Edicola – Opinioni

L’arte sbagliata del fiscal compact

L’arte sbagliata del fiscal compact

Leonardo Becchetti – Il Fatto Quotidiano

Per qualche sfortunata congiunzione astrale ci è toccato di nascere nel regno del Fiscal Compact, nel cono d’ombra ideologico del rigorismo e del sadomonetarismo. In altre aree del pianeta la risposta alla crisi finanziaria globale è stata molto più appropriata. Se non ci mobiliteremo firmando il referendum per l’abolizione del pareggio di bilancio (referendumstopausterita.it) non usciremo mai dall’incantesimo di una regola dissennata che si propone di ridurre di un ventesimo il rapporto debito/Pil che eccede il 60 per cento e sulla quale ci siamo autoimposti l’ulteriore cilicio del pareggio di bilancio in costituzione. Violando un principio fondamentale per il quale la costituzione deve occuparsi dei fini e mai dei mezzi per raggiungerli. Come se, invece di mettere nella propria “carta costituzionale” l’aspirazione alla vittoria, una squadra di calcio scrivesse che bisogna sempre giocare con il modulo del 4-4-2.

In altre parti del mondo è diverso e tutti capiscono la regola elementare per la quale la sostenibilità del rapporto debito/Pil si realizza stimolando la ripresa del denominatore con poli- tiche fiscali e monetarie espansive e non cercando di comprimere il numeratore con misure che deprimono più che proporzionalmente quello che sta sotto (il Pil) peggiorando il rapporto. Negli Stati Uniti la risposta è stata una banca centrale che ha messo al centro la riduzione della disoccupazione e in 76 mesi l’ha riportata ai livelli pre-crisi mentre nella Unione europea è ancora oggi del 4 per cento superiore. Fiscal compact? Pareggio di bilancio? Tutto il contrario. Politiche fiscali rooseveltiane che hanno rilanciato gli investimenti pubblici e privati e la domanda interna assieme all’espansione monetaria. Per non parlare della risposta giapponese e del Regno Unito, altri due paesi che hanno fatto scelte simili e se ne infischiano della regola del 3 per cento, figuriamoci del pareggio di bilancio. Il regno del Fiscal Compact e un po’ come gli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 se Roosevelt e le sue politiche keynesiane non fossero mai arrivate.

Posto che la prima preoccupazione dei rigoristi dominati dalla lobby dei creditori è quella della sostenibilità del debito, il rigore di bilancio è almeno riuscito a migliorare la situazione dei debiti pubblici? Niente affatto, perché le ricette rigoriste hanno prostrato i Paesi che le hanno praticate. La Grecia in primis in deflazione e con un rapporto debito/Pil oltre il 177 per cento anche con un tasso d`interesse sul debito calmierato al 3 per cento non ce la farà mai a ridurre di un ventesimo il proprio debito oltre il 60 per cento (dovrebbe crescere oltre il 5-6 per cento all’anno). E ha pagato il rigore con il crollo di un quarto del Pil e due ristrutturazioni del debito. Il Portogallo si trova in analoghe condizioni di difficoltà. Ha un avanzo primario dello 0,4 per cento, un tasso d’inflazione leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2 per cento e un rapporto debito/Pil al 129 per cento. In queste condizioni il rapporto debito/Pil non si riduce ma cresce, per ridursi come previsto dal Fiscal Compact la crescita dovrebbe viaggiare al 5 per cento. E l’Italia? A bocce ferme (crescita e inflazione zero o debolmente negative, costo del debito sopra il 3 per cento e avanzo primario attorno al 2) il nostro rapporto debito/Pil cresce del 2-3 per cento all’anno. Uno scenario ben di- verso da quello delle nostre previsioni alla “Lucio Dalla” nelle quali l’anno che verrà è sempre quello dell’inversione di tendenza.

