Edicola – Opinioni

La squadra di Juncker è di rigore

La squadra di Juncker è di rigore

Gaetano Pedullà – La Notizia

Non è ancora iniziata e la festa è già finita. A illuderci più di tutti era stato Draghi, che sfidando il veto della Merkel è riuscito a infilare un po’ di liquidità nel sistema finanziario europeo, allentando quel rigore che sta strangolando famiglie e imprese. Pure la locomotiva tedesca d’altronde fatica a marciare e dunque un cambio di passo per liberare risorse e far ripartire l’economia ci stava. Ieri si aspettava solo la conferma, con l’indicazione della squadra del commissario europeo Jean-Claude Juncker. Cartina di tornasole era la casella strategica dell’economia, dove a fatica è approdato il francese Pierre Moscovici, per capirci una colomba in materia di vincoli e freni allo sviluppo. Subito accanto, però, il presidente gli ha messo il finlandese rigorista Jyrki Katainen, un signore che nel pieno della crisi dei conti pubblici in Grecia chiese il Partenone a garanzia dei prestiti europei. Dunque non aspettiamoci nulla da Bruxelles. E prepariamoci a pagare per i nostri peccati, a partire dal fiscal compact e dagli altri impegni che politici miopi ci hanno fatto a prendere. Dovremo svenarci e non avremo sconti. Fin quando con questo rigore ci moriremo.  

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

Competitività anima della crescita

Competitività anima della crescita

Ferdinando Nelli Feroci – Il Sole 24 Ore

Nell’ambito del cruciale dibattito in corso sul rilancio della crescita e dell’occupazione in Europa, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese ha assunto un ruolo decisivo. L’industria, infatti, contribuisce per circa l’80% delle esportazioni europee e per un ammontare simile per quanto riguarda la capacità innovativa del nostro sistema. Senza una forte base industriale è difficile rilanciare la crescita e riassorbire l’elevata disoccupazione. Purtroppo, dal 2008 abbiamo perso circa 3,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e la quota sul Pil Ue generata dall’industria è scesa al 15,1%.

È prioritario invertire il declino. Rimettere in moto la crescita significa trovare ricette giuste per rendere le aziende attori dinamici sui mercati globali. I rapporti sulla Competitività degli stati membri e sulla Competitività dell’industria europea, appena pubblicati, presentano un quadro di luci e ombre. Se da un lato abbiamo Stati membri con elevata competitività di sistema, dall’altra abbiamo paesi che arrancano e che vedono ridursi sempre più la loro presenza sui mercati mondiali. Discorso analogo per i vari comparti produttivi europei, dove a fronte di punti di forza, come il farmaceutico, la chimica, la meccanica, l’industria automobilistica e l’alta gamma, esistono settori in sofferenza e piccole e medie imprese (Pmi) sempre più in difficoltà.

I due rapporti cercano di individuare i punti di forza e di debolezza del panorama industriale Ue e mirano a ispirare le politiche della competitività a livello Ue e dei singoli Stati. I maggiori problemi che abbiamo identificato riguardano la debolezza della domanda interna, la mancanza d’investimenti, alti prezzi dell’energia e un contesto amministrativo-regolamentare talvolta eccessivamente oneroso per le imprese. La chiave del nostro rilancio economico risiede nella ripresa della domanda interna. Al di là del rilancio dei consumi, la crescita della domanda passa attraverso l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati, tra l’altro tra i più colpiti dalla crisi. La ripresa di questi ultimi consentirebbe di innescare il circolo virtuoso della crescita che alimenterebbe sia la domanda che la competitività di tutto il sistema. In questo clima di ritrovata fiducia, anche i privati riprenderebbero ad investire.

Perché questo possa avvenire, è importante garantire un adeguato accesso al credito alle aziende. Senza sufficiente liquidità per investire e innovare, le imprese europee rischiano di perdere non solo la sfida globale ma anche di compromettere la sfida in casa, a fronte di prodotti stranieri più economici e innovativi. Il sistema finanziario deve essere messo nelle condizioni di canalizzare verso le imprese la liquidità di cui dispone. Confido che il lavoro sull’Unione bancaria porti i sui frutti quanto prima su questo fronte così come le recenti iniziative intraprese dalla Banca centrale europea. Dobbiamo anche lavorare per migliorare il rapporto banche-imprese, colmando il deficit informativo delle banche verso le Pmi e viceversa, e rafforzare nuovi canali di finanziamento alternativi, come le obbligazioni per le pmi e un ricorso più strutturato al venture capital e al crowdfunding.

