera solo lo 0,3 perso nel 2014. L’Italia non è solo fra gli stati con la più alta pressione fiscale del mondo, con il 44% del Pil. Ha anche una distribuzione sbagliata del carico fiscale e aliquote eccessive che riducono il gettito, distorcono l’economia, bloccano la domanda interna ed estera e creano tutti i presupposti per la disoccupazione.

Monti, Letta e Renzi hanno commesso un errore fiscale enorme inasprendo di continuo la tassazione di immobili e rendite finanziarie, mentre la teoria della crescita in economia di mercato dice che le imposte sui capitali sono particolarmente dannose. Ora noi abbiano il record della tassazione patrimoniale che arriva al 3% del Pil, contro lo 1,8 della media Ocse (l’organizzazione economica mondiale che include gli stati sviluppati) e lo 1,7 dell’Unione europea. Nel 2011 eravamo sulle medie Ocse ed europee.

Il brusco balzo in avanti non solo ha creato la crisi edilizia e la connessa perdita di Pil e di occupazione. Ha anche indebolito le banche perché i loro parametri patrimoniali, al netto delle sofferenze (molto aumentate per la crisi edile) sono peggiorati. In più, la riduzione del valore degli immobili ha ridotto le garanzie della clientela, con aumento del rischio di credito. Situazione aggravata dall’esodo di capitali, stimolato della fiscalità su immobili e rendite finanziarie e dal fatto che i possessi patrimoniali diventano sempre più la base per le verifiche fiscali.

Adesso, con l’emendamento alla legge di Stabilità, promosso dal governo, per cui i dati bancari vengono incrociati automaticamente con quelli dell’Agenzia delle entrate, si ha una spinta alla riduzione degli impieghi di denaro nei depositi e nei portafogli gestiti dalle nostre banche, un aumento dei flussi contante e di quelli all’estero. Renzi ha preferito erogare 80 euro in busta paga che eliminare l’Irap sul costi del lavoro, per la generalità delle attività economiche. Ha finanziato le sue operazioni di consenso sociale con l’inasprimento fiscale sui patrimoni, non solo con la Tasi e l’unificazione di essa con l’Imu e la tassazione al 26% sulle rendite finanziarie, ma anche con quella sulla previdenza integrativa.

Questa manovra di presunta equità sociale doveva generare crescita e occupazione ma ha avuto l’effetto contrario. Non serve il «Grande fratello fiscale» per dare più entrate. Occorre ridurre le aliquote. Ad esempio, le vendite di immobili sono tassate con imposte di registro del 9%. E ciò ingessa il mercato. Le maggiori imposte sul risparmio e le aspre aliquote progressive di tassazione sul reddito falcidiano le classi medie. Ciò mentre le classi di reddito più alte sfuggono all’alta tassazione, tramite la globalizzazione finanziaria. Sulle imprese italiane grava un peso fiscale differenziale a causa dell’Irap, che distorce la nostra competitività. Riducendo le aliquote ci sarebbe più gettito dal flusso di attività che si genererebbe. E la gente, pagando i tributi penserebbe di pagare il dovuto.

L’occupazione fantasma

L’occupazione fantasma

Davide Giacalone – Libero

La disoccupazione cresce, ma il dato che descrive il dramma italiano non è questo, bensì quello dell’occupazione, che rimane patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, perché i due indici segnalano due problemi diversi. E la disoccupazione non è il più grave. Si deve capirlo, se non si vogliono applicare ricette illusorie, o meramente anestetizzanti.

L’Istat rende noto che nello scorso mese di ottobre la disoccupazione è giunta al 13.2%, in crescita dello 0.3 rispetto al mese precedente e dell’1% su base annua. Il male c’è, è grave e cresce, fino a toccare il suo record storico negativo, perché il peggiore dal 1977, quando si cominciarono a redigere le serie trimestrali. Così i disoccupati arrivano a 3 milioni 410 mila. Certamente troppi. Per non parlare della disoccupazione giovanile, anche se si deve considerare che la mostruosa percentuale del 43.3 è influenzata dal fatto che, seguendo le indicazioni europee, la si calcola nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, ma da noi è ben difficile dare lavoro a dei minorenni, senza incorrere nella pubblica dannazione e nel rischio di finire incriminati. Certi modi di contare discendono anche da certi modi di ragionare, sconosciuti nel Paese in cui tutto è proibito, tranne ciò che è esplicitamente regolato in modo che non si possa farlo.

Ma, ripeto, non sono questi i dati che fanno più paura. Quello decisivo è un altro: gli occupati sono appena il 55.6% della popolazione da considerarsi attiva. A ottobre erano 22 milioni e 374 mila, sostanzialmente stabili: -0.1 rispetto al mese precedente, + 0.1 rispetto all’anno precedente. Una stabilità che non ha nulla di buono, perché va letta in questo modo: in Italia un terzo dei cittadini ne mantiene due terzi e di quelli che potrebbero e dovrebbero lavorare se ne trovano impegnati poco più della metà. E in un Paese in cui poco meno della metà di quelli che dovrebbero essere al lavoro sono nullafacenti (salvo il mercato nero, ma allora si dovrebbe sottrarre dagli attivi i non produttivi) le cose non possono che andare male. Questo è il dramma. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni la partecipazione al lavoro è ferma al 59.8%, poco più del dato risalente al 2002, il che significa che si tratta di una problema strutturale (in Germania lavora il 77.1% di quella fascia). Siamo ben 8.5 punti al di sotto della media europea. Posto che i dati regionali disaggregati dimostrano che c’è un’Italia europea e una africana, il che non deve indurre a spropositi etnicodemenziali, ma a considerazioni amare sulla tolleranza della devianza sociale, economica e criminale, nella media nazionale mancano all’appello due “categorie”: le donne e i giovani fra i 25 e i 34 anni. Due eserciti con i quali si potrebbero vincere importanti battaglie contro il declino.

Chiedo scusa per la raffica di numeri, ma quel che chiedo al lettore di considerare è un concetto semplice: se la seconda potenza industriale d’Europa riesce a essere tale avendo una partecipazione al lavoro patologicamente inferiore alla media continentale, cosa accadrebbe se fossimo capaci di cancellare questo svantaggio? L’Italia schizzerebbe in avanti, il motore produttivo farebbe sentire un ruggito, la ricchezza crescerebbe e potremmo lenire un umore collettivo sempre più tetro. E questa non è la prospettazione di un ipotetico miracolo, ma il riassunto di un immediato dovere, per chi ha la responsabilità di governare il Paese.

Questo genere di problemi si affronta non con sgravi fiscali limitati nel tempo o con deregolamentazioni altrettanto passeggere, ma con modifiche profonde del modo in cui si considera il lavoro, sia in ingresso che in uscita. Quando la metà degli abili e arruolabili è assente senza essere renitente è segno che il modello legislativo ed economico adottato è errato. E l’enormità di questi dati rende piccinino l’ozioso e sempre uguale scontro sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Già solo che se ne parli ancora è segno che non si è capito nulla della realtà. Il nostro primo problema è quello di far tornare a essere reale quell’esercito fantasma, composto da italiane e italiani che dovrebbero essere al lavoro e che si ritrovano sbattuti altrove. Le celeberrime “garanzie” e i mitici “diritti acquisiti” sono i loro nemici. Non la meta da raggiungere, ma il dirupo da cui fuggire. E se riguardate con attenzione i dati relativi all’età vi accorgete di una cosa evidente: stiamo tutelando l’invecchiamento della popolazione al lavoro, così covando la bancarotta previdenziale, che già ha preso corpo negando ai più giovani quel che oggi è considerato meno del minimo per i pensionati.

Certo che i disoccupati sono troppi, ma il dramma sono gli occupati: troppo pochi. Se lo si capisse si metterebbe fine a tante discussioni inutili.

Sovranità senza sovrano

Sovranità senza sovrano

Davide Giacalone – Libero

Mario Draghi continua a ripetere che è impossibile sperare che la ripresa europea si basi solo sulle iniziative della Banca centrale. Che è necessario cedere sovranità per creare qualche cosa che somigli a un governo europeo. E ha ragione, tanto più che i fatti pongono davanti all’alternativa: cedere sovraninà per riforme e istituzioni condivise, o cederla perché travolti dalla propria inettitudine. Le alzate d’ingegno e le presunte fughe non ne restituirebbero neanche un grammo, semmai farebbero salire il conto da pagare.

La Bce può fare la sua parte, e la sta facendo, ma non può e non deve sostituirsi ai governi e alle istituzioni dell’Ue. Draghi ripete, giustamente, che la moneta unica chiede più integrazione, cosa che incontra una resistenza soprattutto francese. Taluni credono di sapere che l’euro nacque a freddo e dal nulla, invece ha alle spalle gli anni del Sistema monetario europeo e dei cambi (quello Sme cui si oppose il Pci, con le parole del non europeista Giorgio Napolitano, perché non voleva l’Europa indipendente e sovrana). Draghi, però, continua a non ricevere risposte convincenti. La Bce c’è stata e c’è. Quando lo sostengo c’è chi obietta: e che cosa ha fatto, per l’Italia? Molto: ha messo le banche in condizione d’acquistare titoli del debito pubblico e li ha a sua volta comprati, riducendo efficacemente il divario dei tassi d’interesse e l’affanno delle aste. Ora prova a pompare denaro destinato al credito, verso imprese e famiglie. Ha fatto molto, ma ha agito isolata. Ha invocato il coerente concorso di Ue, governi e parlamenti, ma questi fanno finta di non sentire.

Il governo italiano ha inviato alla Commissione una legge di stabilità fondata su dati irreali. Lo sa chi l’ha spedita e lo sa chi l’ha ricevuta. Allora perché la approvano, come raccontano tutti i giornali, anziché restituircela con sdegno? Intanto perché ne chiesero e ottennero delle correzioni, poi perché non l’hanno approvata, limitandosi a dire che i conti li faremo a marzo, quando non torneranno. Più in generale, però, non ce la tirano dietro perché i nostri numeri sono sì sballati, ma anche quelli degli altri. A cominciare da quelli della Commissione.

Il celebre piano Juncker ha finalmente preso corpo numerico, confermando i peggiori sospetti. 16 miliardi diventano 21 con i 5 della Banca europea degli investimenti; cosi creato, il Fondo europeo per gli investimenti strategici consentirà alla stessa Bei di fornire prestiti per il triplo del capitale, arrivando a una disponibilità di 63 miliardi (e già qui siamo fra gli atti di fede); dai 63 si passa a 315 grazie all’entusiasmo che vedrà moltiplicare tutto del quintuplo, con i capitali privati che vorranno partecipare alla festa (e qui si entra fra i misteri della fede, o negli empirei del raggiro). Se poi andate a leggere in cosa quei soldi dovrebbero essere investiti, trovate roba che o è profittevole in sé, quindi dovrebbe essere lasciata al mercato, o è spesa pubblica classica, che ammesso possa essere generatrice di profitto lo sarà solo dopo anni. La testa di questi politici funziona ancora immaginando spesa pubblica che sostiene i consumi, dimenticando che in questi anni di crisi il debito pubblico europeo è cresciuto in modo impressionante (il nostro, già enorme, meno di quello altrui). Quanto tempo ancora pensano che una zona ricca possa continuare a vivere al di sopra dei propri gia grandi mezzi?

L’azione di accompagnamento che la Bce reclama ha caratteristiche diverse. Servono riforme che sciolgano il blocco muscolare e celebrale di società che hanno preteso di abolire il rischio, così condannandosi alla paura del futuro. E servono tagli alla spesa pubblica corrente, compresi tagli al costo del debito (e gli unici visti vanno a merito della Bce), che consentano di far scendere la pressione fiscale. La Bce lavora per un cambio più favorevole, tassi bassissimi e inflazione più tonica. I governi dovrebbero lavorare per meno fisco e più produttività, non attendere i frutti dell’azione di Francoforte per ciucciarne i risultati e sprecarli come impareggiabilmente sanno fare.

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa non tradirà «i figli e i nipoti firmando assegni che finiranno per pagare loro». Il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, presentando il suo piano per la crescita da 315 miliardi di investimenti, si preoccupa del futuro dei più giovani. E dedica un pensiero politicamente corretto anche al «bambino greco di Salonicco che deve poter entrare in una scuola moderna con il computer». Dunque, niente denari freschi. Ma tante speranze sì. Quella per cui 21 miliardi di capitale iniziale si moltiplicano al pari della fiducia degli investitori privati e ne mobilitano 315, in particolare a favore dei Paesi più sofferenti. O quella per la quale «piacerebbe» a Juncker che siano i Paesi con «più ampi margini di manovra di bilancio» (leggasi Germania) a contribuire di più al costruendo fondo per gli investimenti capace di strappare l’Europa alla stagnazione.

