Edicola – Opinioni

Gli Abs per spingere la ripresa? Tokyo ci ha provato ma la Banca del Giappone non sa ancora se è servito a qualcosa

Gli Abs per spingere la ripresa? Tokyo ci ha provato ma la Banca del Giappone non sa ancora se è servito a qualcosa

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il piano di acquisto di titoli Abs (Asset Ibacked securities, ossia titoli ‘cartolarizzati’ basati su attività reali) da parte della Banca centrale europea è in rampa di lancio. Francoforte ha annunciato che lo ‘shopping’ inizierà a novembre, «dopo la pubblicazione della documentazione legale». Gli acquisti verranno eseguiti, per conto della Bce, da quattro società – Amundi Intermédiation, Deutsche Asset & Wealth Management International, Ing Investment Management e State Street Global Advisors – selezionate con gara. Le operazioni verranno effettuate per un anno su «esplicite istruzioni» del Consiglio Bce. Prima di approvare le transazioni, la Bce condurrà l’appropriata ‘due diligence’ e i controlli sui prezzi. L’autorizzazione agli acquisti sarà pubblicata sul sito della Bce ed entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione.

Sugli Abs ci sono ancora molti comprensibili timori. Non sono strumenti nuovi, dato che esistono da almeno 30 anni (nel 1996, Wiley and Sons, una delle maggiori case editrici di New York, ne pubblicava una voluminosa guida) ma sono considerati uno degli elementi di quella «esuberanza irrazionale» che ha contagiato i mercati negli anni Novanta portando alla crisi scoppiata nel 2007. Ciò spiega le perplessità espresse da componenti degli organi di governo della Bce. Ma sono poche le esperienze di Abs utilizzati da banche centrali per fare uscire le banche e le imprese dalla ‘trappola della liquidità’. Altra ragione che spiega la ritrosia di alcuni Stati membri dell’Eurozona. L’esperienza più lunga (e più pervicace) è quella della Bank of Japan che, dal 1999, ha utilizzato gli Abs, a più riprese e con varie modalità. Non è esperienza facile da studiare, sia perché gran parte degli studi sono in giapponese sia a ragione delle profonde differenze del sistema istituzionale nipponico rispetto a quello europeo.

Nel 2010, in un lavoro per una conferenza internazionale tenuta a Boston, Kazuo Ueda dell’Università di Tokyo (uno degli economisti giapponesi più autorevoli in materia) concludeva che gli Abs non avevano dato nessun contributo di rilievo ai mercati del Paese ed a cenni di ripresa. Più incoraggiante un lavoro pubblicato a marzo su ‘Economics World’ da Yutaka Kurihara di Aichi University a Nagora. Lo studio conclude che gli Abs «hanno contribuito a stabilizzare i mercati finanziari ed a fornire supporto a piccole e medie imprese» (ovviamente in Giappone). In breve hanno avuto un’utile funzione di «ponte». In Europa funzioneranno? Per capirlo serviranno verifiche periodiche.

Il vero 18 che deve essere abolito

Il vero 18 che deve essere abolito

Giordano Riello – Libero

L’inventiva e l’agilità. Sono queste le due caratteristiche che secondo il Fondo Monetario Internazionale hanno consentito all’ltalia di mantenere il proprio livello di import/export su base competitiva in campo internazionale. Una analisi quella del Fmi che però si scontra con una realtà statistica diversa, dove a fronte del brand Made in Italy che continua ad attirare investitori e risorse, risulta esserci una ondata, continua e contraria, a questo movimento. Prendendo infatti ad analisi i dati del rapporto Eurostar riferito al periodo 2008-2013, il quinquennio gravato dalla crisi economica, il costo del lavoro nei 2,8 Paesi Ue è aumentato del 10,2%, mentre in Italia è stato superiore, stabilendosi su una percentuale dell’1 1,4%.