La battaglia referendaria è importante perché può aiutare i passeggeri della nave Italia a concentrarsi sul problema dell’iceberg e non sulla musica dell’orchestrina. Possiamo parlare di mercato del lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, riduzione delle tasse su cittadini e imprese, investimenti sulla banda larga, riforma della scuola ma le risorse per tutto questo non ci sono se restiamo sotto l’incantesimo del pareggio di bilancio. Nell’eurozona dove la Germania da anni sfora i limiti del surplus senza alcun intervento correttivo, la Francia si “prende” la flessibilità sul deficit, la Bce viene meno al suo impegno statutario di combattere la deflazione che peggiora i debiti pubblici portando la crescita dei prezzi vicina al livello del 2 per cento, è arrivato il momento di non essere gli unici a rispettare regole che nessuno rispetta per sedersi al tavolo e ridiscutere tutto. O l’eurozona diventa un sistema di obblighi simmetrici, di politiche fiscali e monetarie europee coraggiose in grado di sfruttare la leva e il peso specifico sovranazionale, o la rotta di collisione sulla quale ci troviamo, che ha prodotto il “miracolo” di rinfocolare rancori e nazionalismi, ci porterà presto alla rottura con conseguenze difficilmente calcolabili.

Il referendum è pertanto il primo passo necessario per superare la rimozione e discutere del vero problema che abbiamo di fronte, democraticamente e alla luce del sole. Perché la storia recente e le “cronache del Regno del Fiscal Compact” ci hanno ampiamente dimostrato che non è il caso di fidarsi e di affidarsi in toto all’intellighentia dei suoi funzionari e delle sue élite.

Azzardo, la “logica” dei monopoli

Azzardo, la “logica” dei monopoli

Leonardo Becchetti – Avvenire

Qualcuno ha considerato per un bel po’ noi italiani la “tribù con l’anello al naso”, l’unica tra tutti i Paesi del mondo destinata a beccarsi senza reagire, cioè senza alzare argini, slot machine in (quasi) tutti i bar del proprio territorio nazionale. Sappiamo poi come è andata. Diverse realtà sociali (tra cui il movimento SlotMob sostenuto dalla campagna d’informazione di “Avvenire”) hanno reagito contro l’imbarbarimento e il crescere del distruttivo fenomeno della ludopatia, ovvero del gioco d’azzardo compulsivo. E hanno spinto la classe politica del Paese a cercare un equilibrio diverso che superi errori e contraddizioni evidenti. Come quella di un vizio – il fumo – per il quale facciamo fuoco e fiamme mettendo messaggi di morte sui pacchetti di sigarette per spaventare gli acquirenti, mentre un altro vizio – il gioco d’azzardo – invece lo pubblicizziamo ingannevolmente a ogni piè sospinto, e persino come panacea per ogni problema economico-esistenziale, attraverso tutti gli schermi (tv pubblica in primis) e con pubblicità su magliette di squadre di calcio e pompe di benzina. La proposta di legge che è stata finalmente articolata si fonda su tre punti essenziali: divieto di pubblicità, distanza minima da luoghi sensibili (scuole, oratori…) degli apparecchi e introduzione di sistemi per rendere obbligatoria l’identificazione dei giocatori (tessera sanitaria) anche per evitare il rischio riciclaggio.

Un’iniziativa di buon senso, che dopo lo stralcio di misure analoghe da provvedimenti precedenti anche il governo – l’allora sottosegretario Legnini lo ha dichiarato proprio a questo giornale – si è impegnato a realizzare entro la fine del 2014. Limiti giusti, ma davanti ai quali gli stregoni della “tribù con l’anello al naso” agitano oggi lo spauracchio del «danno erariale» e del «danno irreparabile al Pil» e alle entrate fiscali paventando 9-13 miliardi di perdita per le casse dello Stato. «Da far tremare i polsi», fa eco qualche solerte cronista che ha ripreso altrettanto preoccupato la nota dei Monopoli di Stato che formulava l’inquietante previsione. Quando i tacchini fanno l’analisi costi-benefici del “Giorno del ringraziamento”, o gli agnelli del pranzo pasquale, è legittimo il sospetto che le preoccupazioni siano lievemente esagerate. E la nota in questione non fa eccezione. Come è possibile preventivare un «danno» così elevato quando l’azzardo tramite slot machine (AVT e WLP) ha portato nel 2013 – come ci ricorda la stessa Agenzia delle Dogane e dei Monopoli – a entrate fiscali per circa 4,3 miliardi?

