Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata
Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio
Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali.