Edicola – Opinioni

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, in queste settimane ha più volte illustrato la sua visione di ruolo e compiti dell’amministrazione finanziaria. È un approccio nuovo, che merita di essere richiamato, per l’intelligenza politica e soprattutto per la sensibilità giuridica che esprime. Controlli sì, lotta all’evasione certamente, ma anche più fiducia reciproca. È la concezione del fisco che risale a Vanoni e che questo giornale ha continuamente richiamato. La Orlandi fa riferimento soprattutto alle imprese ma il discorso vale per tutti i contribuenti. La filosofia che anima le sue dichiarazioni va oltre il contingente.

Che cosa afferma la Orlandi? Le norme antielusione per principio vanno superate. Come vanno superate le norme caratterizzate da estrema volatilità, che sono come i cerotti per tamponare le emergenze per mettere «toppe improvvise». Difatti, l’attuale ordinamento tributario è senza respiro, si avvita su se stesso, e diventa la causa più formidabile dell’evasione e soprattutto dell’elusione. Si crea difatti incertezza che è il principale nemico delle imprese, non solo ma di tutti i contribuenti. Le norme fiscali non sempre sono chiarissime, il che è solo un eufemismo per dire che ci troviamo di fronte a un groviglio senza né capo né coda. La fibrillazione e l’incertezza sono due costanti del sistema. E tutto questo demotiva le imprese italiane che decidono, sostiene sempre il direttore delle Entrate, di andare all’estero a causa «di una legislazione non allineata alle regole internazionali».

Se davvero il nuovo direttore delle Entrate riuscirà a far cambiare la filosofia del rapporto tra amministrazione e contribuenti, saremo di fronte a una svolta radicale. Se alle parole seguiranno i fatti si vedrà. Rossella Orlandi è a capo dell’amministrazione. Il suo è un discorso politico, è un discorso da ministro. Ci vorranno tempi lunghi per l’attuazione di questa linea. Ma questa è la direzione. È la prima volta che si sente parlare di fiducia reciproca. Finora non se ne trova traccia nei discorsi politici. Per capire come stanno le cose dal punto di vista politico basta ricordare alcune delle ultime proposte del governo che per la loro modestia dimostrano che la strada di una nuova filosofia non è stata ancora imboccata.

Il primo passo lo deve fare il governo. È significativo il richiamo della Orlandi alla lentezza che caratterizza i lavori per l’approvazione delle delega fiscale. «Una delega pensata non per rifondare ma per una manutenzione del sistema» e che va resa «effettiva ed efficace, procedendo spediti, visto che finora i tempi si sono allungati», nonostante ci abbiano lavorato «già tre governi e due parlamenti». La vicenda della legge delega dimostra che nella predisposizione delle leggi fiscali bisogna distinguere l’aspetto politico dalla formulazione tecnica: la prima tocca alla classe politica la seconda all’amministrazione, senza confusione di ruoli.

Usare il bancomat non è più reato

Usare il bancomat non è più reato

Nicola Porro – Il Giornale

Negli ultimi 10 anni esagerare con il Bancomat era davvero rischioso. Non tanto perché si rischiava di finire in rosso in banca, quanto perché si era certi di finire soffritti dall’Agenzia delle entrate. Facciamo un passo indietro. Gli uomini di Attilio Befera (oggi è stato sostituito come ben sapete da Rossella Orlandi) nei confronti dei tanto odiati lavoratori autonomi, e in particolare dei professionisti, si erano dotati di un bazooka. Chiunque dal primo gennaio del 2005 si fosse permesso di utilizzare il Bancomat avrebbe dovuto dimostrare a chi erano destinati i contanti. Una roba da pazzi. Ma credeteci, vera. In caso di accertamento, gli uomini del fisco si presentavano dal lavoratore con un foglio elettronico con su scritti tutti i Bancomat e prelievi cash fatti negli ultimi cinque anni. In modo del tutto arbitrario sostenevano che una percentuale potesse essere giustificata dal tenore di vita e dalle spese più spicce (sigarette, caffè, mance che si possono presumere pagate in contanti), ma sul resto era necessaria una prova dell’utilizzo da parte del povero contribuente. Una prova chiaramente diabolica. Ma ancora più diabolico era l’atteggiamento del fisco.

Mettiamo che il poveraccio avesse prelevato, in cinque anni, 10mila euro (ma per un reddito medio potrebbe essere ben di più) e che gli uomini del fisco gli abbuonassero 4mila euro. Il resto, e cioè 6mila euro, veniva considerato dal fisco come ricavo aggiuntivo, non dichiarato e dunque evaso, da parte del lavoratore autonomo. Secondo il principio che il nero genera il nero (cosa peraltro vera), per dieci anni professionisti e autonomi hanno pagato imposte su prelievi fatti con il Bancomat di cui non sono stati capaci di giustificare l’utilizzo. Se uno sprovveduto, dotato di buon reddito e sicuro di essere fiscalmente a posto, si fosse azzardato a giocare e perdere a poker o fare regali in contanti a sue amiche (sì, certo, non molto elegante, ma saranno fatti suoi) o a parenti o a figli, per più di 50mila euro l’anno, rischiava addirittura di finire in carcere per superamento delle soglie di evasione ai fini della rilevanza penale. Ai signori del fisco si dovevano giustificare anche le mance, se cospicue. Insomma, un inferno fiscale. E soprattutto un principio da Stato di polizia.

