economia

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali. 

Due idee fiscali per il governo (a costo zero) per mobilitare risorse private

Due idee fiscali per il governo (a costo zero) per mobilitare risorse private

Andrea Tavecchio – Il Foglio

Negli ultimi tempi il tono della discussione sulla crisi italiana, che dura da sette lunghissimi anni, ha preso una direzione quasi unanime. Non è più sufficiente l’ordinaria amministrazione ci vuole una terapia d’urto. Le soluzioni proposte sono tante. Accanto a ricette più classiche – ma troppe volte rimandate – come una riduzione significativa delle imposte su chi produce reddito accompagnata da una seria spending review e da una modernizzazione dei contratti di lavoro sulla scia delle proposte del senatore Ichino, si comincia a leggere, finalmente, sia delle necessità di intervenire – con modalità simili a quanto già avvenuto in altri paesi Europei – sulle sofferenze bancarie sia di mobilitare centinaia di miliardi di euro facendo leva sul patrimonio pubblico. Tutte ipotesi da realizzare al più presto, senza ulteriori indugi anche perché queste manovre, come ricordato anche dal ministro Padoan, ci mettono almeno diciotto mesi per dare dei frutti visibili. Non c’è tempo da perdere. Quello di cui si discute ancora poco è di come mobilitare le risorse private. In Italia bisogna cambiare marcia nel rapporto tra fisco e contribuente, l’obiettivo deve essere far pagare le tasse, ma senza bloccare i consumi e gli investimenti.

Qui di seguito due proposte. Il governo si impegni perché l’ordinamento tributario italiano si doti di una norma, di rango costituzionale, che riconosca il principio della certezza dei rapporti giuridici in materia fiscale, rafforzando i principi di irretroattività e di affidamento previsti dallo Statuto del contribuente. La seconda proposta è modificare il modello Unico delle persone fisiche – inserendo nella dichiarazione dei redditi anche la situazione patrimoniale – come accade in molti altri Paesi occidentali. Dalla dichiarazione dei redditi si deve poter confrontare, anno per anno, il reddito netto dichiarato con le dotazioni patrimoniali esistenti. In questo contesto, di maggiore certezza nel rapporto fisco-contribuente e con una dichiarazione dei redditi finalmente moderna il Governo potrebbe impegnarsi, per chi pagasse un contributo straordinario, ad accorciare i termini di accertamento sulle persone fisiche. Sarebbe una riforma fiscale non depressiva, anzi, farebbe gettito e modernizzerebbe – in modo duraturo – il rapporto tra Fisco e Contribuente.

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Angelo Cremonese – Il Mattino

Era dal 1959 che in Italia non si assisteva al fenomeno della deflazione. Ad agosto, secondo le stime preliminari dell’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,2% rispetto al mese precedente e diminuito dello 0,1% nei confronti di agosto 2013. Questa dinamica tendenziale fatta registrare dall’indice generale è da imputare, secondo l’Istituto di Statistica, principalmente all’accentuarsi della flessione del costo dei carburanti. La riduzione dei prezzi si sta estendendo, però, anche al carrello della spesa: i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una flessione tendenziale (-0,2%), più contenuta rispetto a quella rilevata a luglio (-0,6%), ma che giustifica una certa apprensione. Se non si riuscirà presto a trasmettere stimoli concreti all’economia reale, se gli acquisti e la fiducia dei consumatori non daranno segni di ripresa, se non si spezzerà il legame tra banche e titoli del debito pubblico, se gli effetti degli strumenti non convenzionali di politica monetaria predisposti dalla Bce non riusciranno a raggiungere le imprese, si potrebbe profilare all’orizzonte lo spettro di una vera e propria spirale deflazione-recessione-disoccupazione. 

Cos’è in concreto la deflazione? Con il termine deflazione gli economisti definiscono il fenomeno, opposto all’inflazione, in cui si verifica, per un certo lasso di tempo, una riduzione dei prezzi. Non sempre la deflazione ha effetti negativi e, anzi, può avere anche effetti positivi, soprattutto per i consumatori che possono comprare beni e servizi a prezzi inferiori rispetto al passato. Questa ipotesi si inquadra, però in un contesto in cui i costi di produzione si riducono per effetto della diminuzione dei singoli fattori produttivi dovuta, ad esempio, all’avvento di nuove tecnologie ovvero ad un miglior funzionamento dei mercati divenuti più concorrenziali. Nello scenario attuale, invece, la causa della deflazione va ricercata, purtroppo, nella debolezza della domanda aggregata che ha provocato una riduzione della produzione e dell’occupazione. 

