Edicola – Opinioni

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Debolezza dell’euro o forza del dollaro? A giudicare non solo dall’1,27 del cambio euro/$ ma dal 109 del dollaro/yen o dallo sgretolamento del prezzo dell’oro, sono i pettorali del biglietto verde a gonfiarsi sotto la spinta di un’economia che cresce. Dall’inizio della crisi a poco tempo fa la divaricazione dei cambi nel mondo aveva rispettato quel che suggeriscono teoria e storia: i cambi dei Paesi emergenti – in primis la Cina – erano andati apprezzandosi, quelli dei Paesi emersi avevano segnato il passo se non indietreggiato. Parliamo qui dei cambi come indicatori della competitività, cioè dei cambi effettivi reali, che tengono conto di tutti i rapporti di cambio con i Paesi terzi e dei differenziali di inflazione.

Da qualche tempo la divaricazione si è andata manifestando anche all’interno dei Paesi emersi, e segnatamente fra le tre maggiori aree economiche: Usa, Europa e Giappone. Fra queste quella che cresce di più è l’America, e il dollaro sta guadagnando terreno rispetto allo yen e alla moneta unica. C’è chi ama i titoli gonfi sulle “guerre valutarie”, ma i cambi sono l’effetto e non la causa delle differenze nella crescita. La crescita di un’economia dipende da fattori strutturali – le “forze innate” di un sistema economico – e dalle politiche di espansione. Di queste due grandi determinanti la prima è di gran lunga la più importante. Una politica monetaria di stimolo può portare in prima battuta a un deprezzamento del cambio, ma, se funziona – cioè se l’economia risponde con la crescita – poi il cambio tende a rafforzarsi. Si prenda ad esempio il dollaro. Fino a pochi mesi fa sia il cambio effettivo reale dell’euro che quello della moneta Usa si erano andati deprezzando all’incirca nella stessa a misura a partire dall’inizio della crisi. Ma, quando è diventato evidente che le due aree rispondevano in maniera diversa – gli Stati Uniti riprendevano a crescere e l’Eurozona si adagiava nella stagnazione – i destini delle monete si sono separati. Gli Usa avevano ripreso un sentiero di crescita per meriti diversi da quelli valutari (le capacità di reazione del gran corpaccio dell’economia americana, la politica di bilancio meno penalizzante), mentre nell’Eurozona erano anche lì fattori non valutari (una austerità malintesa, riforme insufficienti) a far segnare il passo all’economia.

Se la svalutazione dell’euro – il cambio reale è oggi stimabile a circa il 12% più basso rispetto alla media del 2007 – avrà un merito sarà quello di togliere un alibi a quanti sostenevano che era colpa del cambio troppo forte se l’economia non cresceva. Forse la discesa dell’euro non è terminata, ma c’è già una grossa differenza fra l’1,38 contro dollaro della primavera scorsa e l’1,27 di adesso. “Qui si parrà la tua nobilitate”, si potrebbe dire ai produttori italiani ed europei: vedremo se era il fattore valutario a tenervi al palo… Ma non bisogna nascondersi dietro un dito. Il problema dell’economia italiana non sta nell’offerta ma nella domanda. Da una parte, la forte rivalutazione del livello di produttività industriale rilevata nei nuovi dati di contabilità nazionale rilasciati dall’Istat; e, dall’altra, i dati sulle vendite al dettaglio comunicati ieri, sono lì a ricordarci che quel che manca in Italia non è la capacità di offerta ma la voglia e la capacità di spendere.

Una apatia dell’economia che, pur tristemente e lungamente evidente nella Penisola, si va manifestando anche nei Paesi “forti” dell’Eurozona. Una apatia che è riflesso anche dello stallo disperante delle politiche economiche. La Bce ha fatto quel che poteva fare, e la palla è ora nel campo dei governi. Ma questi sono incapaci di trovare i tempi giusti e il sentiero più agevole per conciliare riforme e flessibilità di bilancio. La determinazione del governo italiano nel perseguire la riforma del mercato del lavoro è importante, ma ha bisogno di essere assortita di impegni comunitari sulle regole cieche del Fiscal Compact. Per uscire da questo stallo l’Europa ha bisogno della politica alta, dell’afflato che in passato ha segnato le grandi tappe dell’integrazione. Non basta e non basterà l’aspirina di un euro debole.