La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) deve mantenere il suo rating da “tripla A” e non può assumersi rischi, ha precisato il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen. D’altra parte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel approva «in linea di principio» il piano ma si riserva già una verifica appuntita dei progetti. E non è ancora certo che l’eventuale contributo dei singoli stati nazionali sia escluso dal calcolo del deficit e del debito ai fine del rispetto del Patto di stabilità. Insomma la vecchia «nonna Europa», per stare alla tagliente definizione di Papa Francesco, fa il passo che può. Quello corto, e ancora tutto da scrivere prima nei regolamenti e poi nell’economia reale, ma che consente di dire è «il primo» della svolta dopo l’austerity. Alle sue spalle, in tema di azioni pro-crescita, il fallimento dei piani del 2008 e del 2012. Ci si augura che non finisca così. Cosa può fare l’Italia? Primo: battersi a Bruxelles per riempire quanto più possibile i buchi del progetto le cui incognite sono pari alle sue ambizioni. Secondo: far scattare i piani relativi ai 40 miliardi subito “bancabili” co-finanziabili con la Bei di cui ha parlato il ministro Pier Carlo Padoan. Sarebbe già questo un gran risultato.

Come cambiare il limbo del lavoro

Come cambiare il limbo del lavoro

Tito Boeri – La Repubblica

Il Governo ha ottenuto un’ampia delega dalla Camera per riformare le regole del mercato del lavoro, dalle norme sui licenziamenti individuali agli ammortizzatori sociali, dall’introduzione di un salario minimo alla semplificazione delle tipologie contrattuali. Ora si appresta a chiedere la stessa delega al Senato. Ci si aspetterebbe da parte dell’opposizione, sia in Parlamento che nelle piazze, una richiesta pressante di chiarimenti da parte del governo su come intende esercitare questa delega, su cosa precisamente intende fare su materie molto importanti e delicate. Invece, gli oppositori si pronunciano solo su come meglio bloccare l’iter della riforma. Fino a ieri si parlava di un ricorso alla Corte Costituzionale per eccesso di delega. Ieri, Susanna Camusso ha addirittura minacciato il ricorso alla Corte Europea. Bene ricordare che l’incertezza sul quadro normativo è la peggiore nemica della creazione di lavoro.

Tenere ancora più a lungo il nostro Paese in un limbo, in cui non si sa quali saranno le regole del mercato del lavoro, significa fare aumentare ulteriormente la disoccupazione perché i datori di lavoro, in queste condizioni, rimandano le assunzioni in attesa di maggiori certezze sul quadro normativo. Inoltre, una Corte può al massimo ripristinare lo status quo e questo è tutt’altro che invidiabile. Il nostro mercato del lavoro è il peggiore d’Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività, formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l’elenco potrebbe continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente indifendibile. Certo non aiutano i continui attacchi del nostro Presidente del Consiglio al sindacato. Sembrano dettati dal tentativo di accreditarsi in Europa e in fasce di elettorato tradizionalmente ostili al sindacato. Non se ne sentiva proprio il bisogno dato che si stanno riformando le norme sui licenziamenti individuali, non quelle sui licenziamenti collettivi in cui il sindacato gioca un ruolo cruciale. Fatto sta che, invece di rendere partecipi gli italiani di un confronto anche acceso su come e cosa riformare concretamente per migliorare le cose, si cerca di arruolarli nelle piazze e nelle urne per uno scontro di potere all’interno del partito di maggioranza relativa.

Vediamo allora quali sono i punti chiave su cui si gioca la possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente. I decreti che seguiranno la legge delega dovranno ridurre l’enorme incertezza che oggi circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza del Pd ha ottenuto di creare un’asimmetria su come vengono trattati i licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. Come già discusso su queste colonne, questa asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare il contenzioso, dunque l’incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad aumentare questa incertezza, tranne chi esercita la professione forense. Perché l’opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all’azienda perché si è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece “ha dato il massimo”, ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un’impresa che, per colpe non sue, è entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di lavoro paga un’indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo? Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell’azienda presso cui lavora.

Un’altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un compenso orario minimo», ma solo per i settori dove non c’è contrattazione collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c’è un 13 per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni. Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?