Approfondendo la nota, il mistero si fa più fitto quando leggiamo le prime cifre. L’agenzia è molto preoccupata per la «riduzione» di entrate da azzardo che quantifica per l’anno in corso nella (molto minore) cifra di 200 milioni che addebita a tre principali fattori: la recessione, l’aumento del prelievo sui giochi (mirabile esempio di “curva di Laffer”, cioè di minore gettito per una presunta spinta a evadere) e l’entrata in vigore delle prime disposizioni regionali sulla distanza minima delle slot dai luoghi sensibili (Trentino Alto Adige, Veneto, Liguria, Lombardia, Puglia). Dovendo dividere l’effetto in tre parti (non sappiamo in mancanza di analisi ad hoc se eguali o no), fate voi il conto dei terribili effetti sulle casse pubbliche di quanto deciso sinora in materia di contrasto alla famigerata ludopatia. Spulciando la nota arriviamo finalmente al dunque e scopriamo cosa partorisce la terribile previsione e come può il topolino (la perdita di 200 milioni diviso tre) partorire la montagna (la perdita attesa di 9-13 miliardi). La fosca previsione dell’Agenzia è che gli operatori del settore impiegheranno tre anni a sostituire le macchine attuali con quelle dove è necessario dare i dettagli della propria tessera sanitaria per giocare. E che in questi tre anni tutto si fermi. 4 per 3 fa 12 e il gioco è fatto.

Che nell’economia del terzo millennio esista un settore produttivo (!) che impiega tre anni per introdurre una piccola modifica negli apparecchi è veramente poco credibile (senza contare l’effetto keynesiano della rottamazione delle vecchie macchine e della sostituzione con le nuove). Per disinnescare la fosca profezia basterebbe introdurre una norma transitoria che consente nell’intervallo che precede l’introduzione delle nuove macchine (6 mesi? un anno?) di continuare a utilizzare le vecchie e il gioco (d’azzardo) è fatto. E pure i danni che produce (esistenziali, sociali ed economici) sono purtroppo garantiti. Anche se questi ultimi l’Agenzia ministeriale si guarda bene dal sottolinearli e, anzi, tende – più ancora che a sminuirli – a ignorarli completamente.

Si perfeziona, così, il giochino di sottometterci a un Pil che ha uno sguardo strabico sulla felicità dei cittadini ed è sempre più taroccato da “beni” che a essa non contribuiscono. Un giochino molto pericoloso… Se il metro fosse davvero questo, dovremmo fare molta attenzione. Battersi per ridurre la dipendenza da gioco d’azzardo e droghe e per impedire contrabbando e la tratta delle donne destinate alla prostituzione non sarebbe da considerare un impegno teso a migliorare la qualità delle relazioni interpersonali (e anche tra gli Stati) nonché a produrre una riduzione delle spese di difesa e sicurezza, ma una minaccia. Se tutte queste “cattive notizie” – meno azzardo, meno droghe, meno traffici di merci illegali e di persone – accadessero insieme, secondo la “logica” dei Monopoli, saremmo veramente rovinati. Chi risarcirebbe il danno erariale?

La vera rivoluzione delle riforme

La vera rivoluzione delle riforme

Mario Deaglio – La Stampa

«Siete bravi e simpatici ma dovete fare le riforme». «Mi raccomando, fate le riforme». «Va tutto bene, ma avanti con le riforme». Banchieri centrali, esponenti economici europei, responsabili di centri di ricerca internazionali da tre anni ripe- tono come un «mantra» tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere «strutturali» e devono riguardare non solo l’Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste «riforme» che l’Italia e il resto d’Europa dovrebbero fare?