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Enrico Nuzzo – Il Foglio

Agguantare la crescita, uscire dall’attuale fase di stagnazione, superare la crisi, sono le formule, nei dibattiti a tutti i livelli, veicolate al popolo degli elettori. E su questi obiettivi si tarano interventi, compresi i tagli di spesa pubblica, sulla cui efficacia il cittadino non può che sperare, pur se non più con straboccante fiducia. È trascorso molto tempo dalle prime avvisaglie di segnali negativi del trend economico e ripetuti sono stati gli interventi di contrasto messi in campo dai vari governi, con magri risultati; robusti i sacrifici ripetutamente richiesti alla comunità, ancora in attesa dei segnali di uscita dalla situazione in cui il paese è precipitato. Moniti e consigli da parte delle stesse istituzioni internazionali sulle scelte, per invertire la rotta, sono di comune cognizione. Ineludibili, si sottolinea, per provare a invertire la descritta tendenza negativa, le riforme del mercato del lavoro, del fisco, della giustizia, e cosi via. Misure di politica monetaria, anche appropriate, intanto si mettono sul tavolo.

In sintesi, qualcosa si muove, pur se ancora non si intravede un piano organico di misure complessive da tradurre in azioni concrete, in un tempo necessariamente non breve. E non sempre ci si preoccupa di prestare attenzione al complesso universo dei lacci e ai lacciuoli all’opera, capaci di paralizzarne l’efficacia. Gli interventi per incidere sull’andamento del ciclo economico non raggiungono l’obiettivo per il semplice fatto di essere varati. È invece necessario che il comportamento degli operatori e dei cittadini siano tali da assecondare le finalità che li hanno ispirati, spazzando via – e si tratta di precondizioni ineliminabili – quanto costituisce vero e proprio fattore di decrescita. Degli esempi.

Non stimola la ripresa la semplice messa a disposizione di liquidità per rivitalizzare il mercato del credito, se poi drenata dalle banche che, per parte loro, continuano a ignorare le richieste di prestiti di imprese e famiglie. Le misure per immettere danaro in circolazione, convenzionali o meno che siano, vanno sostenute con consapevoli regole applicative (diverse da quella del tasso negativo sui depositi, perché non del tutto efficace, considerati gli attuali e non più stringenti vincoli tra Banca centrale e aziende di credito). E tanto per evitare che le stesse banche trovino modo per parcheggiare la liquidità ricevuta al loro interno e utilizzarla esclusivamente per loro convenienze e valutazioni. Come agire? Con un’azione coerente di vigilanza orientata a verificare, nello specifico, da subito e in itinere, se la suddetta liquidità viene concretamente fatta confluire nel circuito produttivo, in coerenza con le misure che ne hanno ispirata la messa a disposizione. In ipotesi di persistente disapplicazione delle quali misure (nel trimestre, e/o un altro lasso di tempo ritenuto idoneo), pare appropriato pretendere dall’istituto che non destina quelle somme all’erogazione di prestiti, almeno un tasso di interesse pari, ad esempio, a quello medio (spread compreso) praticato alla sua clientela, privandola, per questa via, del vantaggio conseguito dalla distrazione della liquidità allo scopo cui era destinata.