Non basta. Se vogliamo parlare del numero 18 – più volte richiamato in questi giorni dal Presidente del Consiglio – l’attenzione, ma soprattutto la concentrazione degli sforzi riformatori, deve porsi su quel 18% che interessa sempre la tassazione lavorativa e che colpisce l’Italia ponendola in una posizione svantaggiata rispetto al valore intermedio Ocse. Se tale media infatti si stabilisce su dati del 35%, in Italia il costo del lavoro che grava sulle imprese è pari al 53%, con un differenziale del 18% che rende minore la competitività dell’intera economia italiana. Questo è dunque il 18 che deve essere abolito. Per un imprenditore è certo un segno di sconfitta non poter assumere una persona che ha un reale bisogno di una busta paga, perché si è sotto continuo ricatto di un sindacato che difende dei diritti – giusti e protetti dalla legge – che però lo stesso per primo non applica. Bisogna però ragionare in una più ampia analisi.

La fase di riforme intrapresa dal Governo per una modifica dell’articolo 18 è quindi di valore, ma mira agli obiettivi sbagliati poiché per un new deal italiano occorre in prima fase una riduzione del clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, che deve essere coordinato ad un taglio della pressione fiscale sui contratti a tempo indeterminato. Bisogna infatti prima essere in grado di creare un environment ideale a generare nuove e più efficaci condizioni lavorative: tale risultato si raggiunge esclusivamente mettendo in moto azioni atte ad ottenere sgravi fiscali ed una più efficace e rapida riforma della burocrazia, capaci di generare insieme un sicuro circolo virtuoso che possa permettere alle aziende di ritornare ad assumere ed investire.

In Italia – riprendendo i dati di apertura – il costo del lavoro continua a salire, ma a beneficiarne non sono i lavoratori: ne sono interessati invece i costi non salariali della busta paga, ovvero le tasse su datori di lavoro e dipendenti, che cosi foraggiati continuano a bloccare il meccanismo di crescita. È un problema di linguaggio forse, ma non solo. Perché se nella passata fase espansiva si parlava di una economia capace di «dare di più a tutti», con l’avvento dell’austerity lo stesso tema si è trasformato in un «togliere qualcosa a tutti», bloccando non solo le possibilità di sviluppo, ma lo stesso rilancio del Paese. Non è più possibile pensare ad uno Stato che resti immobile, incapace di creare nuovo slancio economico ed ancora fermo ad un assistenzialismo figlio di un ’68 ormai anacronistico. Il paradosso è quello di avere uno Stato con il potenziale migliore a livello produttivo, che si continua a mettere i bastoni tra le ruote con una politica fiscale da rivedere. Resta quindi questo il 18% da eliminare, quello di un costo del lavoro che negli ultimi anni è stato freno e tra le maggiori cause dei necrologi industriali nel nostro Paese.

Uno stato che non vuole dimagrire

Uno stato che non vuole dimagrire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Resistere, resistere, resistere. Più si rischia di finire asfaltati dalla storia – prima ancora che dalle riforme – e più l’imperativo è alzare le barricate per non sparire. E conservare i privilegi di sempre. Guardiamo all’ultimo allarme della Banca d’Italia. Il Governo prova a mettere il Tfr in busta paga per sostenere i consumi e Palazzo Koch cosa fa? Boccia tutto, gettando nel panico chi potrebbe essere presto chiamato a scegliere, avvisando che le pensioni saranno più povere. Beh, è evidente anche al più sprovveduto che le risorse utilizzate oggi non ci saranno domani. Quello che appare meno chiaro è cosa ci stia a fare oggi la Banca d’Italia, priva di competenze sulla moneta e sulla vigilanza bancaria. Buon senso vorrebbe che si sciogliesse, anche per risparmiare i molti milioni che brucia strapagando dal governatore all’ultimo dei suoi privilegiatissimi impiegati. Un rischio concreto, che bisogna scongiurare, magari prima che a qualcuno venga voglia di cambiare verso pure su via Nazionale. Una musica identica a quella che si sente dalle parti dei sindacati, delle Regioni, di una burocrazia che sa di aver fatto il suo tempo. Ma che di mollare non ci pensa proprio.