Ovviamente chi è stato colpito da simili indagini ha fatto ricorso. Ma la Cassazione per una buona serie di casi ha dato ragione all’impostazione del fisco. In effetti, dal punto di vista legale, l’Agenzia era blindata da un codicillo contenuto nella Finanziaria del 2005 (governo Berlusconi). Fino a quando un contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria regionale del Lazio che, nel 2013, bontà sua, si è rimessa addirittura alla Corte costituzionale dubitando della legittimità di questa norma, che anche a un bambino sembra folle. Siamo così arrivati ai giorni nostri e alla decisione della Corte che, pochi giorni fa, con la sentenza numero 228, ha giudicato incostituzionale la procedura e questa diabolica presunzione legale. Evviva. Sono passati solo dieci anni. E molti professionisti hanno già subito la gogna dell’evasione e pagato la sanzione conseguente. Finalmente un giudice, a Roma, ha stabilito che quell’assurda presunzione sui prelievi di contanti come costituzione di ricavi in nero sia stata lesiva del principio di ragionevolezza e capacità contributiva.

Alla fine viene da pensare sulla qualità del percorso legislativo in questo Paese. E qualche brivido corre lungo la schiena pensando all’ultima finanziaria (ora si chiama legge di Stabilità). Siamo piuttosto certi che l’idea di tassare la liquidità prelevata con i Bancomat non sia stata un’idea di Silvio Berlusconi all’epoca al governo. Eppure sono dieci anni che professionisti e autonomi pagano per questa scellerata previsione normativa.

All’interno della Finanziaria del 2005 fatta di un solo articolo e 572 commi, al comma 402 era previsto: le parole da «a base delle stesse» alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni». Non state a perderci la testa: arabo. All’epoca, c’è da giurarci, l’astrusa previsione normativa fu presentata dagli uffici ministeriali come norma fondamentale per combattere l’evasione fiscale. E giù tutti ad applaudire. Ecco, quando vi dicono, come purtroppo si scrive anche nell’ultima legge di Stabilità, che sono previste nuove e più dure norme per combattere i furbetti, state certi che la fregatura è per tutti.

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Paul Krugman fatica a capire come andrà a finire la «faccenda» dell’euro, o meglio, come farà a finire in modo non catastrofico, e si spinge fino a ipotizzare/auspicare l’uscita di paesi fondatori, come la Francia, dall’Unione europea e dalla moneta unica, vuol dire che la situazione è non poco compromessa. Che ormai le abbiamo provate tutte senza risultato, tanto in termini di politica economica quanto in termini di politica monetaria.

In politica economica si è sbagliata la linea: si pensi alla dottrina calvinista dei «compiti a casa» e alle ricette «sangue, sudore e lacrime» imposte ai paesi sotto attacco speculativo dall’Europa a trazione tedesca. Le misure di politica monetaria, invece, si stanno rivelando inefficaci, o meno efficaci del previsto. Siamo nel momento di maggiore debolezza non solo dell’Europa politica, ma anche della Bce, sempre più bloccata dai veti della Bundesbank, di cui gli operatori sono perfettamente a conoscenza e su cui cominciano a speculare. Dopo 2 anni e mezzo di attesa, i mercati dicono «vedo» al «faremo di tutto» di Mario Draghi del luglio 2012. Se la risposta non sarà immediata e forte l’Eurozona avrà finito le munizioni. E, questa volta sì, l’euro potrebbe implodere davvero.

La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e la domanda interna, magari facendo un po’ di deficit, ma non lo fa. La Francia dovrebbe dimostrarsi un po’ meno sfrontata nei confronti delle regole europee, indebolite dal suo atteggiamento sprezzante, ma non lo fa. E l’Italia sta perdendo la sua grande occasione di mediazione e sintesi: dimostrare a Germania e Francia che la verità sta nel mezzo, che le regole di bilancio si possono rispettare, utilizzando al meglio i margini di flessibilità già previsti dai Trattati. Basta essere credibili facendo le riforme che generano crescita e garantiscono un percorso di rientro da eventuali lievi discostamenti dai parametri di Maastricht.

Il vuoto di leadership lasciato dall’Italia è stato, quindi, ancora una volta, colmato dalla Germania. Giovedì, parlando davanti al suo Parlamento, Angela Merkel lo ha detto in maniera esplicita: la tempesta sui mercati, innescata mercoledì 15 dalla Grecia, è il risultato del mancato rispetto, da parte di alcuni paesi dell’area euro, delle regole del Patto di stabilità e crescita. La calma in Europa c’è stata solo quando le regole non sono state violate. La Germania è riuscita a coordinare disciplina di bilancio e crescita, e anche gli altri paesi devono fare lo stesso. La Cancelliera si è poi riservata di chiedere un rafforzamento della disciplina di bilancio già al prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre a Bruxelles. Che significa ricadere nel circolo vizioso.

Ma questa è solo l’interpretazione tedesca della bufera finanziaria. C’è, infatti, chi la vede in maniera opposta: il crollo delle borse e il balzo in alto degli spread della scorsa settimana è dipeso dagli ennesimi dati negativi sull’andamento dell’economia nell’area euro, Germania inclusa. Recessione e deflazione sono il risultato delle politiche economiche sbagliate adottate negli anni della crisi e le istituzioni europee, pur avendo compreso l’errore, non accennano a cambiare rotta, anzi perseverano nel «sangue, sudore e lacrime». In un contesto come questo, in cui le politiche economiche dei paesi dell’Unione sono tutt’altro che coordinate tra loro e in cui, nel vuoto decisionale lasciato dalle istituzioni europee, l’unico paese che prende in mano la situazione è sempre e soltanto la Germania, portando l’Europa sulla strada sbagliata, neanche la Bce è più in grado di assicurare la calma sui mercati. Quello che emerge dalle decisioni di politica monetaria degli ultimi mesi, infatti, è che anche all’interno della Banca centrale europea sta prevalendo la linea tedesca.

L’ultima «zampata» di Mario Draghi risale ormai a quasi sei mesi fa, poi non è più riuscito a incantare i mercati. Proprio perché alla conferenza stampa mirabolante di giugno scorso, in cui annunciava un grande piano di 400 miliardi di finanziamenti agevolati alle banche, da destinare esclusivamente alla concessione di credito a famiglie e imprese, e un grande piano di acquisto di Abs (titoli obbligazionari che «impacchettano» prestiti a privati e imprese), per alleggerire i bilanci delle banche, non è seguito, al contrario di quanto prevedevano tutti, un programma di acquisto di titoli di Stato sul modello del quantitative easing americano, ma una clamorosa marcia indietro.