Quali sono le possibili conseguenze? Quando sul mercato si verifica una riduzione della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i prezzi scendono e gli operatori sono incentivati a posporre gli acquisti non indispensabili, con l’aspettativa di ulteriori cali  dei prezzi. Questo comportamento rischia di innescare una spirale negativa: le imprese, infatti, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori. Questa riduzione dei prezzi si ripercuote sui ricavi e sui profitti delle aziende, che reagiscono con il tentativo di abbatterei costi, attraverso la diminuzione degli ordini per l’acquisto di beni e servizi da altre imprese e la riduzione del costo del lavoro, con conseguenti tagli all’occupazione e ai salari. I lavoratori a loro volta si ritrovano in condizioni d’incertezza e tagliano gli acquisti, con la conseguenza di un ulteriore indebolimento della domanda, di una più marcata riduzione della produzione.

Cos’è la spirale deflazionistica e come si può spezzare? In sostanza la minore domanda delle famiglie, dovuta al momento di crisi, genera minore offerta delle imprese che reagiscono contraendo l’occupazione dei salari, per effetto di ciò si provoca una ulteriore riduzione di spesa da parte dei consumatori e così via. La via d’uscita da questo circolo vizioso passa dall’approntamento di opportune politiche economiche da parte dello Stato che riescano a riportare la fiducia nel futuro e i presupposti per lo sviluppo economico. La strada di una politica espansiva, basata sulla domanda generata dalla spesa pubblica e da molti considerata una strada obbligata e i vincoli di bilancio imposti dalla partecipazione all’euro, rischiano di rendere più tortuosa questa via. A questo proposito andrebbe considerata con più attenzione dalle autorità europee il ruolo della spesa pubblica, differenziando quella destinata a far crescere e progredire i vari paesi, rispetto a quella improduttiva e clientelare. Per questo è necessario dare segnali di autorevolezza e di serietà varando importanti riforme strutturali. 

Com’era l’economia italiana nel 1959? Nel 1959 in Italia era esploso il “boom”, si registrata una sorprendente crescita di efficienza e prosperità del potenziale produttivo. Dopo la fase della ricostruzione postbellica (1946-48) e il decennio di crescita del capitale (1948-58) gli italiani conoscevano il benessere e il consumismo, la forza delle esportazioni, lo sviluppo della piccola impresa, le emigrazioni dal sud al nord. Il tessuto industriale era ricco di nomi di potenti gruppi come: Fiat, Eni, Olivetti, Pirelli, Falck, Italsider, Snia, Montecatini, Edison, Borletti. Dal 1955 al 1958 il reddito nazionale era aumentato in media del 7,5 per cento all’anno, l’industria privata cresceva al ritmo del 6,8 per cento, i titoli di Stato rendevano attorno al 5,5 per cento. Il confronto con i giorni nostri è improponibile soprattutto in tema di consumi: nel quadriennio del miracolo, dal 1959 al 1963, le famiglie in possesso d’un frigorifero passarono dal 13 al 55 per cento, quelle provviste di apparecchi televisivi dal 12 al 49 per cento, nello stesso periodo si triplica il numero di automobili in circolazione: da 1.392.525 nel 1958 a 3.912. 597 nel 1963. La breve stagione della deflazione in quell’anno così lontano non preoccupò davvero nessuno.