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alla flexicurity servono più risorse e strategie

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli – Il Sole 24 Ore

Riformare davvero il mercato del lavoro in Italia, non vuol dire soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18, ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Una sfida che sembra essere raccolta dalla legge delega, la quale prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive (ispirati alle linee guida della Strategia europea per l’occupazione e al modello di flexicurity) e la creazione di un salario minimo legale. Tutti elementi cruciali per trasformare il sistema nel suo complesso e aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, ma sul cui merito si è poco discusso.

Per esempio, non si è discusso delle coperture. Nel testo approvato al Senato si legge: «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La legge di Stabilità prevede poi solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega. È credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? Basta confrontare la situazione italiana con quella del resto d’Europa, dove il sistema già esiste, per capire che difficilmente funzionerebbe.

L’Italia ha speso all’anno, in media, per le politiche del lavoro l’1,5% del Pil a fronte di una media europea dell’1,9 per cento. Se però si divide questa spesa per i disoccupati si scopre che la spesa per le politiche del lavoro in Italia è molto lontana da quella dei Paesi della flexicurity. Nel 2012 l’Italia ha speso in media 7.800 euro per il sostegno al reddito dei disoccupati, a fronte dei 18.100 in Danimarca e 21mila in Belgio. Nello stesso anno, l’investimento medio in politiche attive è stato di 1.800 euro in Italia, 16.900 in Danimarca e 6.500 in Belgio. È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche?

Oltre l’aspetto finanziario, vi è poi quello della capacità amministrativa. I centri per l’impiego italiani sono capaci di svolgere l’attività di matching tra domanda e offerta dei mercati del lavoro locali? Sono capaci di soddisfare la domanda di formazione delle aziende nei loro distretti? Se no, perché e di quali strumenti avranno bisogno? I dati arrivati finora da Garanzia giovani non sembrano incoraggianti: a più di cinque mesi dal lancio dell’iniziativa, meno del 25% dei giovani registrati sono stati presi in carico e profilati dai Centri per l’Impiego (CpI). Questo nonostante le risorse siano già disponibili (più di 1,5 miliardi di euro). Come il Jobs Act vuole intervire su questo punto? Il testo approvato al Senato prevede un’«Agenzia nazionale per l’occupazione», che riesca a superare la frammentazione territoriale dei CpI attuali. Un’agenzia composta anche da «personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati». Ma queste persone sono in grado di effettuare attività di front-office o andranno a ingrossare le fila della burocrazia di questa agenzia?

Considerato che con il Jobs Act cambia radicalmente l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro sempre e comunque, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione, è bene proporre una riforma solida e credibile altrimenti l’innesto di un sistema nuovo in un sistema che già fa resistenza rischia di creare un bel nulla. Per andare in questa direzione ciò che serve è prima di tutto ricordare che la flexicurity è un pacchetto e va implementata nel suo insieme. Non ha senso infatti pensare di attuare la flexibility prima e la security poi. In secondo luogo, è importante tenere a mente che la gestione moderna delle politiche del lavoro necessita di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione. Non si possono infatti trasformare i funzionari dei centri per l’impiego semplicemente cambiando il loro job title. In maniera complementare rispetto a questo, è anche necessario stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive, cosa che aiuterebbe a superare lo scetticismo di chi teme di passare da un regime a un altro.

La lunga marcia del fisco semplice

La lunga marcia del fisco semplice

Primo Ceppellini e Roberto Lugano – Il Sole 24 Ore

La legge delega per la riforma fiscale ha prodotto il primo risultato: il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva il decreto legislativo sulle semplificazioni. Dall’esame dei trentasette articoli del provvedimento si capisce subito che è stato seguito un approccio minimalista: sono poche le questioni veramente importanti che sono state toccate, mentre si è scelto di “limare” alcuni adempimenti per alleggerire (leggermente) la vita delle imprese e dei professionisti.