Sul versante fiscale non aiuta, di certo, a stimolare la ripresa la sbornia talvolta eccessiva dei controlli a tutto campo a cui il cittadino è assoggettato. Sono di dominio pubblico le diffuse richieste di informazioni “a tappeto” sui conti correnti dei singoli da parte dell’Agenzia delle entrate; insistente l’attenzione del fisco sulle spese sostenute all’uscita di un negozio, o a seguito della compera di un’abitazione, con conseguente timore di accertamento sintetico, eccetera. Controlli asfissianti e invasivi, che muovono da presunzione di evasione e articolati anche su impropri giochi di prova e di inversioni di oneri di prova, fanno crollare, da noi, la propensione alla spesa. Gruppi sempre più numerosi di persone, per acquisti voluttuari, prediligono altre mete europee (Londra, Parigi e via dicendo) ben liete di ospitare i consumatori italiani. Assolutamente non trascurabile il numero di coloro che, quando non li dirottano all’estero, preferiscono tenere “parcheggiati” i risparmi, per evitare problemi col fisco, piuttosto che investirli, a tanto contribuendo anche l’attuale scarsa remuneratività di mercato.

Come non ravvisare, allora, nella descritta condotta dei pubblici poteri, un fattore di decrescita? E non si discorra di controlli necessari per combattere l’evasione – che pure va fatta, senza aggettivi, e in maniera efficace – per giustificare il progressivo scivolamento del paese in stato di polizia fiscale che, a parte altre conseguenze, con siffatta condotta, paralizza i consumi e ostacola la crescita, con sistematicità e senza tregua. Non da meno è parte del mondo politico-istituzionale, a vari livelli. I recenti casi di trasferimenti all’estero, fatti o da farsi, di sede di società (Fiat, Lottomatica) e quelli più risalenti di aziende nella vicina Svizzera e/o nei paesi dell’est, dovrebbero avere aperto gli occhi sull’indifferibilità di alcune misure legislative da adottare.

La competizione fiscale tra stati, dell’Unione europea o meno, è una realtà con cui occorre misurarsi. La libertà delle imprese di scegliere paesi fiscalmente più ospitali è garantita, nello stesso spazio europeo, dal principio della libertà di stabilimento e da quello della libera circolazione dei capitali. Non è mantenendo gli attuali livelli di aliquota di tassazione di gruppi e di imprese che si frena la migrazione delle strutture produttive verso la piazza londinese o quella fiamminga. E non occorre avere antenne particolarmente sensibili per avvertire la propensione di altri a seguire gli esempi sopra ricordati. Allo stesso modo, non sono di certo i vincoli burocratici e le rigidità delle scelte di governo, centrale o locali che siano, a invogliare gli stranieri, che ancora ci credono, a investire in Italia. A un gruppo estero – è uno dei tanti casi – pronto a dar vita a un’importante iniziativa, con significative ricadute occupazionali, è stato fatto presente che doveva costruire a proprie spese anche le strade di collegamento dell’impianto con le principali arterie dei trasporti. Alla disponibilità dimostrata a sobbarcarsi siffatto ulteriore onere in cambio di benefici compensativi (riduzioni di imposte, eccetera) è stata opposta per lungo tempo l’impossibilità di aderirvi, per carenza di previsioni di leggi in proposito. L’investimento è stato realizzato. Non in Italia.

Al bivio del futuro

Al bivio del futuro

Francesco Riccardi – Avvenire

«Ammetto di non essermi mai trovato in una situazione in cui le rappresentanze sindacali fossero tanto poco considerate», ha detto Raffaele Bonanni lasciando la guida della Cisl. E in effetti, se si guarda alle vicende politico-sociali degli ultimi mesi ci si rende conto di come le confederazioni, pur calcando ancora la scena mediatica e sociale, siano state del tutto marginalizzate da quella politica. Non si tratta solo di un episodio quanto di un cambiamento di scenario, che investe in pieno il sindacato fino a metterne in discussione l`esistenza, quantomeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto negli ultimi 50 anni.