Se negli ultimi anni gli errori di politica economica sono stati compensati dalle misure di politica monetaria della Bce e l’Europa ha potuto beneficiare di un periodo di calma apparente sui mercati, si pensi al whatever it takes di luglio 2012, oggi la ritrovata incertezza e la debolezza della Bce scoprono la realtà vera: la moneta unica è una costruzione imperfetta e al suo interno i singoli Stati nazionali non sono in grado di camminare con le proprie gambe.

Il momento in cui tutto questo avviene non è dei migliori: il prossimo 26 ottobre saranno resi noti i risultati degli stress test di 124 banche europee (di cui 15 italiane) e i rumors non lasciano prevedere nulla di buono. Pare che già alcune delle vendite di Borsa della scorsa settimana siano state causate dal fatto che si dia quasi per certo il fallimento dei test di molte banche, non solo italiane. Inoltre, il 17 settembre la Fed ha ridotto ulteriormente la sua iniezione mensile di liquidità sui mercati, annunciando che gli acquisti di ottobre, pari 15 miliardi di dollari, potrebbero essere gli ultimi. Con meno soldi in circolazione le scelte di portafoglio dei gestori diventeranno più selettive e i primi titoli che saranno smobilizzati saranno quelli dei paesi europei considerati più deboli (come, per esempio, l’Italia, se continua a non fare le riforme). Al primo segnale di incertezza, di debolezza o di comportamenti opportunistici, inoltre, ricomincerà la corsa al Bund tedesco, considerato «bene rifugio», con il relativo aumento degli spread. Anche di questo la scorsa settimana abbiamo avuto già un assaggio.

La prossima riunione del comitato operativo della Fed è in agenda per il 29 ottobre. Solo allora sapremo se la linea della presidente Janet Yellen verrà confermata, o se prevarranno le istanze del presidente della Federal Reserve di Saint Louis, James Bullard, che, invece, preme per il prolungamento del quantitative easing . Il consiglio direttivo della Bce si riunirà il 5 novembre. Deciderà quello che i mercati si aspettano, vale a dire l’allentamento monetario, o prevarrà l’attendismo degli ultimi mesi, che, come abbiamo visto, ha neutralizzato l’accelerazione di giugno, e le borse precipiteranno ancora più giù? Un tale evento nefasto troverebbe l’Italia in mezzo al guado.

L’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. L’esecutivo si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Nel paese protestano tutti, incluse le Regioni, governate da rappresentanti dello stesso Pd che è a palazzo Chigi. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni macroeconomiche del governo appaiono fin troppo ottimistiche agli occhi di tutti. La legge di Stabilità presentata mercoledì va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla Commissione europea e dagli organismi internazionali. In controtendenza rispetto all’attuale mood dei mercati, come l’abbiamo descritto. Più che domare la tempesta, e cogliere l’occasione per assumere un ruolo di leadership in Europa, Matteo Renzi sembra fare di tutto per esserne travolto. Davvero vuol passare alla storia come colui che ha affossato l’Italia e, con l’Italia, l’euro?

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

Enzo Moavero Milanesi – Corriere della Sera

In Europa, i governi degli Stati dell’Eurozona hanno inviato, entro la data prevista del 15 ottobre, il progetto del rispettivo bilancio (la «legge di Stabilità»). Si è aperto un periodo cruciale, durante il quale ne saranno valutate sostenibilità e prospettive. La Commissione europea ha il compito di effettuare un’analisi approfondita e di emettere un parere di cui Governi e Parlamenti nazionali dovranno tener conto. Un parere motivato e pubblico; molto atteso nei mercati finanziari, da chi decide se acquistare, e a quale tasso d’interesse, i titoli dei debiti pubblici dei vari Paesi. È opportuno che, insieme agli investitori, si allertino anche i cittadini, facendosi sentire dai loro rappresentanti nelle istituzioni democratiche. Infatti, nel caso di «bocciatura» europea di un progetto di bilancio o di inosservanza delle indicazioni contenute nel parere, gli inevitabili effetti sui mercati si ripercuoterebbero velocemente anche su di noi cittadini, in termini di costi sociali e maggiori tasse. Non dobbiamo cadere in errore: il vero snodo è la reazione, l’atteggiamento dei mercati, ben più della posizione di questo o quel Paese dell’Unione europea.

Considerato l’elevato livello del debito pubblico accumulato dall’Italia e il peso sul bilancio dello Stato degli interessi passivi che paghiamo per sostenerlo, la fase di esame, iniziata da qualche giorno, merita tutta la nostra attenzione. Il meccanismo di esame europeo – come spesso succede con l’Ue – sembra comprensibile solo agli addetti ai lavori; d’istinto, lo percepiamo troppo «tecnocratico», probabilmente influenzato da interessi a noi estranei, magari ostili. Provo a illustrarlo, in estrema sintesi. L’obiettivo è di permettere la valutazione dei bilanci nazionali, quanto prima possibile, per individuare gli eventuali problemi e i relativi rimedi. Il sistema è stato introdotto nel 2013, quale difesa contro il rischio di conti pubblici divergenti fra Stati che condividono la stessa moneta. Un rischio che la crisi globale ha mostrato essere concreto: tale da pregiudicare stabilità e integrità dell’Eurozona, con grave danno, in particolare, per le economie meno salde. Le caratteristiche base del meccanismo sono tre. La prima è la sua natura preventiva: evitare disavanzi eccessivi nei bilanci nazionali che determinerebbero procedure d’infrazione e sanzioni, previste sin dagli inizi dell’euro per proteggerne la solidità. La seconda è la tutela dell’interesse generale e della trasparenza: è la Commissione europea (indipendente dagli Stati e controllata dal Parlamento europeo – eletto dai cittadini – nonché dalla Corte di giustizia Ue) che svolge la verifica e le sue risultanze sono pubbliche (già ora, i progetti di tutti i governi si trovano sul sito della Commissione). La terza sono i tempi (posto che le leggi di bilancio vanno approvate per il 31 dicembre): la Commissione, ricevuti i progetti (15 ottobre), se ravvisa «un’inosservanza particolarmente grave degli obblighi», pubblica il suo parere, entro due settimane (29 ottobre), dopo aver sentito lo Stato in causa; quest’ultimo ha, poi, tre settimane (19 novembre) per presentare un nuovo progetto, che sarà oggetto di un ulteriore parere entro altre tre settimane (10 dicembre); qualora, invece, non rilevi una tale patologia, la Commissione diffonde, entro il 30 novembre, i pareri per ciascun Paese e una valutazione delle prospettive d’insieme dell’Eurozona; il tutto è presentato all’Eurogruppo, ai ministri economici dei vari Paesi, il cui avviso è reso pubblico «ove appropriato»; anche il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali possono richiedere una presentazione.