In estrema sintesi, possiamo classificare gli interventi in tre grandi aree. Innanzi tutto, ci sono le disposizioni che incidono (in meglio) sul complesso rapporto con il fisco: sono le norme sulle società in perdita sistematica e quelle sui compensi dei professionisti. Un secondo lotto di misure è volto a rendere più snelli, senza però sopprimerli, alcuni adempimenti: si va dalle regole sui rimborsi Iva alle opzioni per i regimi fiscali alternativi, per arrivare agli elenchi intrastat, alle comunicazioni dei costi black list e alla gestione delle lettere di intento. Il terzo gruppo di novità ruota intorno alla dichiarazione dei redditi precompilata per i lavoratori dipendenti e gli assimilati: è il tema meno tecnico, visto che impatta in modo marginale sul mondo dell’impresa.

L’elenco più impressionante, però, è quello degli aspetti che non sono stati presi in considerazione dal decreto legislativo, anche se previsti dagli articoli 7 e 11 della legge delega. Nelle novità, che nella maggior parte dei casi si applicheranno dal 2015, mancano infatti la nuova Iri (l’imposizione sugli utili di imprese individuali e società di persone), la revisione della tassazione separata, la definizione dei requisiti per l’esclusione da Irap, la semplificazione delle regole per gli ammortamenti e per i costi parzialmente indeducibili, le modifiche alla tassazione delle operazioni frontaliere, la revisione della tassazione delle cessioni di azienda. Per non parlare di altri aspetti, come la riorganizzazione dei regimi contabili, che sono stati dirottati in altri provvedimenti, come il disegno di legge per la stabilità. Insomma, la conclusione è facile: la “polpa” delle semplificazioni è rimasta pacificamente fuori da questo provvedimento. Se poi ricordiamo che le altre norme di delega, a tutt’oggi ben lontane dall’attuazione, riguardano i temi ancora più complessi e importanti dell’abuso del diritto, del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, del Catasto e dei giochi, il quadro che ne esce è piuttosto desolante.

Abbiamo fatto riferimento ad alcuni aspetti particolarmente positivi del decreto; questi meritano un approfondimento, non tanto sui dettagli tecnici, quanto piuttosto per le scelte di fondo che sono state adottate. In primo luogo, è stato rivisto il periodo di osservazione per le società in perdita sistematica: non bisogna più fare riferimento al triennio, bensì al quinquennio precedente. Ovviamente, sarà più facile trovare un periodo con un reddito positivo e superiore a quello minimo, quindi diminuiranno le ipotesi di società non operative, di interpelli da presentare, di accertamenti e di contenziosi. Ebbene, su questo aspetto è stata fatta la scelta di applicare immediatamente la novità: dopo un corretto richiamo allo Statuto del contribuente, infatti, l’articolo 18 applica la novità al periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Questo dimostra che, quando si vuole, è possibile semplificare da subito, cioè con effetti immediati.

Il secondo esempio virtuoso riguarda le norme sui professionisti, e dimostra che quando una norma è assurda può essere abrogata. Si tratta delle spese che le aziende sostengono per vitto e alloggio di professionisti esterni: oggi le aziende, dopo avere sostenuto la spesa, devono comunicarla al professionista, e questo deve esporla nuovamente nella sua fattura di consulenza; un “giro” di documenti e di adempimenti privo di qualsiasi effetto se non aumentare costi e rischi per tuti i soggetti coinvolti. Dal 2015 si torna alla normalità: l’impresa sostiene il costo e se lo deduce, e non comunica nulla al lavoratore autonomo, che rimane sollevato da assurde duplicazioni di adempimenti.

La domanda finale è ovvia: ma ci volevano tutti questi anni, una legge delega e un decreto legislativo di semplificazione per fare semplicemente “marcia indietro” ed eliminare un chiaro errore? Speriamo almeno che da questa vicenda si possa trarre un insegnamento concreto. Per esempio, proprio mentre si discuteva di soppressione di adempimenti inutili, è stata istituita la nuova comunicazione (in scadenza pochi giorni fa) per i beni concessi in godimento ai soci. È un altro caso di regola scritta male, complicata da applicare e inutile (visto che i dati possono essere richiesti semplicemente dalla dichiarazione dei redditi). C’è da augurarsi che non serva un’altra delega per cancellare anche questo.