Il rilancio della competitività necessita di un contesto amministrativo più favorevole alle imprese. È fondamentale ridurre le tasse sul lavoro e sui fattori produttivi, ma anche sprechi ed inefficienze. Una Pubblica Amministrazione efficiente è strumentale alla crescita delle aziende, sia in termini economici che occupazionali. Dobbiamo ridurre i tempi di concessione delle licenze, rendere più efficiente il sistema giudiziario e ridurre il fardello burocratico che pesa sui nostri imprenditori.

Inoltre, la bolletta energetica è sempre più cara in Europa, soprattutto se paragonata a quella dei nostri competitor nel mondo. Nella stessa Ue, i prezzi variano notevolmente da un Paese all’altro, riflettendo le differenze nella produzione, nella tassazione e nella ripartizione delle sovvenzioni per le energie rinnovabili. Nonostante un generale aumento dell’efficienza energetica in molti settori industriali, l’aumento dei prezzi di elettricità e gas ha influenzato negativamente i costi di produzione e la competitività delle nostre imprese, specialmente nei settori ad alta intensità energetica.

Oltre a queste difficoltà, esistono fortunatamente segnali positivi. Il nostro sistema industriale ha ancora vantaggi competitivi in numerosi settori ad alta e medio-alta tecnologia con una forza lavoro mediamente più qualificata che altrove. Dobbiamo quindi insistere sui punti di forza e allo stesso tempo investire nella formazione dei nostri giovani, nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’internazionalizzazione. Sono queste le ricette per guadagnare competitività e aumentare la nostra presenza sui mercati mondiali, dove si concentrerà gran parte della crescita nei prossimi anni. In conclusione, per ritornare a crescere.

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Stefano Lepri – La Stampa

Le riforme sono ciò che l’Italia deve fare per sottrarsi al declino. Sono quelle necessarie a un Paese che aveva già cominciato a impoverirsi all’inizio dello scorso decennio, prima della grande crisi e molto prima delle regole di bilancio europee ancora ieri difese da Angela Merkel. In più, solo cominciare a farle darà forza alla battaglia per il futuro dell’Europa da condurre nei prossimi mesi.

La nuova Commissione europea, la cui squadra è stata completata ieri, mostra una prevalenza di conservatori (soprattutto nel senso della continuità delle politiche attuali). Allo stesso tempo, la svolta di Mario Draghi il 22 agosto ha aperto una fase nuova. Occorre ascoltarlo sia quando dice che senza riforme nessun altro rimedio funzionerà, sia quando aggiunge che la politica di bilancio europea è nell’insieme troppo austera. In Italia conta più il primo punto. Ad esempio l’incapacità di usare appieno i fondi strutturali europei, ricordataci nell’intervista dal presidente uscente della Commissione José Barroso, non può essere scaricata su capri espiatori di comodo: dipende solo dall’inettitudine dei nostri politici locali a formulare progetti capaci di essere approvati da Bruxelles. Non interessa quel denaro perché non rientra negli schemi nazionali di che cosa occorre fare per conquistarsi il consenso degli elettori. E si badi bene che a risolvere il problema hanno provato in tanti, a cominciare dal governo Ciampi 21 anni fa, maggioranze di ogni colore, ministri anche di grande competenza; metodi assai differenti sono stati sperimentati via via.

In altri casi misure che i governi riescono a prendere vengono bloccate dal pulviscolo dei piccoli poteri interessati a che nulla cambi. La struttura del nostro Stato rende facile a troppe entità il non fare, nel calcolo di ricevere prima qualcosa in cambio. Così la burocrazia intralcia le norme attuative, le amministrazioni locali stentano a conformarvisi. Tagliare il nodo con procedure accelerate è spesso peggiore del male: l’arbitrio crea spazio per maxi-tangenti, come emerge dagli scandali della Protezione Civile o del Mose a Venezia.

Ancora più spesso, corporazioni compatte pretendono influenza sul potere politico a danno dell’insieme degli elettori. L’esempio dei 45 giorni di ferie difesi dai magistrati sembra fatto apposta. Non possiamo fare a meno di riformare la giustizia civile quando esistono di fatto una franchigia per i reati (sotto una certa cifra non vale la pena di affrontare costi e tempi di una causa) e una ampia incertezza del diritto (su troppe minuzie si rischia di essere portati in causa). E se si andrà avanti, più ancora dei giudici protesteranno gli avvocati. L’insieme di corruzione politica, inefficienza burocratica e arroganza delle lobbies accresce a valanga la sfiducia nell’azione collettiva. Dilaga la paura di ogni novità; molta propaganda grillina si fonda sul principio del «meglio non fare perché facendo qualcuno ruba»; si finisce a diffidare della stessa parola «riforme».