La prova che qualcosa sia cambiato per sempre è facilmente individuabile nell’iter della riforma del lavoro. Mai era accaduto che il progetto di un tale cambiamento non venisse discusso prima con le confederazioni. Non venisse almeno presentato alle “parti sociali”. E invece oggi sui testi del cosiddetto Jobs Act arrivati al voto del Senato non si è svolto neppure un incontro. Né al massimo livello con il presidente del Consiglio né con il ministro del Lavoro (che peraltro non sembra avere margini di iniziativa autonoma). Una scelta consapevole, quella del premier, che non solo ha superato l’ormai comatosa “concertazione “, ma ha pervicacemente perseguito una linea di azzeramento del “dialogo sociale” inteso come prioritario e determinante confronto con le organizzazioni sindacali. Un chiaro disconoscimento del ruolo di Cgil, Cisl e Uil. Di fatto la “rottamazione” – dopo quella della “generazione che ha fatto il ’68” – anche di tutta l’eredità sindacal-politica del 1969. Un'”asfaltatura” più potente di quella della “marcia dei 40mila”, perché nel 1980 la Fiat coi sindacati subito dopo firmò un’intesa, mentre oggi il governo snobba persino le parziali aperture di Cisl e Uil.

Certo, il sindacato non è morto. Le confederazioni contano ancora su milioni di iscritti, per quanto concentrati in 4 aree: pensionati, pubblico impiego, parte della grande industria e del terziario non avanzato, utenti di servizi come i caf e i patronati. Quanto basta, potendo contare ancora su notevoli mezzi finanziari, per portare in piazza centinaia di migliaia di iscritti, fiaccati da crisi e cassa integrazione, imbufaliti per il blocco della contrattazione e le minacce alla sicurezza del posto di lavoro. Ma la prova muscolare, quand’anche ci fosse, quand’anche le confederazioni riuscissero a bloccare i servizi pubblici (non le industrie private), sarebbe sterile e non sposterebbe di molto i rapporti di forza. Perché – al di là del risultato tecnico sull’articolo 18 – Renzi ha ormai sorpassato i sindacati a destra e a sinistra, da un lato affermando la primazia assoluta della politica nelle scelte e nella rappresentanza dei bisogni dei cittadini, dall’altro prendendosi di slancio (e, dopo le elezioni europee, a furor di voti) il maggiore partito di riferimento. Facendo leva sulla scarsa considerazione di cui i sindacati “istituzione” godono fra i giovani – finora poco considerati e mal difesi – ha stretto Cgil, Cisl e Uil in una morsa dalla quale difficilmente potranno divincolarsi.

Così oggi ai sindacati restano due strade. La prima è catalizzare attorno a sé la (vasta) protesta, trasformandosi sempre più in un movimento essenzialmente parapolitico, che rappresenti una parte del disagio e verticalizzi il conflitto. La seconda è ripensarsi in chiave quasi esclusivamente sociale e produttiva, puntando a essere anzitutto rete orizzontale di inclusione e partecipazione attiva. Nelle fabbriche e nei (non) luoghi del lavoro diffuso, favorendo la formazione dei lavoratori (senza affarismo!) e gestendo i nuovi orari, puntando sulla costante crescita della produttività e con essa di salari e compensi legati agli utili dei lavoratori. Protagonisti anzitutto nelle imprese, nei territori, accanto ai nuovi lavoratori intraprendenti.

Verso la prima strada sembrano orientarsi la Fiom e probabilmente la Cgil. La seconda via potrebbe invece essere lo sbocco naturale di una Cisl capace di rielaborare il proprio patrimonio ideale (la contrattazione aziendale è una intuizione di quella confederazione del 1952!) nel nuovo scenario postindustriale. In parte (assai in parte) la Cisl di Bonanni aveva cominciato questa trasformazione con una riorganizzazione delle categorie. Ma nell’era digitale i processi sono avvertiti solo se accadono in tempo reale. In una società ridisegnata dalle tecnologie e dalla globalizzazione, sempre più polarizzata tra élite della conoscenza e manodopera dei servizi di base, di un nuovo sindacato c’è bisogno perfino più che di una nuova politica. Ripensarsi non sarebbe né una ritirata né un passo indietro, ma un salto nel futuro.