Ordini, avvocati delle cause perse

Ordini, avvocati delle cause perse

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

A fine ottobre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice Deontologico Forense, elaborato dal Consiglio Nazionale Forense già a febbraio del 2014 e che entrerà in vigore il 15 dicembre di quest’anno. Il Codice stabilisce le norme di comportamento che i legali devono osservare in via generale e, in particolare, nei rapporti con clienti, controparti, colleghi e altri professionisti. I contenuti in parte sono il frutto della controriforma dell’ordinamento forense del 2012, quando gli avvocati riuscirono a far approvare dal Parlamento una legge a loro dedicata. Legge che abrogava o restringeva alcune liberalizzazioni previste per tutte le altre professioni liberali.

Esaminando le norme che hanno più impatto economico del Codice, sicuramente ha una certa importanza quella sulla pubblicità. La regola è che non è possibile né fornire informazioni denigratorie, suggestive, equivoche o ingannevoli (e fin qui ci siamo), né comparative o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale. Non è chiaro perché non si possano dare anche tali dati: paradossalmente, se un avvocato vincesse il premio Nobel per l’economia nonlo potrebbe svelare.

Ancora più restrittiva la disposizione che vieta di indicare il nominativo dei propri clienti anche se questi ultimi sono d’accordo. In questo caso si va contro i principi di trasparenza, in quanto il potenziale cliente potrà scoprire i conflitti di interesse solo chiedendo direttamente al professionista. E soprattutto non è chiaro perché, per capire il valore di un giurista, è più importante qualche roboante titolo tipo “specialista di diritto canonico” e non la tipologia di operazioni e cause che ha seguito e per conto di chi: non c’è dubbio che i clienti preferiscono sapere questi aspetti del curriculum per decidere chi li assiste.

Anche la pubblicità su Internet è regolata in modo cavilloso: sono utilizzabili solo siti web con domini propri senza reindirizzamento. Perché mai? Il divieto di accaparramento di clientela, poi, contiene solo restrizioni anti-concorrenziali. È proibito l’uso di agenti o procacciatori e non si capisce il motivo, visto che si tratta di figure che agevolano l’attività economica. Non si possono corrispondere provvigioni se viene presentato un cliente ad un altro avvocato, atto legittimo e che invece facilita l’indirizzamento di clienti a colleghi più competenti piuttosto che pretendere di essere tuttologi e cercare di tenerseli a tutti i costi.

Paradossale il comma 4 dell’articolo 37: “È vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo di svago e, in generale, in luoghi pubblici”. Insomma “l’utente” dovrebbe bussare alla porta dello studio legale, essere ricevuto da un avvocato in toga che gli sentenzia “Narra mihi factum, dabo tíbi ius”, ringraziare, andarsene e aspettare il responso. Ma in che mondo vive chi ha scritto questa norma? Si è appena affacciato fuori dai confini? Si rende conto di che risate si può fare il cliente che convoca la riunione presso la propria sede e si sente dire che, a causa della deontologia professionale, non si può fare o che non è possibile mandare un avvocato per qualche giorno o settimana a dare una mano ai legali interni presso gli uffici societari?

Addirittura si proibisce quella che qualunque operatore economico giudicherebbe come un servizio intelligente, innovativo e attento al cliente: è vietato offrire, infatti, senza esserne richiesto, “una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”. Se sai fare qualcosa e hai individuato un’opportunità per una impresa, è meglio tacere. Naturalmente si ribadisce ciò che è presente anche nella controriforma del 2012, ossia il divieto di patto di quota lite (compenso determinato in percentuale a quanto si recupera nel contenzioso; uno dei modi più efficienti per dare accesso alla giustizia ai poveri ed evitare che gli avvocati inizino cause inutili).