L’espressione «fare le riforme» è una foglia di fico per nascondere qualcosa di apparentemente scandaloso e politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi e un ridisegno dell’economia attraverso una rapida variazione dell’importanza dei diversi settori produttivi e dell’occupazione a essi collegata. Si tratta, in sostanza, di incidere profondamente sia sulla domanda sia sull’offerta dei beni che si producono e si vendono.

Negli ultimi vent’anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata a sfavore del lavoro e a vantaggio di chi riceve redditi non di lavoro. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava domenica il tedesco «Welt am Sonntag». Negli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale gli utili delle società non sono mai stati cosi alti. Quasi mai così in alto, negli ultimi decenni è stato l’indice di Gini, una sorta di «termometro della diseguaglianza dei redditi» che ha visto l’Italia diventare uno dei più Paesi avanzati con maggior diseguaglianza dei redditi, di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come mostrano le norme per l’ingresso alle varie «libere» professioni. «Fare le riforme» significa quindi ridistribuire questi redditi. Le vie sono molteplici e tocca ai politici – e agli italiani che li eleggono – dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono accettare.

«Fare le riforme» implica, però non tanto – o non solo – la riduzione del carico fiscale, come spesso chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei «costi esterni»: occorre ripensare radicalmente la burocrazia, organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre cosi i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, «tagliare» lasciando invariata la struttura, come hanno fatto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. È necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti. A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione delle occasioni di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l’invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caaf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l’accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare.

Dietro il generico «fare le riforme» si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi – Portogallo, Grecia, Irlanda – non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell’attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta «troika», composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles, una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d’anni d’inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L’Italia non è nella loro condizione, ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell’economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l’altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

Naturalmente il Paese potrebbe anche decidere di non far nulla. È già successo in un passato lontano: nel Cinquecento, il reddito per abitante degli italiani – stimato circa 1000 dollari dall’economista britannico Angus Maddison – era il più alto d’Europa. Tre secoli più tardi, era pressoché invariato ma largamente superato da Gran Bretagna, Francia e Germania: l’Italia era diventata una sorta di museo a cielo aperto che attirava turisti mentre i giovani bravi – architetti, artisti, scienziati – andavano a cercar lavoro all’estero. C’è qualcosa che suona famigliare in questo riferimento al passato? È perfettamente legittimo aspirare a ridiventare un museo. Sarebbe invece improprio, mentre si ridiventa un museo, credersi ancora un Paese all’avanguardia e rivendicare primati che non esistono più.

Le tutele non sono questione ideologica

Le tutele non sono questione ideologica

Vittorio Daniele – Il Garantista

I dibattiti sulle riforme raramente sfuggono alla retorica. Albert Hirschman, grande economista, scriveva che le retoriche dei conservatori si riconducono a tre tesi fondamentali. La prima tesi, della «futilità», argomenta che le riforme sono, semplicemente, inutili. La seconda, della «perversità», sostiene che i cambiamenti tendono a produrre effetti opposti a quelli desiderati. La terza tesi, della «messa a repentaglio», argomenta che le riforme comportano costi elevati e riducono le conquiste ottenute in passato. La retorica semplicistica, perentoria e intransigente non è, però, campo esclusivo dei «reazionari». Sotto questo profilo – scriveva Hirschman – le controparti «progressiste» non sono da meno. Nella versione progressista, le tre tesi reazionarie si ribaltano in tre opposte retoriche: del «progresso», della «sinergia» e del «pericolo incombente».

Nella retorica progressista, la ragione delle riforme è insita nel corso degli eventi: «abbiamo la storia dalla nostra parte!», sostiene il progressista. Le nuove riforme, aggiunge, migliorano quelle precedenti. In ogni caso, le riforme sono indispensabili e vanno realizzate in fretta; se non le si attua, si avranno gravi conseguenze: «il pericolo incombe». Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro non sfugge alle retoriche dell’intransigenza. Non è agevole, però, separare il campo dei conservatori da quello dei progressisti. Una ricorrente retorica sostiene che il dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è meramente ideologico. Secondo questa tesi, che echeggia quella del «progresso»›, l’art. 18 è un inutile orpello, retaggio di un mondo ormai passato.