Il problema è un altro

Il problema è un altro

Il Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “ben altro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.

Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”. Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il Welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

Oscar Giannino – Il Messaggero

Raffaele Bonanni anticipa la sua successione alla guida della Cisl nel culmine della battaglia sull’articolo 18. E dà in questo un epilogo a una vita di passione sindacale che l’ha visto spesso impegnato in battaglie molto difficili. Se Pierre Carniti l’ha rimproverato di aver troppo rimarcato la “differenza” riformista della Cisl, rispetto all’antagonismo spesso risorgente nella Cgil e nella Fiom, al contrario è per il senso di responsabilità di Bonanni e di chi lha sostenuto alla Cisl su molti accordi innovativi – una per tutte la vicenda Fiat- che, ancora recentemente, purtroppo la confederazione si è trovata ad avere sedi vandalizzate e dirigenti minacciati.

Ora che l’addio di Bonanni è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un Paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo sente di potersi battere per difendere il suo posto sui mercati mondiali.

È invece il suo rapporto con il mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia. In Italia i fatti non sono andati come si poteva immaginare ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un Paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni.

Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i Paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite Iva e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

È in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani, cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’Acta, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

È questa la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni di stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. È un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte. Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

Controllori distratti

Controllori distratti

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Eravamo rimasti ai quarantacinque giorni di ferie dei magistrati (che poi sono trenta più quindici per stendere le sentenze, come se nel resto dell’anno non fossero pagati per quello) ma scopriamo che non era solo quello. Nell’universo dell’impiego pubblico c’è di tutto, specie nel “particolare”, quando le dimensioni dell’ente dell “erogatore” sono modeste e tutto possa più facilmente sotto silenzio. Perché piccolo non sempre è bello, almeno molto poco bello per la decenza. Ci sono le indennità speciali ai musicisti per muovere la testa, quella ai vigili urbani per stare in strada, ad alcune categorie di impiegati per essere presenti.

Un vero e proprio bestiario, che alle prime cinque righe dell’elenco fa un po ridere ma alla sesta fa già montare la rabbia. Tutti piccoli bonus via via elargiti da politici spreconi in cerca di consenso o dirigenti di enti lirici e similari per assicurarsi una pace sindacale. Non si capisce perché gli insegnanti non debbano avere uno speciale riconoscimento per stare in classe con gli studenti, gli stradini uno per ricoprire le buche, i forestali per andare nei boschi. Magari qualche comune o regione ci avrà anche pensato, quegli stessi che poi piangono con il governo perché mancano i soldi dallo stato centrale e si devono chiudere gli asili.

Ma il punto non è(solo) questo. I punti sono due: il primo è una ormai inconcepibile discrepanza di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati (lo sappiamo tutti benissimo: non c’e azienda privata che avrebbe riconosciuto simili indennità); il secondo è la mancanza di controlli veri ed efficaci “centrali” sui livelli di contrattazioni periferiche. L’autonomia va bene, ma a patto di non sforare il ridicolo e sfondare l’erario. Riguardo al primo punto ricordiamo che è in atto da parte del governo una riforma della pubblica amministrazione, la famosa riforma Madia: evidentemente è il caso che la delega all’esame del Parlamento si occupi anche di questi aspetti che non sono secondari. Nel secondo aspetto citato, la domanda è: ma dove sono i controllori tipo Corte dei conti o organismi simili? Anche in questo caso girati dall’altra parte oppure mancano gli strumenti legislativi per permettono un intervento? Sia come sia, è il caso di rimediare. In fretta.