C’è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C’è un modo per scoraggiare l’abuso di queste figure contrattuali senza magari eliminarle del tutto? E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle oggi previste dalla Legge di Stabilità?

Perché nessuno pone queste domande al governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e immigrate, che lavorano nel nostro paese? Sono, immaginiamo, questi i quesiti che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. L’altra faccia della medaglia delle felpe rosse della Fiom sotto la giacca è un assegno in bianco. Quello che sta concedendo al governo chi dichiara il proprio dissenso sul Jobs Act, evitando di incalzare l’esecutivo su queste scelte fondamentali per il futuro del lavoro in Italia.

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Il Sole 24 Ore

A volte sembra che il fisco italiano sia al centro di una grande rappresentazione teatrale, seppure con un numero piuttosto ristretto di protagonisti. Facciamo l’esempio di un primo atto, con tre scene ambientate nei primi mesi del 2014.

Gli amministratori di un ente non commerciale (una fondazione, un trust) incontrano il loro commercialista: l’ente possiede una partecipazione in una società italiana che intende distribuire dividendi. Il commercialista non ha dubbi: l’ente tasserà il 5% del dividendo incassato, e dato che l’Ires è al 27,5, il livello di tassazione finale sarà pari all’1,375 per cento. Forti di questa risposta, gli amministratori decidono di dare parere favorevole alla partecipata, che distribuisce i suoi dividendi.

Nella seconda scena, a maggio 2014, una società estera si rivolge a un commercialista italiano per pianificare investimenti produttivi nel nostro paese. Tra le varie domande rivolte al consulente, una riguarda l’Irap. Puntuale la risposta: grazie a un decreto appena entrato in vigore (il Dl 66/14), l’aliquota Irap è ridotta al 3,5 per cento. L’impresa straniera decide di costituire una società in Italia, e inizia a lavorare.

Nella terza scena, è autunno inoltrato. una compagnia di assicurazione contatta gli eredi di un proprio assicurato, appena defunto, beneficiari di una polizza sulla vita. Questi chiedono se dovranno pagare imposte sulle somme che riceveranno e il funzionario della compagnia li rassicura: tutte le somme saranno esenti da imposta.

A questo punto si passa al secondo atto: le cose si capovolgono e tra i protagonisti va in scena un dialogo cosi surreale da far impallidire Samuel Beckett e il suo teatro dell’assurdo.

Prima scena. Siamo agli inizi del 2015. Gli eredi del titolare della polizza hanno appena ricevuto la liquidazione delle somme dalla compagnia di assicurazione, e hanno subìto una ritenuta che non si aspettavano. La compagnia spiega che ha dovuto liquidare l’Irpef su una parte dei capitali. Aveva spiegato loro che erano tutti esenti, e a quel tempo era così; poi, pero,è arrivatala legge di stabilità per il 2015 e ha cambiato le regole. Anche per i contratti stipulati prima del 2015.

Seconda scena. Alla scadenza delle dichiarazioni dei redditi, gli amministratori della fondazione si presentano dal commercialista, pronti a pagare l’1,375% dei dividendi. Il consulente, però, presenta ben altro conteggio: l’Ires è diventata il 21.3785% dei dividendi, perché la tassazione ora agisce sul 77,74% di quanto percepito. Agli amministratori sbigottiti spiega che non è un errore, e che anche la vecchia risposta non era sbagliata: è la legge di stabilità per il 2015 che ha cambiato la tassazione. Dal 2014.

Terza scena. L’amministratore estero della società costituita in Italia verifica con il consulente il calcolo delle imposte per il 2014 e gli fa notare un piccolo errore: ha applicato l’Irap al 3,9% anziché al 3,5%, dimenticandosi della risposta che lui stesso aveva dato un anno prima. Il consulente ha l’ingrato compito di spiegare a un cittadino di un altro paese che entrambe le risposte sono giuste. Lo farà in modo tecnicamente ineccepibile, argomentando che le aliquote sono state modificate dalla legge di stabilità per il 2015. Dal 2014.

Cala il sipario sullo sconcertante finale. Vladimiro ed Estragone (i personaggi di Beckett) sono ancora in scena a domandarsi cosa sia successo e ad aspettare come sempre Godot, che non arriverà mai. E Godot è un fisco leale che non si permetta di cambiare le regole del gioco retroattivamente, cioè quando i giochi sono già iniziati.