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Ieri il Consiglio dei ministri ha dovuto registrare l’entrata dell’Italia nella deflazione, in senso tecnico, ovvero la caduta dei prezzi che dura da più di un anno. Molti analisti si ostinano a fare il verso alla Bce chiamando questo processo inflazione negativa, ma ogni cittadino che sa quanto costa un litro di latte e deve programmare il rientro dalle vacanze comprende ciò che sta dietro questo calo dei prezzi: la contrazione della produzione, per il calo dei profitti, e quindi dell’occupazione. Ed ecco la conferma nei dati della disoccupazione, che a luglio è risalita, dopo il lieve calo di maggio, al 12,6%. Un dato fortemente negativo se lo mettiamo a confronto con quello del novembre 2013, quando venne toccato il massimo storico con il 12,7%. Inoltre, non solo la disoccupazione si mantiene alta ma cala soprattutto la componente maschile dell’occupazione, mentre quella giovanile oscilla attorno al 43% con una stabilità che desta preoccupazione. Va pure sottolineato che la disoccupazione colpisce soprattutto i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e che gli unici aumenti sono nel part-time e nei lavori stagionali. Deperisce quindi la qualità degli occupati, ossia vengono espulsi i lavoratori anziani e altamente qualificati, non trovano lavoro i giovani altamente scolarizzati, aumentano i divari territoriali con alcune aree del Nord che addirittura registrano un calo della disoccupazione mentre nel Sud essa sta dilagando. Pensare che nell’oceano della disoccupazione ci sono isole che potrebbero essere abitate da lavoratori volonterosi che non si trovano, come gli operai specializzati, i fresatori, i manutentori, gli operatori cad-cam, eccetera.

Come risolvere il problema? Dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale si continuano a suonare le trombe delle riforme strutturali. La gente ha qualche speranza. Siamo infatti abituati a pensare che le riforme migliorino la situazione. Il punto è che tutte le riforme ventilate sono a mio avviso il contrario del cambiamento positivo, perché poggiano sul parametro dell’abbassamento del debito pubblico e quindi della riduzione della spesa tout-court, dell’aumento delle tasse e infine delle privatizzazioni che dovrebbero togliere qualche ditale d’acqua dall’oceano del debito. Il contrario, insomma, di ciò che richiederebbe un progetto di crescita. Intravedo perciò il pericolo che il premier Renzi perda di vista il suo compito originario, e che risponda a questi dati arretrando politicamente e non invece spingendosi a «cambiare verso». Ma è proprio questo cambiare verso di cui l’Italia e l’Europa avrebbero bisogno per contrastare tanto la deflazione quanto la disoccupazione, così intimamente legate. E oggi ne avremo la prova durante il Consiglio europeo. 

E’ una presidenza italiana che inizia in un contesto non proprio desiderabile, vista la precarietà dei rapporti interni e di quelli con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la disastrosa divisione avvenuta nel recente summit della Nato. Da un lato gli Usa, la Polonia e i Paesi Baltici che vogliono dare all’alleanza un tono sempre più spiccatamente antirusso, sfregiando così irreversibilmente non solo l’Europa ma il cuore del mondo che è nell’Eurasia; dall’altro lato Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e  Germania che non vogliono approfondire il divario con la Russia ma che però non sanno che pesci pigliare e perciò si muovono in ordine sparso. Su tutto ciò aleggia il dramma del crollo delle spese per la Difesa, che coinvolge tutta l’Europa perché anche qui l’austerity ha provocato danni che potrebbero riflettersi sugli stessi europei. Vale infatti ricordare che i “mozzateste” del autoproclamato califfato non sono al Polo Nord, ma a 50 chilometri da Pantelleria, a 200 chilometri da Malta, lungo il confine della Turchia. Insomma, sono dietro l’angolo. E forse anche dietro l’angolo di casa. 

Abbandonare l’ordoliberalismo che mitizza l’austerity è perciò un dovere non solo verso la deflazione e la disoccupazione, ma anche per rispetto alle vite stesse degli occidentali, sempre più in pericolo. Renzi dovrebbe rileggersi i discorsi di Winston Churchill, quando sferzava un’aristocrazia inglese che voleva venire a patti con la Germania nazista. Da grande statista, giunse addirittura a fare abdicare un re, a travolgere il pacifismo dei laburisti, a suscitare l’energia creatrice di un’isola che era consapevole di dover continuare a governare il mondo, difendendo l’Occidente. Se avesse dato ascolto al Cancelliere dello Scacchiere, scacciato sdegnosamente, l’equilibrio dei conti non gli avrebbe consentito quelle alzate d’ingegno. A questo Churchill pensavo recentemente, quando uno studente mi ha chiesto se Renzi abbia o meno la caratura da statista. Gli ho risposto che statisti non si nasce, si diventa. Per Renzi è giunto il momento di diventarlo, perché solo a chi ha questa ambizione vengono concesse le mediazioni e i grandi compromessi. Si cerchino tutte le alleanze possibili, ma si ricordi che solo smontando dall’interno e lavorando per eliminare gli sprechi, le rendite parassitarie, il clientelismo, i mille corporativismi, si può rimettere in moto la macchina della crescita, in Italia e in Europa. E per farlo occorre cambiare musica, il che vuol dire che occorre cambiare i trombettieri. Così non si salverà soltanto l’Italia e l’Europa, ma si porranno anche le basi per salvare l’Occidente.