O si incide su tutto questo, o l’Italia continuerà a deperire; la nostra economia non sarebbe in grado di rispondere agli stimoli forse nemmeno se i vincoli di bilancio sparissero da un giorno all’altro. Nello stesso tempo, il ristagno collettivo dell’area euro va curato con strumenti nuovi; e questo lo deve capire la Germania. Il rischio non è più di un crack da instabilità finanziaria, come nel 2011. Se si continua cosi, senza ripresa e senza lavoro, l’unione monetaria può invece andare incontro a una crisi tutta politica: basti pensare ai correnti sondaggi di opinione in Francia. Eppure a Berlino per fermare l’ascesa degli anti-euro basterebbe calare le tasse, dato che lì le risorse ci sono.

Un uomo al comando

Un uomo al comando

Bruno Vespa – La Nazione

Anche se ha rallentato il ritmo delle scadenze (da “una riforma al mese” al passo dopo passo dei mille giorni), come comunicatore il Matteo Renzi visto l’altra sera a ‘Porta a porta’ resta un ciclone, La ‘concertazione’ fa parte ormai dell’archeologia industriale e sociale. La Cgil proclama uno sciopero? Faccia pure, anzi, visto che non ne ha chiarito la ragione, farò in modo di offrirgliela. L’Associazione magistrati è furibonda? Brrr, che paura! Gli 80 euro non fanno salire i consumi? Vedremo, ma intanto sono un elemento di giustizia sociale. Ci sono grandi resistenze ai tagli? Attenti, raggiungeremo i venti miliardi anche se me ne servirebbero soltanto sette. Lasciare la segreteria del partito per fare meglio il capo del governo? Non ci penso nemmeno per un nanosecondo. Non ci credete, fate i gufi? Non credevate nemmeno agli 80 euro, né alla Mogherini ministro degli Esteri europeo e nemmeno al rimborso dei 50 miliardi di debiti della pubblica amministrazione alle imprese.. (qui il governo è un po’ in ritardo e la trattativa sulla passeggiata al santuario di Monte Senario è aperta). E ancora: 149mila precari della scuola saranno assunti (ieri i primi 15mila), si troveranno i soldi per pagare una parte degli scatti maturati dai militari ma si eviteranno duplicazioni, le conferenze di servizi saranno monocratiche e dovranno decidere in un mese (se davvero sarà così, porterò in braccio Renzi a Monte Senario, visto che questo istituto è il frigorifero di ogni progetto).

Le difficoltà del governo sono oggettive. Mettersi contro le lobby è rischioso, tagliare con ‘testa politica’ è complicato. Cottarelli da tecnico usa l’ascia, Renzi deve usare il bisturi. Eppure questi scogli vengono sommersi dalla straordinaria capacità comunicativa del premier che gioca a fare il Davide contro tutti i Golia che hanno paralizzato il paese. I sondaggi dicono che la popolarità del presidente del Consiglio resta alta, superiore a quella del governo e ai voti (tanti) presi dal Pd alle ultime elezioni. «Lo zoccolo duro del mio partito è del 25 per cento – dice Renzi – Il resto è fatto da persone che abitualmente non votano per noi». Quanto durerà questa luna di miele? È già finita, come insinuano i grandi giornali anglosassoni o ha ancora lunghe prospettive? Lo capiremo da qui alla fine dell’anno. Lo capiremo in parte a Natale, quando vedremo se gli 80 euro e un clima generale di maggiore fiducia porterà la gente alla ripresa dei consumi che per ora restano fermi. E capiremo l’effettivo rilievo delle riforme annunciate. Vedremo se davvero la riforma della giustizia sarà incisiva come lascia intendere Renzi o molto compromissoria come temono altri. Vedremo soprattutto come andrà quella del lavoro. I sondaggi trasmessi l’altra sera a ‘Porta a porta’ coincidevano in modo impressionante su un punto: due terzi degli italiani sono favorevoli alla flessibilità che consenta di licenziare con maggiore facilità in cambio di assunzioni più semplici. Metà del campione si irrigidisce sulla modifica dell ‘articolo 18, ma se la domanda si pone in modo diverso c’è un radicale ammorbidimento. Anche sui ‘mini jobs’ alla tedesca (part time di 15 ore alla settimana con stipendi che partano da 450 euro) c’e un interesse maggioritario. Questo dimostra due cose: i sindacati, in particolare la Cgil, combattono una guerra ideologica di retroguardia; la gente chiede provvedimenti radicali e immediati.