L’economia italiana, si dice, è fatta di piccole o piccolissime imprese, per cui le garanzie dell’art. 18 interessano una quota assolutamente marginale di lavoratori. Esso ha, dunque, scarsa rilevanza pratica, ma la sua cancellazione un alto valore simbolico. Stanno davvero così le cose? Davvero le tutele dell’art. 18 riguardano un esiguo gruppo di ipergarantiti? I dati dell’ultimo censimento mostrano una realtà diversa. Effettivamente, la stragrande maggioranza (il 93 per cento) delle imprese italiane con dipendenti ha meno di 15 addetti. Ma le proporzioni si modificano, e di molto, quando si guarda all’occupazione. In Italia, il numero di dipendenti delle imprese e di 11.304.000. L’11 per cento circa ha un contratto a tempo determinato mentre il restante 89 per cento a tempo indeterminato. Le imprese con oltre 15 addetti occupano il 57,6 dei dipendenti, cioè circa 6.500.000 persone. Nonostante la definizione statistica di impresa sia ampia (include, per esempio, anche le aziende speciali di comuni, province o regioni), il numero degli occupati in imprese con oltre 15 dipendenti è tutt’altro che esiguo.

Un’altra argomentazione, che richiama la tesi del «pericolo incombente»›, sostiene che un mercato del lavoro più flessibile è necessario per uscire dalla recessione, per sostenere la crescita e attrarre investimenti. Affermazioni scarsamente suffragate dai fatti. Decine di ricerche mostrano come, per i Paesi sviluppati, il grado di rigidità del mercato del lavoro non sia correlato con la crescita di lungo periodo, né tantomeno con la capacità di attrarre investimenti dall’estero. È largamente riconosciuto, invece, che le riforme dal lato dell’offerta – quelle «strutturali», come con pappagallesco ritornello si ripete – non hanno effetti espansivi di breve periodo sulla produzione. Si argomenta che l’aumento della disoccupazione, il calo della produttività o la perdita di competitività dell’Italia, richiedano riforme urgenti. Ma occupazione, produttività e costo del lavoro per unità di prodotto dipendono anche dalla produzione che, a sua volta, dipende dalla domanda. Nel 2007, prima della Grande recessione, il tasso di disoccupazione in Italia era del 6%. Dopo il crollo della produzione, è passato all’attuale 12%. Per tutta risposta, si invocano riforme strutturali.

Quando, nel 2003 si riformò il mercato del lavoro si disse che le nuove norme avrebbero introdotto quella flessibilità che mancava. Si sostenne che il job-sharing. i co.co.pro o il lavoro a chiamata, e le altre formule della parcellizzazione del lavoro, avrebbero rivitalizzato la sclerotizzata economia italiana. Agli oppositori di allora si rispose con argomenti non dissimili dalle attuali retoriche progressiste. Molti di quelli che, in passato, predicarono l’urgenza delle riforme, constatano oggi che quelle stesse norme comportano enormi costi sociali, non favoriscono l’occupazione né, tantomeno, la crescita. Come tutte le riforme, anche quella del mercato del lavoro può, naturalmente, essere utile, magari per ridurre l’incertezza ansiogena della precarietà occupazionale. Un’opposizione di principio non ha molto senso. Ma intransigenti retoriche, conservatrici o progressiste che siano, creano solo divisioni e, di certo, non aiutano a capire.

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Con una prospettiva di crescita per il 2015 che al momento non va oltre un modesto 0,5%, l’unica strada è provare a “forzare” sul “denominatore” e scommettere su un risultato che possa quanto meno avvicinarsi all’1 per cento. È lo schema implicito sul quale pare basarsi la legge di stabilità che il governo si appresta a definire, dopo aver approvato il nuovo quadro macroeconomico con la Nota di aggiornamento al «Def». Ed è al tempo stesso lo scarto che potrà separare il quadro “tendenziale” (a bocce ferme) da quello “programmatico” (con le azioni di politica economica incorporate). E quindi, da un lato la flessibilità che andrà concessa – vi ha fatto cenno ieri alla Camera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – per effetto della prolungata fase di contrazione dell’economia. Più tempo a disposizione, in poche parole, per rientrare nella «regola del debito». Dall’altro, quella che potremmo definire la «scommessa del Pil».