Dunque, le due settimane in corso sono nodali, al fine di comprendere se qualche progetto di bilancio sarà «bocciato» e di sapere cosa andrà modificato per scongiurare procedure d’infrazione, sanzioni e turbolenze sui mercati. Le regole base hanno un’intrinseca flessibilità, così spesso invocata a livello politico. Tuttavia, poiché si tratta di conti che devono quadrare e di precisi obiettivi di prospettiva, l’esame è prevalentemente tecnico: occorre che i risultati siano credibili e verificabili. L’interdipendenza delle economie nell’Eurozona, amplificata dalla crisi, ci condiziona: tutti gli Stati hanno un interesse diretto alla diligenza degli altri. I mercati e gli investitori attendono, osservano e reagiranno. C’è apprensione per la Francia e l’Italia, data l’importanza delle loro economie. È fondamentale che teniamo un costante, intenso, ben preparato e argomentato contatto con le istanze Ue e con gli altri Paesi. Come cittadini possiamo vigilare, affinché Governo e Parlamento operino al meglio, in sede interna ed europea, con efficace dialettica democratica. Dovremmo farlo: per tutelare – anche noi! – i nostri interessi.

Lo spettro della stagnazione secolare

Lo spettro della stagnazione secolare

Paolo Onofri – Affari & Finanza

I paesi emergenti, che avevano consentito di evitare il baratro all’economia mondiale nel 2008-2009, sono sotto stress finanziario e reale da circa un anno, a causa del deflusso di capitali in attesa della svolta nella politica monetaria della Fed. Delle difficoltà di questi paesi soffrono certamente gli Stati Uniti che hanno subito qualche vulnus alla solidità della loro ripresa, in atto senza interruzioni dalla fine del 2009, ma ben di più l’Europa, per la quale si sovrappongono anche gli aspetti economici del conflitto in Ucraina. Questi fenomeni stanno determinando la riduzione dei prezzi delle materie prime, soprattutto del petrolio, e quindi il cerchio si chiude con la riduzione dei prezzi alla produzione e al consumo nel mondo industrializzato: la deflazione. In queste fragili condizioni, qualsiasi disturbo possa intervenire anche alla periferia dei paesi maturi, oppure in un grande paese emergente (il riferimento alla Cina non è casuale), può determinare reazioni a catena di natura destabilizzante. È quanto stiamo osservando in questi giorni. Fare previsioni in un tale situazione, è una attività a rischio reputazione. Come ben sanno, mutatis mutandis, i meteorologi di questi tempi.

Sullo sfondo dell’evoluzione dei prossimi anni c’è sempre più l’ipotesi della cosiddetta “stagnazione secolare”. Combinazione di diversi fattori: insufficiente domanda rispetto all’offerta di beni che le innovazioni della tecnologia consentono di produrre; eredità d’indebitamenti dalla crisi ancora in corso; l’incipiente invecchiamento delle popolazioni dei paesi avanzati. La politica economica sta affrontando da tempo il problema dei debiti privati e pubblici. È, invece, molto più complicato prendere di petto gli altri due problemi sopra indicati. Comunque, sottostante la soluzione di tutti vi è il contributo che può venire dalla ripresa della crescita. Ripresa che alcuni vorrebbero conseguire con il rigore di bilancio coniugato con politiche dell’offerta, altri con un innesco dato da consistenti iniezioni di domanda, possibilmente combinate con politiche dell’offerta i cui effetti non possono che manifestarsi nel medio periodo. Così le previsioni di breve periodo diventano più complesse per il sovrapporsi di scelte di politica economica futura e possibili eventi imprevedibili che possano destabilizzare i mercati finanziari.

Venendo alla previsione di cosa è probabile accada all’economia italiana, le valutazioni che Prometeia ha formulato nel rapporto presentato alla fine della settimana scorsa muovono dalle tendenze di fondo a una crescita comunque bassa, dalla osservazione che i più colpiti da questa svolta nell’economia internazionale, in ordine di gravità, sono la nostra economia, quella europea e in misura decisamente minore gli Stati Uniti e dalla considerazione di natura politica che i paesi europei non potranno rimanere immobili di fronte al possibile suicidio politico della classe dirigente che rischia di immolarsi sull’altare del rigore comunque. È sufficiente presumere un qualche briciolo di razionalità per attendersi che saranno cercati tutti gli escamotage possibili per dare il via libera all’Italia sulla Legge di Stabilità appena presentata e, in secondo luogo, per consentire alla Francia nuovi margini temporali per rientrare sotto il 3% di disavanzo.