I conti non tornano

I conti non tornano

Giuseppe Turani – La Nazione

Se io prendo cento euro e li sposto dalla tasca sinistra a quella destra, non per questo divento più ricco. L’idea di mettere mezzo Tfr in busta paga subito, mese per mese, è un po’ la stessa cosa. Da una parte si dice che è urgente diminuire il costo del lavoro per le imprese, dall’altra lo si aumenta. La logica sarebbe quella di dare subito più soldi ai lavoratori, così i consumi ripartono. Il Tfr è un accantonamento che l’azienda deve fare. Di solito, come dice il nome, quando il lavoratore esce dall’azienda, gli viene consegnata una somma equivalente appunto a un mese di stipendio per ogni anno lavorato. L’idea, degna del mago Houdini, è questa: poiché quei soldi sono già del dipendente e poiché abbiamo bisogno di rilanciare l’economia, diamoglieli subito, così si compra un paio di scarpe nuove e l’economia riparte.

È un ragionamento che farebbe bocciare all’esame di economia in qualsiasi università (ma forse anche a ragioneria). Si tratta infatti di un aumento «artificiale» delle paghe, ottenuto non grazie a un miglior andamento dell’economia, ma grazie a una distribuzione immediata di quelli che sono i risparmi del lavoratore, custoditi dall’azienda. I soldi del Tfr, infatti, non sono depositati dall’imprenditore in un salvadanaio a forma di porcellino che viene rotto quando il dipendente se ne va (magari fra vent’anni). Anzi, quei soldi non esistono proprio.

L’imprenditore li segna in bilancio perché così va fatto, ma in realtà usa quei soldi per le necessità correnti dell’azienda. Poiché sa quando i suoi lavoratori lasceranno l’azienda, si organizza in modo da avere nel momento dell’uscita il Tfr per 10, 20, 30 lavoratori. L’anno dopo se ne andranno altri 10, e l’imprenditore verserà l’equivalente di 10 Tfr. Se ha 200 dipendenti e se ne vanno 20 all’anno, dovrà avere in contanti i soldi per questi 20 Tfr. Il resto rimane nell’azienda. Se si decide che invece almeno metà del Tfr va versato mese per mese si ottiene certo di aumentare la paga dei dipendenti (a carico dell’azienda), ma in compenso si aggrava il costo del lavoro (subito) di una mezza mensilità, che a quel punto va tirata fuori per tutti i dipendenti e non solo per quelli che se ne vanno. Abbiamo passato mesi a dire che era centrale far scendere i costi per le aziende, e adesso andiamo a aumentarli?

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Bonifacio Borruso – Italia Oggi

Come Matteo Renzi ha annunciato di voler davvero riformare lo Statuto dei lavoratori, «per smettere di discriminare i non garanti», è scattata la corsa a usare le attività dei genitori per dimostrare l’incoerenza pratica del premier: nelle piccole aziende «renziane» non c’è tutta questa voglia di tutelare i giovani. Non c’entra qui l’inchiesta della procura di Genova che, a sei mesi dalla relazione di un perito del tribunale fallimentare, si è ricordata di indagare Tiziano Renzi, padre del segretario Pd, con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per un’azienda operante nel genovese: coincidenza singolare ma comunque coincidenza.
L’attacco s’è concentrato sulla tipologia dell’attività in questione nella società, la Chil, di cui peraltro Renzi è un dirigente in aspettativa, regolarizzato, si osserva, poco prima di diventare presidente della Provincia, così da trasferire l’onere dei contributi previdenziali all’ente pubblico.

Il Fatto quotidiano, domenica scorsa, ha titolato prontamente: «Tiziano Renzi, nella sua azienda tutti precari. Tranne il figlio Matteo». Davide Vecchi, l’autore dell’articolo, parla di un marchio di fabbrica, in quanto anche le due sorelle del premier, che lavorano in un’altra azienda di famiglia, la Eventi 6, sarebbero inquadrate come co.co.co., cioè come collaboratrici coordinate e continuative. Il giornalista del foglio padellarian-travaglian-gomeziano definisce ironicamente questa tipicità contrattuale come «Tiziano Act», che si contrappone, nei fatti e nel privato familiare di Renzi, al Jobs Act del premier. Un modo per dire che Renzi predica bene dal pulpito di Palazzo Chigi e razzola male negli uffici paterni di Rignano sull’Arno (Fi).