Privatizzazioni col trucco

Privatizzazioni col trucco

Davide Giacalone – Libero

Parte malissimo, se riparte da Eni ed Enel, il programma governativo delle privatizzazioni. Parte malissimo perché parte con un falso: quelle non sono privatizzazioni, ma vendite. In quelle due società la mano pubblica ancora ha il controllo, con quote che si aggirano sul 30%, il resto è già in portafogli privati che agiscono in Borsa. Quindi nessuna privatizzazione, nessuna apertura di mercato, nessuna sollecitazione alla competizione. Solo e soltanto una vendita. Ed è questa la ragione per cui ancora spero che non abbiano la faccia tosta di spacciare questa operazione per quello che non è, debuttando nel peggiore dei modi.

Vendere un ulteriore 5% di Eni ed Enel dovrebbe portare nelle casse dello Stato una cifra nell’intorno di 5 miliardi. La metà di quanto previsto, per l’anno in corso, da operazioni di questo tipo o da vere e proprie privatizzazioni. Ed è anche il valore dell’operazione a destare i peggiori sospetti: come verranno impiegati i proventi della vendita? E’ un punto fondamentale, perché va benissimo alienare patrimonio per ridurre e possibilmente abbattere il debito, mentre non va affatto bene usarli per compensare il deficit, che, detto in modo diverso, significa usarli per non dovere fare altri debiti. Sono due cose opposte: la prima può non essere esaltante, ma è virtuosa, perché si prende quel che è di tutti e lo si usa per alleggerire tutti dal debito pubblico; la seconda e viziosa, perché si vende quel che è di tutti al fine di finanziare la spesa che porta benefici solo ad alcuni.

Né ci saranno benefici di mercato, visto che si modificano le leggi sul controllo delle società quotate in modo da assicurarne il dominio a chi non ha più i soldi per poterlo acquistare o detenere. Attribuendo il voto plurimo a chi detiene da più tempo le azioni lo Stato legislatore assegna un valore superiore allo Stato azionista, sicché questo modo di procedere è l’opposto di quel che caratterizzerebbe delle vere privatizzazioni. Senza contare che nel caso di Eni ed Enel ci sono paletti statutari che escludono la perdita di controllo. Immorale della favola: attenzione, perché così ci si ritrova meno ricchi, sempre pazzescamente indebitati e con lo Stato che continua ad amministrare il feudo.

Queste non sono privatizzazioni, né basterebbe lo fossero per considerarle automaticamente buone. Si guardi a RaiWay, la società pubblica degli impianti Rai: vogliono quotarla, quindi privatizzarla, al solo scopo di avere i soldi per coprire i buchi che la Rai continua a fare, il tutto mantenendo ampiamente il controllo statale della società. Soldi presi al mercato per poi buttarli nella fornace clientelare, lasciando che nel mercato agiscano strutture da socialismo non reale, ma letale.

O si guardi al collettivismo municipale, che come tutti i collettivismi genera privilegi per una ristretta minoranza di buropolitici: anziché accorpare e vendere si pensa di quotare sempre di più, allargando lo zoo di animali misti, nei quali la parte municipale domina e quella di mercato soccombe a logiche che la avvelenano.

Privatizzazione, invece, sarebbe la vendita di Poste Italiane, perché totalmente in mano pubblica. Come lo sarebbe quella della Rai. La prima è in programma, alla seconda non pensano proprio, per continuare a sognare verdi pascoli. Solo che quando metti mano alla privatizzazione di Poste scopri che non puoi quotare società il cui bilancio ancora si compone di aiuti pubblici e sovvenzioni di servizi altrimenti in perdita. Perché privatizzare non significa consentire a privati di fare i soci di minoranza (o senza poteri) dello Stato, ma far scemare la presenza dello Stato nel mercato, rendendolo più libero e più aperto alla concorrenza, nonché coerente con le regole della competizione fra eguali. Significa cambiare le società, non solo la composizione della proprietà. Scopri, allora, l’evidente: non puoi portare nel mercato un dinosauro dello statalismo. Allora si deve cambiarlo, il che, però, fatalmente allontana la privatizzazione.