L’Europa rischia altri anni, oltre al 2015, di mancata ripresa e l’Italia un altro anno di recessione, dopo la sorpresa del 2014, e una successiva lunga stagnazione. Alla Francia dovranno essere concessi alcuni anni per rientrare senza aggravare la sua situazione e all’Italia, ugualmente, dovrà essere consentito, anno per anno, di mantenersi fuori dal fiscal compact almeno fino al 2017, pur rispettando il limite del 3% di disavanzo effettivo. Sotto queste condizioni, le più realistiche che si possano immaginare senza stravolgimenti degli assetti istituzionali attuali dell’Europa, l’euro area e in particolare la nostra economia possono tornare a crescere nell’intorno dell’1% nel 2016 e 2017, dopo una striminzita ripresa nel prossimo anno. La legge di stabilità appena presentata si muove certamente nella direzione giusta cercando di compensare le fasce di popolazione più colpite dalla crisi e creando le condizioni migliori possibili per l’assunzione di nuovo personale da parte delle aziende. Dal punto di vista strettamente macroeconomico non va trascurato che i consumi sono l’unica voce di domanda interna che da tre trimestri sta contribuendo positivamente, anche se in misura molto piccola, alla crescita del Pil, a fronte di contributi negativi d’investimenti e variazione delle scorte.

I provvedimenti della Legge di Stabilità lasciano alle decisioni di spesa delle famiglie l’impulso esogeno che possa risollevare la domanda interna dalla sua caduta complessiva sollecitando, così, la ripresa degli investimenti privati. Sappiamo, però, che le decisioni di spesa delle famiglie sono molto influenzate dal grado d’incertezza e il quadro internazionale che abbiamo davanti non è confortante. Per evitare il rischio che colpi di coda ulteriori della crisi internazionale provochino un aumento della propensione al risparmio precauzionale è necessario predisporre già da subito maggiori impulsi alla spesa per investimenti pubblici. È per questo insieme di ragioni che le previsioni di Prometeia, valutando che gli interventi per il 2015 possano spingere il Pil a crescere dello 0,5%, affidano la previsione di aumenti di poco superiori all’1%, nei due anni successivi, alla spinta proveniente da una ripresa degli investimenti pubblici. Ciò sarebbe ancora più urgente se dovesse confermarsi il nuovo indebolimento del dollaro che in questi giorni sta manifestandosi.

Fra l’uscio e il muro

Fra l’uscio e il muro

Marcello Mancini – La Nazione

I tagli del patto di stabilità hanno messo le Regioni fra l’uscio e il muro. Ora dovranno trovare il verso di far quadrare i conti. I governatori attaccano: «Saremo costretti noi ad alzare le tasse»; «Renzi invita a cena con i soldi degli altri». Detto così può sembrare anche un ragionamento giusto: il premier si fa un altro spot («È la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo della Repubblica») mentre scarica sulle Regioni l’antipatica responsabilità di recuperare da qualche parte i finanziamenti che i rubinetti statali smetteranno di erogare.

L’istantanea e rabbiosa reazione di tutte le Regioni, però, non convince per nulla. Prima di tutto perché non può piangere miseria e minacciare di ritorsioni (più tasse) sui cittadini, una categoria di politici che negli ultimi anni ha prodotto le evoluzioni di Fiorito-Batman, le aragoste a colazione, le mutande verdi di Cota e le prodezze di un esercito di inquisiti che hanno fatto man bassa dei nostri soldi, sottraendoli alle casseforti regionali. Proviamo invece a leggere i tagli di Renzi come una spallata alla Casta, un modo per dire: arrangiatevi voi. Troppo facile rifarsela con i cittadini.

Che le Regioni siano una sacca di sprechi e di burocrazia non è una scoperta recente. Gonfiate negli anni da assunzioni clientelari, consulenze esterne milionarie, missioni e uffici all’estero, appropriazione di funzioni figlie della megalomania di qualche assessore, hanno creato canali di spese inarrestabili. Perciò molti hanno pensato – soluzione assai condivisibile – che invece di abolire le Province sarebbe stato più logico ridimensionare le Regioni. a questo avrebbe comportato una botta per migliaia di posti di lavoro. Allora la strada scelta da Renzi è un modo per costringere i governatori a guardarsi in casa e tirare la cinghia sul serio. Il presidente dei governatori, Sergio Chiamparino, si è avventato su patto di stabilità con una tale violenza, nonostante sia un renziano della prima ora, da far pensare che i cannoni della manovra abbiano centrato il bersaglio.

Costa fatica muoversi dalla pigrizia amministrativa, che ha lasciato correre soldi senza badare troppo a dove finivano (pensate alle spese dei gruppi consiliari che, fuorché in Toscana, sono sotto inchiesta), salvo poi bussare alla porta del salvifico decreto romano. È il momento di studiare soluzioni nuove e far calare la spending review su qualche allegra scampagnata finanziaria, sopravvissuta ai risparmi. In Toscana il non-renziano Enrico Rossi ha già messo le mani avanti – eppure con il freno a mano tirato, rispetto a Chiamparino – e ha ipotizzato un superticket sui servizi nella Sanità. «Paghino i ricchi» è il ritornello trotskista di Rossi, già brandito per difendere i servizi dei treni pendolari divorati dall’Alta velocità colpevole di non costare abbastanza ai privilegiati passeggeri. A parte che bisognerebbe capire fin dove Rossi – in questo nostro disgraziato sistema – estende il concetto di «ricchi», gli consigliamo di ripensare anche ai costi della politica sanitaria, agli sprechi trascorsi (il buco Asl di Massa; il magazzino Estav di Calenzano, pagato 20 milioni e inutilizzato) e alle future strategie: la scelta, per esempio, di dirottare su Massa tutta la cardiochirurgia, non chiarisce quale sarà il ruolo del Meyer di Firenze, sul quale la Regione ha investito ma che sta ignorando in settori delicati come oncoematologia, traumatologia e urologia. Vanno bene tutti i ticket del mondo – tanto pagano i ricchi! – ma almeno i soldi spendeteli bene.