Eppure il pezzo di Vecchi cita, correttamente e nel dettaglio, che attività svolgessero e svolgano le società di Renzi senior, della mamma e delle sorelle: la diffusione di giornali, di volantini e di prodotti editoriali. Un’attività che, per definizione, deve svolgersi con contratti a termine. E infatti, come racconta il giornalista, a impegnarvisi erano soprattutto studenti universitari che arrivavano a mettere insieme 400 euro al mese. «Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba», racconta al Fatto un ex-lavoratore Chil, dietro richiesta dell’anonimato (sic), «ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera». Il contratto «era atipico», insisteva l’intervistatore cercando l’indignazione postuma, e l’altro, di rimando: «Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché, oltre al fisso, ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere».

In pratica, secondo il Fatto, babbo Renzi avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato torme di studenti universitari nelle città in cui lavorava. Un nuovo profilo professionale: gli strilloni-impiegati di concetto In questo, però, anche l’Editoriale Il Fatto Spa, di cui è presidente il direttore Antonio Padellaro, e nel cui consiglio di amministrazione siedono Marco Travaglio e Peter Gomez, potrebbe aprire una strada: assumendo a tempo indeterminato, ovunque siano e ovunque scrivano, carta o web, i collaboratori del giornale.

La politica Ue non ha funzionato

La politica Ue non ha funzionato

Stefano Cingolani – Italia Oggi

La Draghinomics è arrivata anche al Parlamento europeo, nutrita di accenti pessimistici sulla congiuntura economica. Del resto, i Paesi dell’euro stanno cadendo nella terza recessione dopo quella del 2008-2009 e quella del 2012. Il presidente della Bce ha ripetuto per ben sei volte la parola riforme strutturali, ma attenzione a non fare il solito giochetto di chi strattona la giacca sartoriale per coprire le proprie magagne. Perché la dottrina Draghi è basata su tre pilastri: una politica monetaria espansiva; una politica fiscale fatta di aggiustamento dei conti pubblici per chi li ha in disordine e di sostegno alla domanda per chi invece ha raggiunto il pareggio; più le riforme a cominciare dal mercato del lavoro, ma non solo. Si può anche dire che il trittico non funziona, ma non si può smontarlo a piacimento. Dunque, per prendere sul serio la Draghinomics bisogna sfatare alcuni luoghi comuni:

1) La ripresa passa per le riforme strutturali. Se vogliamo dire che «passa», ebbene è certamente vero, ma è altrettanto certo che non «parte» da lì. Le riforme sono essenziali per rendere lo sviluppo solido e sostenibile, ma producono effetti benefici dopo almeno tre anni secondo gli studi del Fondo monetario internazionale.

2) Mercato del lavoro, sistema giudiziario, Stato efficiente, leggi favorevoli al business sono le leve della crescita. Può darsi, ma allora come la mettiamo con il Giappone dove si verificano tutte queste condizioni eppure il Paese ristagna da vent’anni?