Il governo Monti cominciò il suo declino quando non riuscì a fare per decreto la riforma del lavoro, dopo aver fatto per decreto quella delle pensioni. Il decreto Poletti è soltanto un antipasto. Se il grosso del provvedimento andrà in una legge delega che impiega 18 mesi per andare in porto, la medicina sarà recapitata al malato dopo il suo funerale. Mario Draghi ha sconvolto il sonnolento mondo dei banchieri con provvedimenti choc, mai visti nei 24 anni di vita della Banca centrale europea. Renzi, il migliore interprete della ‘fretta’ nell’agire, prenda esempio da lui.

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Alla fine di settembre scade il mandato di Vittorio Conti, commissario dell’Inps a termine nominato da un già defunto governo Letta. Sei mesi di surplace sono però troppi per il più grande ente previdenziale dell’Unione europea che annualmente movimenta, tra entrate e uscite, flussi finanziari per 763 miliardi. L’Inps merita una strategia e una visione alta in un paese che ha perso il 10% del suo Pil e che registra mensilmente record negativi in serie nella sua disoccupazione. L’Inps non può permettersi di galleggiare o di avere poca ambizione. L’istituto ha il dovere di essere un motore dello sviluppo e della politica economica italiana gestendo e mobilitando al meglio le sue cospicue risorse. Non può permettersi di investire male e neppure di investire solo in Btp.

Archiviata la stagione della parole in libertà della gestione Mastrapasqua, quando si vagheggiava dell’Inps come nuova casa del welfare, adesso il governo Renzi è chiamato a cambiare passo. Non tanto e, soprattutto, non solo in materia di governance dell’ente. Fatto sicuramente importante, ma l’Inps non può più permettersi di essere solo oggetto di dibattito sui ruoli e sulle deleghe di chi lo gestisce. Un paese contestualmente in deflazione e in recessione è obbligato a chiedere molto di più alla strategia del suo più importante intermediario finanziario. Come? Innanzitutto il Premier deve affrontare il capitolo Inps con la stessa determinazione con la quale ha rifiutato di partecipare al congresso della Cgil e alla passerella di Cernobbio. Renzi, nel fare le nuove nomine all’Inps, deve prendere tutti in contropiede puntando a disboscare la foresta pietrificata sindacale che da sempre, di fatto, governa l’istituto. L’Inps deve rendere conto ai sindacati di come opera, ma non essere gestito dai delegati dei sindacati in ogni articolazione della sua organizzazione. Poi, Renzi deve scegliere per l’Inps un profilo tecnico effettivamente qualificato in materia previdenziale e pensionistica anche integrative. Non un ex ministro o un politico trombato ma una figura stimata nella materia in campo internazionale e a livello comunitario. In Italia qualche profilo appropriato ancora c’è, anche se, magari, non ha frequentato la Leopolda. Infine, serve qualcuno in grado di lavorare a stretto contatto con il ministro Padoan, che ne parli lo stesso linguaggio, visto che l’Inps rappresenta la componente più importante del bilancio pubblico.

La nomina del prossimo presidente dell’Inps è uno snodo chiave della strategia di politica economica di Renzi. Scegliendo la persona giusta può dare, contestualmente, tanti positivi segnali nella direzione giusta della rottamazione creativa e aiutare il Pil made in Italy a rimettersi in marcia.

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Cesare Maffi – Italia Oggi

La storia della Tasi si misura in mesi, ma ammaestra come se fosse una vicenda secolare, tra assurdità, frenesie tassatorie e velleità burocratiche. Partiamo dall’Isi, che non è l’acronimo di uno Stato islamico, bensì cela l’imposta straordinaria sugli immobili, nata sotto il governo Amato I, nel ’92. Secondo l’italico costume di rendere permanente tutto quello che dovrebbe essere transitorio, l’Isi divenne presto Ici. Una patrimoniale, certo; però l’intendimento originario era diverso. Si voleva istituire un tributo sui servizi comunali: chi gode sicurezza e strade, giardini e illuminazione pubblica, deve pagare per i vantaggi che riceve. Avrebbe dovuto essere soggetto passivo chiunque ne traesse giovamento, indipendentemente dal titolo di proprietà o di possesso o di essere conduttore di un’unità immobiliare. Ovviamente non fu così, perché è molto più semplice, per far cassa, mazzolare un bene immobile piuttosto che mettersi a cercare un’altra base imponibile. Anche l’ipotesi di creare un’Imposta sui servizi comunali, che avrebbe dimezzato l’Ici, finì in cavalleria.