Il pericolo dell’infarto finanziario

Il pericolo dell’infarto finanziario

Mario Deaglio – La Stampa

Meno 4,4 per cento; meno 1,21 per cento; più 3,42 per cento. Queste cifre mostrano la variazione del Ftse Mib, il principale indice della Borsa di Milano nelle ultime tre sedute della settimana scorsa e ripetono, un poco amplificati, gli andamenti delle Borse di tutto il mondo. Variazioni di queste dimensioni, per di più senza una direzione precisa, escono dai limiti della normalità, soprattutto se si tien conto che, in questi giorni, nell’economia reale non è cambiato pressoché nulla, con l’Europa sull’orlo di una recessione – che potrebbe anche non arrivare o essere molto lieve – e gli Stati Uniti impegnati in una ripresa non del tutto convincente (nella prima metà dell’anno la crescita americana è risultata di poco superiore all’1 per cento, meno dell’aumento della popolazione).

Siamo quindi di fronte a una fibrillazione dei mercati. Potrebbe derivarne un infarto? Perché? Perché proprio ora? Il pericolo di un infarto finanziario deriva dal fatto che la trasparenza e la regolazione dei grandi mercati mondiali non hanno compiuto molti passi avanti dal 2007-08 anche se non c’è oggi una specifica categoria di titoli ma a rischio, come erano allora i famigerati americani mutui «subprime». Una parte importante della risposta va cercata nella politica mondiale. Inforcando le lenti della politica occorre guardare al paese che vanta il maggior mercato finanziario globale nonché (ancora per poco, ossia finché non sarà superato dalla Cina, probabilmente nel 2015) il maggior sistema economico del pianeta.

Naturalmente stiamo parlando degli Stati Uniti dove ogni due anni viene rinnovata gran parte del Congresso. Tra una ventina di giorni, e precisamente il 4 novembre, si terranno negli Stati Uniti le cosiddette «elezioni di metà mandato» ed esiste la possibilità che i democratici del presidente Obama si trovino in minoranza sia al Senato (che attualmente controllano) sia alla Camera dei Rappresentati, dove già oggi sono in netta minoranza.

Se così fosse, Obama diventerebbe ciò che nel gergo politico di quel paese si chiama un’«anatra zoppa», non più in grado di perseguire efficacemente alcuna vera azione politica né interna né internazionale senza il «permesso» dei suoi oppositori repubblicani. La prossimità delle elezioni sta inoltre frenando il possibile intervento militare americano in Siria-Iraq soprattutto perché gli elettori americani sono stanchi di guerre. Ai curdi che difendono accanitamente la città di Kobane arrivano soprattutto le armi mandate dagli alleati europei degli Stati Uniti e l’aiuto di un numero non elevato di incursioni di aerei americani.

Nei prossimi venti giorni, l’incertezza sui risultati elettorali americani potrebbe incidere negativamente sui listini, così come potrebbe avere un impatto negativo una sconfitta dei democratici di Obama proprio per la paralisi governativa che ne deriverebbe. Un possibile vuoto di politica economica potrebbe riguardare anche l’Unione Europea, dove la nuova Commissione muoverà in novembre i suoi primi passi, necessariamente incerti. Non va però trascurata la politica estera.

Il vuoto politico si aggiunge così al vuoto economico, la politica contribuisce, e non poco, a bloccare l’economia. E questo non solo – o non tanto – in Italia dove il processo di approvazione della «manovra» non ha la rapidità auspicata dal presidente del Consiglio, ma comunque procede molto più celermente che in passato; ma anche, e soprattutto, a livello mondiale. Alle Borse non rimane altro che guardare alle relazioni trimestrali delle imprese e alle previsioni di crescita dei diversi settori e quel che vi possono scorgere non è precisamente entusiasmante: a livello mondiale, sono dati molto variegati mentre la Fed parla di crescita complessivamente «moderata» o «modesta». E Janet Yellen, da pochi mesi a capo della Fed, sottolinea la crescente diseguaglianza della ricchezza e dei redditi negli Stati Uniti come motivo di preoccupazione perché costituisce un blocco alla ripresa.

Ai pazienti a rischio d’infarto i medici prescrivono spesso una serie di pillole e suggeriscono di cambiare stile di vita. Alle economie ricche (e ai ricchi mercati finanziari) a rischio d’infarto è necessario proporre qualche pillola di nuova liquidità e un cambiamento di politica economica che introduca qualche modificazione nella distribuzione dei redditi in modo da incoraggiare, quanto meno nel breve periodo, un certo rilancio dei consumi interni. Spesso il malato non segue i buoni consigli e la Signora Merkel non ha, nelle ultime settimane, dato prova di quel pragmatismo, di quel «buon senso» del quale l’Europa e l’intera economia mondiale hanno disperatamente bisogno. C’è da sperare che l’aria di Milano, dove si è svolto un inedito incontro Europa-Asia la convinca (e convinca i suoi ministri economici) che economia e ragioneria sono due discipline diverse e che la politica economica non si fa contando i decimali di – eventuale – sforamento del tre per cento del rapporto deficit/prodotto lordo.

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

Maurizio Belpietro – Libero

Basta la parola, diceva Tino Scotti in un famoso spot di Carosello quando la tv era ancora in bianco e nero. Eh, si, basta la parola. O meglio, basta cambiare la parola e tutto diventa più accettabile. Da losco e brutto che era, con una parola diversa il provvedimento di un governo può diventare infatti ineccepibile e perfino bello. Ecco, si cancelli dunque il termine condono e lo si sostituisca con sanatoria, che derivando da sanare, cioè rendere sano, non fa lo stesso effetto di condono, che già da solo fa intravedere un dono. Anzi, meglio, chiamiamo la all’inglese voluntary disclosure, rivelazione volontaria, manco fosse l’annunciazione. E così, il tanto esecrato condono fiscale, ossia la madre di tutti gli orrori che a detta della sinistra favoriscono l’evasione fiscale, cambia nome e con il governo del cambiamento di verso diventa sanatoria fiscale.