Poco male, in condizioni normali: ci vorrà più tempo, ma ne verrà fuori un risultato migliore. Non siamo, però, in condizioni normali. Abbiamo confermato che chiuderemo il bilancio senza venir meno agli impegni presi, ma i tagli alla spesa non ci sono. Semmai ci sono i suoi aumenti. Ecco, allora, che per far quadrare i conti si vende. Travestendo, per giunta, la vendita da privatizzazione. Spero che al ministero dell’Economia prevalga la serietà e il rispetto di sé, non prestandosi a raggiri che umiliano. Senza neanche risolvere i problemi.

Quattro mosse per una politica industriale

Quattro mosse per una politica industriale

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Il tormentone d’agosto su stime di crescita infinitesime – + 0,10 -0,1 per cento di Prodotto interno lordo? – , in un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del reddito nazionale, può andare bene per un tweet, ma non è una cosa seria. A meno che non si voglia ragionare di politica industriale. Ma parlare di industria in Italia è al tempo stesso una necessità e un paradosso. Una necessità, perché la nostra economia trova ancora nella manifattura la sua principale ragion d’essere, non essendo stata in grado di competere sui piani della finanza e dei servizi a elevato valore aggiunto. Un paradosso, perché continuiamo ad inseguire un campionato già perso, invece di prepararci a una competizione completamente nuova. 

La politica industriale è il frutto della collaborazione tra istituzioni e grandi imprese capaci di influenzare standard di produzione e concorrenza internazionale. È sempre stato così. La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli Anni 60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco. 

Cos’è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato – si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni – , ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo e il declino strutturali della manifattura italiana. Ed ecco il paradosso: il ritardo non è, di fatto, colmabile. La politica industriale non può più dare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio, e le grandi imprese italiane che (forse) potrebbero ancora farcela sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale. Il tempo è andato, gli asset adeguati pure.

Tutto perduto dunque? Niente affatto. Ma ci vuole il coraggio di fare quattro cose. Non sono molte, ma vanno fatte bene, con convinzione e continuità. La prima. Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo: che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte. La seconda: definire il livello desiderato di competizione per i settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna. La terza: puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo – e facendo investire le imprese – massicciamente negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in italia: l’Istituto italiano di tecnologia, i Politecnici, la Normale di Pisa… La quarta: spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando le leve fiscali disponibili (c’è l’imbarazzo della scelta!) tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solo con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane riusciranno a diventare «strumenti attivi» di politica industriale, con obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Bisogna, infine, avere il coraggio di costruire una politica industriale nazionale. Non possiamo attenderci nulla dall’Europa, la struttura delle cui imprese viene organizzata dai «grandi gruppi dei vari Paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi», come metteva in guardia Marcello De Cecco già nel 1988… Loro lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno. Noi no. Non nascondiamoci in modo ipocrita dietro il concetto – pericolosissimo per l’Italia – della politica industriale europea. Difendiamo ciò che abbiamo, d’accordo, ma smettiamo di inseguire i decimali e prepariamo il futuro: se investiremo su uno sviluppo di medio periodo solido e sostenibile pagheremo il debito con i nostri nonni e i nostri nipoti ci ringrazieranno.

La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati. 

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

I tanti annunci gelano la fiducia

I tanti annunci gelano la fiducia

Federico Fubini – La Repubblica

Viviamo in tempi di deflazione del denaro e inflazione di parole. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno ormai la classe politica parli di “riforme” o di “fiducia”. L’unica certezza è che l’inflazione è quel fenomeno per il quale l’abbondanza crescente di una certa materia prima ne deprime il valore. L’impero spagnolo distrusse il prezzo dell’argento nel sedicesimo secolo per gli eccessi con cui lo importava dal Perù. Il governo di Matteo Renzi rischia di trovare la sua sindrome dell’argento peruviano nella serie di annunci ai quali non sempre, non in modo univoco, seguono poi i fatti. Il bilancio di questo mese d’agosto permette di far sorgere qualche sospetto che il pericolo esista realmente.