Il governo si appresta a varare la legge sulla concorrenza che dovrebbe contenere norme per eliminare la competenza esclusiva degli avvocati per l’assistenza stragiudiziale, consentire aggregazioni multidisciplinari e la partecipazione di soci di capitale alle società di avvocati, prevedere la pubblicità dei compensi eliminando la disparità con le altre professioni, liberalizzare il patto di quota lite. Se approvate, si tratterebbe di ottime disposizioni che però fanno sorgere il dubbio se il Codice rimarrà compatibile con una riforma modernizzatrice. La risposta è semplice e non può che essere negativa.

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Soltanto la (buona) flessibilità crea lavoro

Giuliano Cazzola – Il Garantista

«Eppur si muove». Il tasso di disoccupazione alla fine del terzo trimestre dell’anno in corso si attesta al 12,6 per cento. Un livello dal quale il mercato del lavoro sembra incapace di lasciarsi alle spalle. Si intravedono, però, alcune modifiche – modeste ma significative – per quanto riguarda l’occupazione giovanile nelle coorti (tra i 15 e i 24 anni, quelle che ormai vengono prese a riferimento): il tasso di occupazione cresce dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente e dello 0,5 rispetto ai precedenti dodici mesi. Anche il tasso di disoccupazione giovanile vede una piccolissima inversione di tendenza (-0,8 sul mese precedente) in un contesto complessivo caratterizzato da un incremento del trend negativo pari a 58mila unità.

Più interessante la diminuzione degli inattivi (-0,9 e -2,1 per cento nei confronti di un anno prima). Sta a significare che i giovani si mettono in numero maggiore sul mercato in cerca di un impiego. I dati delle comunicazioni obbligatorie ci dicono che la riforma del contratto a termine sta producendo degli effetti sul piano delle assunzioni, anche se rimane tuttora d’ostacolo il “Generale inverno” della crisi economica. Come vedremo fra poco la flessibilità “buona” (il nuovo contratto a termine) ha scacciato quote consistenti di flessibilita “cattiva” (le collaborazioni e le partite lva, per esempio), in quanto la liberalizzazione progressiva del contratto a tempo determinato è stata accompagnata dal precedente giro di vite sui rapporti atipici, di cui alla legge n.92/2012 (la riforma Fornero, appunto).

Secondo un recente studio dell’Osservatorio dei lavori, che ha preso a riferimento i dati della Gestione separata presso l’Inps, nel 2013, rispetto al 2012, i parasubordinati sono diminuiti di 166.867 unità (-11,7 per cento), i professionisti con partita Iva di 3.740 unità (-1,27) secondo l’Inps: quest’ultimi, di 11.757 (-4) secondo stime realizzate e contenute nello studio. Contrariamente a quanto si crede tali categorie di lavoratori sono quelle che hanno subito i tagli più vistosi dalla crisi e, nell’ultimo anno della ricerca, hanno subìto anche la penalizzazione normativa loro imposta dalla legge Fornero, «la quale imponeva», è scritto nello studio, «nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e favorire lo spostamento verso il lavoro dipendente, l’introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti».

Dal 2007 al 2013, i “contribuenti-collaboratori” sono passati da 1,67 milioni a 1,25 milioni (con una diminuzione di oltre 400mila unità pari al 24,7 per cento di cui circa 167mila nell’ultimo anno, a legge n.92/2012 in vigore). Pur essendo in calo anch’essi nel 2013, negli anni della crisi sono aumentati (quasi del 31 per cento dal 2007) i professionisti (questa è la definizione che attribuisce loro la Gestione separata) titolari di partita Iva, passando da 222mila a 291mila (altro che i milioni come lasciano credere le solite leggende metropolitane che mettono in conto anche le partite iva delle aziende). I lavoratori parasubordinati, in Italia, con il loro

Risparmio e povertà

Risparmio e povertà

Davide Giacalone – Libero

Gli italiani che hanno aumentato la loro capacità di risparmio e quelli che, all’opposto, sono a rischio di povertà, si equivalgono: il 33% i primi e il 28.4 i secondi. C’è di buono che i primi, misurati da Ipsos, crescono (di 4 punti dal 2013 al 2014), mentre i secondi, contati da Istat, diminuiscono (di 1.5 punti dal 2012 al 2013). L’accostamento dei due dati può indurre a credere che quello italiano sia un problema redistributivo: togliamo ai primi per dare ai secondi. Ricetta suicida. Sarebbe uno schiaffo all’onestà. Il nostro problema è produttivo, ovvero riprendere la via che fa crescere la ricchezza, non il prelievo fiscale e la redistribuzione della miseria.