A darne notizia ieri era la gazzetta dei compagni, ossia il giornale che ha tenuto a battesimo l’ascesa del presidente del Consiglio e di tutti i leader progressisti negli ultimi anni. Sulla Repubblica di Carlo De Benedetti, editore che ama a tal punto l’Italia da aver trasferito la sua residenza in Svizzera, si poteva infatti apprendere del prossimo arrivo di una sanatoria da 6 miliardi e mezzo. «Con il rientro dei capitali», titolava il quotidiano diretto da Ezio Mauro, «sconti a chi ha evaso in Italia». Magari ai lettori di Repubblica sarà saltata la mosca al naso a leggere che alla fine anche il governo del rottamatore rottama la lotta a chi ha portato i soldi all’estero, tuttavia per tranquillizzare chi aveva avuto il buon cuore di acquistarne una copia, il giornale di piazza Indipendenza precisava che sì, per i furbi ci sarebbero state sanzioni ridotte e reati cancellati – tranne che per chi ha emesso fatture false e si è macchiato di reati di mafia – ma la legge avrebbe imposto di dichiarare il nome del possessore di patrimoni non denunciati e il pagamento delle imposte.

Eh, già, ma quali imposte? n provvedimento vidimato alla Camera e ora in discussione al Senato dovrebbe imporre un’aliquota media del 37 per cento nel caso i soldi siano del tutto sconosciuti al fisco, mentre quelli su cui non si sono pagate le cedole potrebbe essere tassato con un’aliquota media del 6,75 per cinque anni. Insomma, un bei risparmio per gente che fino a ieri rischiava di vedersi requisito il patrimonio. Oggi invece con la nuova normativa in corso di approvazione, il contribuente infedele potrà tenersi il malloppo versando un po’ di soldi all’erario e senza alcun rischio penale. Considerato poi che le sanzioni applicate per il rientro di capitali all’estero che non erano stati dichiarati sono ridotte della metà e alla fine si pagherà l’1,5 per cento se le somme erano detenute in paesi appartenenti alla white list (e cioè non considerati paradisi fiscali) e del 3 per cento se invece sono depositati in banche che risiedono nei luoghi della black list (tipo quelle svizzere, dove sta l’80 per cento dei capitali all’estero) si capisce che la cosiddetta “voluntary disclosure”, ossia collaborazione volontaria dell’evasore, è assai conveniente. condono – pardon, la sanatoria consente di tenersi i soldi, versando le tasse non pagate a rate e con un’aliquota media comunque assai più conveniente di quella che si sarebbe stati costretti a pagare se si fosse dichiarato tutto al Fisco. Anche perché l’aliquota media per certi redditi (sopra i 300 mila) è pari al 45 per cento, mentre per certe aziende va oltre il 50. Insomma, se – pur con i ritocchini linguistici e i giochi di parole del politically correct – la sinistra è arrivata a varare un condono fiscale, significa che il governo sta proprio raschiando il barile nella speranza di trovare quei miliardi che gli servono per varare la legge di stabilità.

Del resto la sanatoria con l’erario non è l’unica notizia che fa intendere come il governo sia con l’acqua alla gola. È di ieri l’annuncio che dopo aver tassato i fondi pensione e introdotto la tassazione ordinaria (cioè meno favorevole per il contribuente) per il Trattamento di fine rapporto, l’esecutivo si appresta a far slittare di dieci giorni il pagamento delle pensioni, spostando la scadenza di erogazione dei vitalizi dalla fine del mese al dieci del mese successivo. La novità – che verrà introdotta a partire da gennaio – consentirà all’Inps – e dunque a Palazzo Chigi che ne ripiana le perdite – di guadagnare una decina di giorni sull’erogazione delle somme a chi si è ritirato dal lavoro, un ritardo che permetterà allo Stato di risparmiare un po’ di quattrini. In genere questi trucchi li fanno le banche, che sulla valuta di pochi giorni costruiscono parte dei loro guadagni. Adesso il gioco lo fa anche il Tesoro, il quale si abbassa al livello dei caimani dello sportello. A quando dunque l’introduzione di altre gabelle tipo quelle che gli istituti di credito sono soliti infilare nei loro estratti conto? Di questo passo per incassare la pensione presto si dovrà pagare.

Trappola fiscale a ripetizione

Trappola fiscale a ripetizione

Davide Giacalone – Libero

Il Tfr era il Trattamento di fine rapporto, ora diventa una Trappola fiscale a ripetizione. Avevamo avvertito che metterlo in busta paga avrebbe comportato un aggravio fiscale, sulle spalle del lavoratore. Ci era stato risposto che giammai sarebbe accaduto e che ci sarebbe stata una contabilità separata, mantenendo le aliquote agevolate. Non solo la nostra previsione s’è dimostrata esatta, ma si è andati assai oltre la più turpe fantasia: il Tfr è maggiormente tassato sia che se ne accetti una parte mensilmente, sia che lo si lasci accantonato. A questo punto, se non cambiano tale demoniaca architettura, il provvedimento si caratterizza per: a. sottrazione di soldi al lavoratore; b. vantaggio solo per il fisco; c. Incostituzionalità.

Andiamo con ordine. Il nostro ragionamento era: il Tfr è un risparmio forzoso che genera un reddito differito, tassato alla media delle aliquote pagate dal lavoratore negli ultimi cinque anni; dal momento che non viene più forzato e differito, resta un reddito; essendo un reddito è tassato all’aliquota marginale. Non accadrà, dissero. E’ accaduto. Ma non vorrei sfuggisse il satanismo che ciò porta con sé: non solo si pagano più tasse, ma se quei soldi in più fanno scattare uno scaglione fiscale superiore si pagano più tasse di quel che si incassa. L’aliquota marginale, inoltre, è superiore anche a quella attualmente prevista per chi decida, come stabilisce la legge, di attingere anticipatamente al Tfr, quindi la raspa fiscale agisce anche lì. Il tutto senza contare che aumenta l’assurdità degli 80 euro di restituzione fiscale a chi ha un reddito lordo inferiore a 26mila euro. Cosa succede se con il Tfr lo supera? Nulla, dicono i governativi. Li perde, dico io. E mi dispiacerebbe avere ragione per la seconda volta. Ma temo sia così.

Vabbe’, ma non è mica obbligato a prenderli. Il lavoratore fa i suoi conti e decide di non accettarli, lasciandoli all’accantonamento. Sembra non fare una piega, ma solo per chi non sa far di conto. Perché, contemporaneamente, aumenta la tassazione sul risparmio, che per ragioni di mera propaganda è ribattezzato “rendita finanziaria”. Che fa tanto ciccione capitalista profittatore. Invece colpisce i lavoratori, passando dall’11,5% al 17 per chi lascia i soldi in azienda, dall’11,5 al 20 per chi li ha messi in un fondo pensione, e dal 20 al 26 per le casse autonome dei liberi professionisti. Quindi c’è un incentivo a prenderli, dato dal fatto che se li accantoni paghi di più. Ma se li prendi paghi, ugualmente di più. Dal che discendono due follie: a. è considerata accumulazione di ricchezza l’accantonamento obbligatorio; b. lo Stato ha invogliato i lavoratori a scegliere la previdenza privata, salvo punire chi gli ha dato retta.

Da qui si giunge al capolavoro, l’incostituzionalità. Lo ha rilevato anche Matteo Richetti, parlamentare del Partito democratico e matteiano di sicura fede, sia per ragioni personali che di corrente: se ai lavoratori pubblici si nega la possibilità di scegliere, prevista per quelli privati, si introduce una distinzione che non è compatibile con la Costituzione. Aggiungo che sono esclusi anche altri lavoratori privati, come quelli agricoli o i collaboratori domestici. Il che non solo non cancella le diversità, ma le moltiplica. Richetti, però, individua correttamente un aspetto d’incostituzionalità, ma gli sfugge l’altro: “La Repubblica italiana incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”, articolo 47. Alla faccia, qui si munge anche il risparmio che mi avete obbligato a fare.

Sul Tfr un’operazione seria è possibile: abolirlo, restituendo l’intero capitale accumulato e tassandolo come previsto prima di questa pazzotica innovazione. Il problema si crea nelle aziende sotto i 50 dipendenti, che possono essere accompagnate con crediti a pari scadenza, garantiti dalla Cassa depositi e prestiti, il cui tasso sia pari alla prevista remunerazione del Tfr. Fuori da questo c’è solo il sabba fiscale, con la liquidità residua che viene assorbita dagli aumenti delle tariffe amministrate. Con tanti saluti alla ripresa dei consumi.

Noi scudi umani

Noi scudi umani

Giovanni Morandi – Il Resto del Carlino

Per capire se ha ragione Renzi a tagliare 4 miliardi alle Regioni o le Regioni che non ne vogliono sapere potremmo fare un referendum. E già che ci siamo potremmo chiedere se abbia ancora senso tenersi questi baracconi inutili per i cittadini, ma utilissimi per coloro che vi mettono piede e scoprono di poter vivere a nostre spese. Amara conclusione di un’età in cui c’era chi aveva il cuore verde di passione, almeno fino a quando non si sono accorti che era una passione che viaggiava cash per le spesucce più varie, per i figli, le amanti, gli amici, le case, le auto da corsa, le lauree in Albania e cose del genere.

Qualcosa mi dice che se si votasse le cose si metterebbero male per quelli che in modo altisonante amano farsi chiamare governatori. Governatore è colui che governa, ma che cosa governano questi che per loro ammissione sono solo passacarte, intermediari tra Stato e strutture sanitarie verso le quali va il 75 per cento del loro bilancio? Ci costano 180 miliardi e se li abolissimo sicuramente risparmieremmo. Potrà essere sgradevole dire queste cose ma è inevitabile dopo aver visto la loro scomposta reazione appena hanno saputo che le loro casse sarebbero state tagliate, sebbene nemmeno di tanto. Hanno fatto le vittime. Come se gli italiani non ricordassero gli scandali con le centinaia di politici che pensavano a far la bella vita non alla salute nostra. Per non parlare di quella truffa che sono le Regioni a statuto speciale, dove lo spreco è istituzionalizzato. Perché dovrebbero avere più denaro delle altre? 150 milioni solo per il consiglio regionale siciliano.

I governatori pensavano di prenderci come scudi umani, o ci date quei 4 miliardi o togliamo le spese alla sanità. Un’uscita che si chiama solo in un modo: ricatto. Ci provino, se ne accorgeranno. La verità è che la levata di scudi ha dimostrato che si sono solo preoccupati di difendere il proprio status, per continuare a disporre di fiumi di denaro. Ha fatto male Renzi a pensare che indicando il saldo del taglio le Regioni avrebbero deciso da sole come disporre della propria quota di denaro. L’unica cosa invece che hanno detto è stata: e noi aumentiamo le tasse. Ci provino e così vedranno come si sloggia dai grattacieli che si sono costruiti. Altra cosa sono i Sindaci, è vero che ci sono migliaia di Comuni microscopici, ma i sindaci e i Comuni rappresentano identità, storie specifiche, appartenenze, culture, sono le radici della nostra società e vanno conservati, tutt’altra cosa dalle Regioni che, in quanto enti non in quanto territori, non hanno mai rappresentato nessuno se non quel sottobosco politico che trovava in quei grattacieli un motivo di consolazione ben remunerato.

Quarant’anni di storia delle Regioni non sono bastati a dare loro un senso alla loro esistenza. Sono sempre state, sono e saranno solo enti per burocrati gonfi di denaro pubblico. Che ci siano o non ci siano, non fa nessuna diflerenza. Solo la spesa cambia. Se non ci fossero i finanziamenti andrebbero direttamente alle strutture sanitarie, anziché passare prima dalle Regioni che poi provvedono a ridistribuirli. È un passaggio in più e un risparmio in meno.