Certo, occorre superare le diffidenze che permangono, soprattutto a Berlino e nelle capitali dei paesi più rigoristi, sull’effettiva capacità del nostro paese di portare a termine le riforme già approvate e quelle in itinere, ma in presenza di una legge di stabilità con un profilo più ambizioso rispetto a quello che – per condizioni oggettive – va emergendo, sarebbe più arduo da parte della Commissione europea continuare a opporre il rigido ed esclusivo rispetto delle regole. Anche il tabù del 3%, per quel che riguarda il rapporto deficit/Pil, potrebbe essere in teoria momentaneamente scalfito, se servisse a finanziare una robusta operazione di riduzione fiscale in buona parte concentrata sul fronte del costo del lavoro. Matteo Renzi ha parlato ieri di «danno reputazionale», che sarebbe per noi più grave del beneficio, in caso di sforamento del tetto del 3 per cento. Ragionamento certamente fondato.

In realtà la vera incognita, che si può immaginare freni soprattutto Padoan, riguarda non tanto le conseguenze immediate della procedura d’infrazione che ne seguirebbe, quanto la reazione dei mercati. Se lo sforamento del 3% venisse percepito come l’ennesimo tentativo del nostro paese di risolvere «via deficit» quel che non riesce a ottenere «via riforme», il conto in termini di aumento del costo del debito potrebbe essere salato. Preoccupazione fondata, ma c’è da chiedersi se abbia un senso logico continuare a rispettare il target del 3%, quando poi non si riesce comunque a ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno, come previsto dalle regole europee, tanto che si è costretti a far slittare in avanti il pareggio di bilancio (2018?). Deviazioni e scostamenti dal percorso programmato che, se prevalesse un’improvvida e ortodossa interpretazione dei Trattati, dovrebbero comportare anch’essi l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. Senza considerare che formalmente continua a pendere sull’Italia la spada di Damocle degli «squilibri macroeconomici eccessivi», certificati lo scorso marzo da Bruxelles (alto debito, bassa produttività). Ma in qualche modo occorre provare a uscire dalla gabbia della disciplina di bilancio europea, così come costruita – lo ha ricordato Padoan – quando il quadro macroeconomico era diverso. Ora la miscela esplosiva di stagnazione e di quella che il ministro dell’Economia con un neologismo definisce «bassa inflazione» richiede risposte non “ragionieristiche” ma “ragionevoli”.

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica «il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio». E poco più avanti fissa «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori? Oppure, come è più probabile, sull’obbligo di reintegro si è incancrenita da anni in Italia un’astratta discussione ideologica che ha fatto perdere di vista quello che è diritto e quello che è tutela giuridica, quello che è un valore assoluto e quello che è norma storica legata a determinati assetti della produzione e del rapporto tra Stato, impresa e lavoro?

Verrebbe da dire che l’aspro confronto nella direzione del Pd di ieri è stato ancora una volta ostaggio di quella ideologia del passato. Ma in realtà si è trattato per gran parte di un dibattito pretestuoso che, utilizzando una questione seria come la riforma del mercato del lavoro, ha avuto per oggetto la sfida sulla leadership di Matteo Renzi nel suo partito. In questo senso il premier può forse essere soddisfatto del voto ottenuto, con i 130 favorevoli e i soli 20 contrari. Ma quello che conta qui è altro. È dare all’Italia una buona e vera riforma del mercato del lavoro, per dare una spinta agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro.

Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace.