L’esigenza di lucrare somme sempre crescenti portò ad aumenti delle aliquote (il tetto del sette per mille da eccezionale divenne ordinario), addirittura sfondando in qualche caso il massimo per salire al nove, perfino sopprimendo il tetto, e rivalutando le rendite catastali del 5% ai fini dell’Ici. Non paghi, i legislatori crearono l’Imu, falsamente definita imposta municipale unica. Da sperimentale l’Imu è divenuta definitiva mentre le rivalutazioni delle rendite catastali hanno assunto, sotto Mario Monti, livelli di sadismo fiscale (+60% per gli immobili residenziali).

A un certo momento, nelle discussioni sul federalismo fiscale, venne fuori l’ipotesi d’introdurre una tassa sui servizi comunali. Avrebbe dovuto sostituire l’imposta patrimoniale. Si tornava alle origini, in certo modo. Ecco motivata la Tasi. La nuova imposta, però, non si misura sui servizi goduti, bensì sulla rendita catastale. È una patrimoniale. Non sostituisce l’Isi-Ici-Imu, ma si assomma. Le complicazioni dell’Ici (il ministro Vincenzo Visco, un signore che se ne intende, denunciò «l’inestricabile giungla dell’Ici») si sono moltiplicate con Imu e Tasi. I contribuenti continuano a pagare somme crescenti e incontrano difficoltà sempre maggiori. Non hanno nemmeno contezza di quanto sia la pretesa del proprio comune nei loro confronti. Non hanno alcuna certezza su modi e tempi e rate di pagamento.

Anche la Tasi deriva la propria esistenza alla volontà erariale di far cassa: sempre, dovunque, comunque. Ogni sistema è buono. Quindi, è più facile ricorrere a un’imposta patrimoniale che non a una reddituale. È più semplice colpire un bene immobile che non un bene mobile. È più facile far salire un’aliquota o una rendita catastale che non prevedere meccanismi più razionali e meno brutali. È più facile aggiungere una nuova forma impositiva a quelle esistenti, invece di sopprimerne qualcuna. È più semplice rendere stabile quel che era provvisorio, piuttosto che studiare un diverso provvedimento. A tutti questi ammaestramenti si aggiunge la beffa di qualche politico. Il bocconiano col loden, assurto a palazzo Chigi a furor di urla («fate presto!» gridava il Sole-24 ore), si è vantato: «In pochi giorni ho messo in campo la riforma della tassazione, introducendo di fatto una patrimoniale». Disse Maffeo Pantaleoni: «Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse».

Pil: è diventato un guazzabuglio

Pil: è diventato un guazzabuglio

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – Italia Oggi

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread, naturalmente, riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola.

In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione. È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti.

Il parametro del Pil infatti fu «inventato» nel lontano 1934 e è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacità produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento. E qui incomincia la «perversione» del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare.

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che «le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando». Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato «in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico». È proprio l’avverbio, «indipendentemente», che contiene il virus più distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, «indipendentemente» dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, «indipendentemente» dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati «falsi» per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente François Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5% in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa «valeva» circa il 17% del Pil.

Noi crediamo che tale riforma contabile sia figlia dell’ultima, forse la più pericolosa, ideologia sopravvissuta del ventesimo secolo, quella del liberismo economico «selvaggio». Si sente forte l’influenza di Milton Friedman, il caposcuola dell’ economia monetarista, che nel 1994, parlando di economia e dell’Italia, diceva: «Il vostro mercato nero è un modello di efficienza. Il vostro governo è modello di inefficienza. In certe situazioni l’evasore è un patriota. L’Italia si regge solo grazie al mercato nero e all’evasione fiscale che sono in grado di sottrarre ricchezze alla macchina parassitaria ed improduttiva dello Stato per indirizzarle verso attività produttive.» Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al «trucco contabile» proposto.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.