Fa un certo effetto sentir celebrare la “giornata del risparmio” in un Paese che tende ad eliminarlo anche dal vocabolario: adesso le chiamano “rendite finanziarie” così riescono a tassarle maggiormente. Satanismo fiscale che colpisce anche il risparmio obbligatorio, come il Tfr. Rendita finanziaria è un concetto che invita a immaginare lo speculare, il profittare, l’ingrassare a scapito altrui. E’ appena il caso di ricordare che il risparmio delle famiglie consiste in redditi su cui già si sono pagate le tasse. Accantonamenti per il futuro, rinunce a consumi immediati. Un tempo si diceva che era un comportamento encomiabile. Ora solo tassabile.

Se si guarda la curva del risparmio, ci si accorge di un fenomeno istruttivo. All’alba del secolo gli italiani che riuscivano a risparmiare erano decisamente più numerosi, il 48%. Sono andati costantemente diminuendo e il calo è cominciato ben prima della grave crisi finanziaria. Leggo così il dato: l’Italia era già in perdita di competitività, il reddito disponibile diminuiva, ma i tassi d’interesse scendevano, grazie all’euro (ogni tanto vale la pena ricordarlo), la fiducia nel futuro era notevole, quindi si è risparmiato un po’ meno, lasciando stabile il proprio tenore di vita. Oggi continuo a consumare, domani tornerò a risparmiare, perché le cose andranno meglio. Dal 2008 al 2010 la crisi finanziaria era un titolo del telegiornale. Dopo, con il 2011, s’è sentita la botta nella vita reale. Nel 2012 il sabba tributario a rischiarato le notti. A quel punto si poteva immaginare che sempre meno persone si sarebbero dedicate al risparmio, invece è avvenuto il contrario: dal 2012 si risparmia di più. E’ cresciuto il reddito? No, è cresciuta la paura: smetto di consumare come prima, accetto che il mio tenore di vita scenda, perché temo che il futuro sia peggiore del presente e, quindi, è necessario mettere da parte qualche cosa.

Andare dagli impauriti e spiegare loro che sono i ricchi mantenuti dalle rendite finanziarie, talché si può e si deve tassarli maggiormente, è una politica di diffusione del terrore. Anche perché i risparmi dei quali stiamo parlando sono quelli delle persone normali, in quantità unitarie contenute. Se fossero davvero ricchi, liquidi e in grado d’investire molto … non sarebbero qui loro, in ogni caso non sarebbero qui i loro capitali. Per la stessa ragione per cui una donna libera ed evoluta, che voglia vivere in totale autodeterminazione la propria vita sentimentale e sessuale, non va a vivere dove governa l’Isis. Quelli costretti a pagare più tasse sono i presi per il collo. Mentre i 17 milioni di italiani a rischio di povertà li si prende per i fondelli, se si fa credere loro che si possa risolvere il problema con la redistribuzione.

Qui si deve andare a lavorare, il che comporta che si sia potuto investire in attività produttive e che il fisco non si mangi la gran parte del profitto. Sono i più poveri ad avere interesse a che la ricchezza produca ricchezza, mentre solo gli agiati possono accettare che la ricchezza propizi solo sicurezza (ammesso che sia possibile, e non lo è). Eppure sento sempre dire: chi ha di più deve dare a chi ha di meno; si mandino in pensione i lavoratori più anziani, così si trova lavoro per i giovani. Teorie stupefacenti, nel senso che sono droghe che inibiscono il ragionare: dobbiamo lavorare di più, più numerosi, per più tempo, senza che il frutto del lavoro venga depredato a favore della spesa corrente improduttiva.