Non serve una riforma che nasce per cambiare tutto ma che poi cambia poco. Tanto più che anche sul lato delle regole in entrata, finora, non c’è stata chiarezza. Se si arriverà, alla fine, a un impercettibile miglioramento sui contratti a tempo indeterminato al costo di un irrigidimento significativo delle altre forme contrattuali più flessibili, allora il risultato per la creazione di posti di lavoro sarà negativo. È esattamente l’errore che fu fatto con la legge Fornero. Ripeterlo sarebbe un assurdo. Tanto più che il governo Renzi, al suo esordio, ha dimostrato piena consapevolezza del problema, eliminando gli irrigidimenti introdotti dalla Fornero sui contratti a tempo determinato. La precarietà non si riduce introducendo nuovi vincoli per tutti – così si alimenta solo il lavoro nero – ma rendendo davvero più conveniente il contratto a tempo indeterminato e, magari, prevedendo i giusti controlli contro gli abusi – che ci sono – sulle forme contrattuali più flessibili.

Sono cose che il presidente del Consiglio conosce bene. Le ha affermate lui stesso in queste settimane, con tutta l’oratoria e la capacità di convincimento di cui è capace. Finora ha dimostrato un grande coraggio nell’affermare e nel portare avanti un cambiamento netto nel modo con cui a sinistra si guarda al rapporto tra capitale e lavoro. Ancora ieri non ha avuto timore nello sbattere in faccia ai suoi oppositori la realtà che gli imprenditori sono lavoratori e non “padroni”. Perciò la sua riforma non può adesso smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Un’ombra sul futuro del governo

Un’ombra sul futuro del governo

Federico Geremicca – La Stampa

Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente. «Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.

Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo?

Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato. Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore…

Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.

Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane…

Bandiere senza idee

Bandiere senza idee

Giuseppe Turani – La Nazione

Siamo alle solite. Il sindacato si avvicina a una scadenza importante (la riforma del lavoro) e subito accadono due cose. La prima è che si dividono; la seconda è che, con un riflesso quasi pavloviano, l’ala più combattiva ( la Cgil) annuncia che sarà sciopero contro i cambiamenti. Due fatti che non testimoniamo una maturità del nostro sindacalismo. Persino in una situazione difficile come questa che stiamo vivendo, le tre famiglie sindacali italiane non riescono a trovare un terreno comune di intervento sensato. Viene il sospetto che si tratti quasi di una lotta fra clan. Nessuno vuole andare all’unificazione perché perderebbe il controllo della propria area: oggi ci sono tre segretari generali e tre gruppi dirigenti. Se ci fosse l’unità, avremmo un solo segretario e un solo gruppo dirigente. Meglio continuare così: ognuno ha il proprio pezzettino di gloria e privilegi. E c’è il sospetto che abbiano come prima preoccupazione quella di autoperpetuarsi: esattamente come la politica.

Poi c’è la questione dello sciopero (forse della sola Cgil). Che senso abbia uno sciopero in un momento in cui i senza lavoro sono quasi sei milioni (contando anche i cassaintegrati) non si sa. Probabilmente uno solo: dare una prova di forza, portando in piazza alcune migliaia di persone. A che cosa serve tutto ciò? A niente. Questo è un momento in cui servirebbe uno sforzo comune, servirebbero delle idee, non gente che urla in piazza e sventola bandiere rosse. Ma le idee non ci sono. Il mondo del lavoro non riesce a trovare nemmeno al suo interno una piattaforma condivisa per fare fronte alle difficoltà del momento. Ma la Cgil si vuole presentare al paese come rappresentante del mondo del lavoro, cosa smentita dal fatto che altri sindacati se ne staranno a casa. Insomma, il momento è grave, ma il sindacato non riesce ad avere una presenza significativa. Riesce solo (una parte) a andare in piazza a urlare slogan invecchiati. A questo si deve aggiungere che il sindacato rappresenta nella società italiana un’area grigia: non ci sono bilanci, ci sono molti precari, non si applica il famoso articolo 18, e persino il numero degli iscritti varia a seconda delle occasioni. La politica non attraversa un buon momento, ma il sindacato dà quasi l’impressione di essere alla fine della sua storia e del suo ruolo.