3) I Paesi che hanno compiuto aggiustamenti più radicali e dolorosi oggi vanno meglio degli altri, soprattutto la Spagna (l’Irlanda non è comparabile perché troppo piccola e diversa come struttura economica). Qui occorre mettere a confronto alcune cifre a costo di essere noiosi. La Spagna cresce dell’1 per cento quest’anno, mentre l’Italia è in recessione. I due Paesi hanno perso nell’ultimo anno ciascuno il 5% di prodotto potenziale (cioè la differenza tra il pil effettivo e quello possibile con il pieno impiego dei fattori) e nessuno dei due ha recuperato il livello esistente prima della crisi. Il bilancio pubblico spagnolo era in pareggio nel periodo 2004-2008, è crollato a -11% nel 2009, ora fa registrare un deficit del 5,6% mentre l’anno prossimo salirà a oltre il 6. L’Italia, lo ricordiamo, era a -3 e oggi è a -2,6 dopo un picco di -5,5% nel 2009; dal 2012 è tornata nei ranghi. Anche dal lato del debito le cose sono andate molto peggio in Spagna. Infatti, prima della crisi aveva un debito pari al 41% del pil, mentre oggi è a 100 e l’anno prossimo arriva a 103, con un peggioramento di oltre 60 punti percentuali. L’Italia parte da 105 e arriva a 133, dunque «appena» 28 punti. In sostanza, Roma ha seguito una politica fiscale tendenzialmente restrittiva, Madrid una fortemente espansiva. La Spagna ora sta rimbalzando mentre l’Italia è piatta, incollata al pavimento. Ciò è conseguenza della svalutazione salariale, perché le retribuzioni in Spagna si sono ridotte e così il costo unitario del lavoro (sempre segno meno dal 2010 con una punta di -4 nel 2012) mentre in Italia no. La disoccupazione spagnola è al 25%, aumentata di sedici punti rispetto al periodo pre-crisi (prima del 2008) mentre quella italiana è al 12,8 (+5,7%). Questo esercito industriale di riserva ha contribuito a schiacciare salari e stipendi. Nella distribuzione del valore aggiunto, ciò ha fatto salire la quota del profitto e ha rimesso in moto gli investimenti, insomma ha dato un giro di manovella alla macchina del capitale. Ma quanto ha inciso il deficit spending? La spesa sociale ha certamente ammortizzato il peso della crisi. La Ue ha consentito l’eccezione spagnola per intercessione di Berlino, il secolare alleato, e perché Madrid ha chiesto aiuto per salvare le proprie banche (37 miliardi di euro dal fondo salva-stati del quale l’Italia è terzo contribuente). La Commissione ha agito bene? No, se si ha il culto delle regole. Sì, per quel senso di compassione umana che supera sempre la ragione economica; del resto Bruxelles non può certo diventare l’unione degli affamatori dei popoli. Ma questo non c’entra nulla con i vizi e le virtù della politica economica. Sarebbe onesto riconoscerlo.

4) I conti in ordine, dunque, favoriscono la crescita, ma non la generano. Sono semmai la condizione per usare il bilancio dello Stato come stimolo alla congiuntura e come strumento di distribuzione dei redditi.

5) Per ridurre il debito, davvero l’unica via è un avanzo nel bilancio primario (al netto degli interessi), come recita il Fiscal compact? Solo se è accompagnato da una crescita del prodotto lordo costante e sufficientemente elevata. Inoltre, una riduzione generalizzata dei prezzi (la deflazione) è in grado di annullare gli effetti «risanatori» di una politica fiscale rigorosa.

6) La Banca centrale europea ha stampato troppa moneta? Il bilancio della Bce ha toccato il picco di duemila miliardi di euro nel 2012, poi è sceso del 50%; quello della Federal Reserve è arrivato a 4.400 miliardi di dollari e continua a crescere. C’è un limite alla politica monetaria e lo ha dimostrato il fallimento della prima tranche di Tltro. Tuttavia il passo falso dipende dal fatto che i prestiti sono ritagliati sulle esigenze del mondo bancario; l’Eurotower resta la banca delle banche, mentre dovrebbe diventare la banca dell’intero sistema, acquistando sul mercato titoli privati e pubblici.

Conclusione: le politiche della Ue non hanno funzionato. Ripeterle con una sorta di reazione pavloviana sarebbe colpevole, gli americani hanno ragione da vendere. Oggi ci vuole un intervento coordinato di politica economica muovendo in modo sincronizzato le tre leve indicate da Draghi (moneta, fisco e riforme). Berlino non ci sta e va per conto suo? A questo punto è la Germania che va sanzionata. Se questa è una Unione e se alla guida ci sono uomini, non solo pupazzi.

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.