Proviamo a riassumere. Al Consiglio dei ministri dei primi del mese sarebbe dovuta passare la riforma dei Beni culturali di Franceschini. Poi è slittata. Ora tutto sarebbe pronto, ma a quanto pare non sarà varata neppure dal vertice di domani a causa dell’ ingorgo di altri procedimenti. Eppure neanche misure più in alto nell’agenda del Consiglio dei ministri odierno stanno avendo vita facile. Per dirne una, solo sei giorni fa il premier aveva annunciato che oggi sarebbe toccato alla scuola: «Il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva », scadenza poi confermata in un tweet di giovedì. Del resto il governo non smentiva, anzi avvalorava, il progetto di stabilizzare circa 100 mila precari dell’istruzione con le misure in arrivo.

Poi però anche qui contrordine: slitta tutto, sempre per colpa dell’ ingorgo . A crearlo sono altri due provvedimenti. C’è il decreto Sblocca-Italia, del quale ancora ieri sera a nessuno era chiaro il profilo date le vaste divergenze fra Padoan (Economia) e Lupi (Trasporti) sui fondi da spendere. E c’è la riforma della giustizia, dove però molto verrà affidato a una delega al governo, cioè anche qui a scelte da compiere poi più in là nel tempo.

La lista di questo agosto di inflazione verbale potrebbe continuare. Alternativamente gli italiani hanno scoperto che sarebbero state tagliate le pensioni più alte, poi che non sarebbero state toccate. Che sarebbero stati congelati gli stipendi del pubblico impiego, poi che ciò era fuori questione. Che andava abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello offre le tutele maggiori d’Europa contro il licenziamento di chi ha un contratto permanente), poi che l’articolo 18 non andava toccato, infine che non serve parlarne, perché presto cambieranno tutte le norme sul lavoro.

Questo resta un governo di coalizione, espresso da uno dei parlamenti più frammentati della storia repubblicana. Nemmeno per un leader determinato come Matteo Renzi è facile controllare le spinte centrifughe dei suoi ministri e dei partiti di maggioranza. Ancora meno lo è adesso, con l’economia mai davvero uscita da un’unica grande depressione iniziata alla fine del 2008. Più è impellente l’urgenza di fare qualcosa di risolutivo, più diventa chiaro che non esistono né scorciatoie né bacchette magiche. Si può solo lavorare in Italia e con il resto d’Europa per individuare le priorità e affrontarle passo dopo passo.

Anche per questo però la corsa all’argento peruviano che si è scatenata – la ridda di annunci, le continue invocazioni della “fiducia” – non fanno che produrre conseguenze opposte. Nessuno assume, investe nella propria azienda o compra un elettrodomestico a rate se non sa cosa lo aspetta e se i messaggi che riceve sono caotici e contraddittori. Non può essere solo sfortuna se in agosto la fiducia delle imprese in Italia è scesa più che in qualunque altro Paese dell’area euro.

Forse è il caso di ispirarsi alla Spagna di oggi, quella che ha affrontato molte riforme senza parole a vuoto e ora cresce al ritmo del 2% annuo. Non a quella di cinque secoli fa.

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In che misura può l’investimento pubblico (e privato) in programmi a lungo termine aiutare l’Europa – e in particolare l’eurozona – a uscire da una recessione che dura quattro anni? Cosa possano fare le Banche di sviluppo per facilitare questo compito? Tutti gli Stati dell’area dell’euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle pubbliche amministrazione a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare programmi ben definiti che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% della forza di lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi. È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei.
In Europa non manca liquidità, specialmente presso le famiglie, e il desiderio di impiegarla in collocamenti che non diano necessariamente rendimenti mirabolanti (numerose dita si sono scottate con le varie «bolle»), ma consentano di staccare cedole sicure, dormendo tra due guanciali. Ciò non vuole dire che la Bei debba diventare l’unico finanziatore di investimenti a lungo termine – compito immane che le sue strutture farebbero fatica a reggere.
Tuttavia, al mondo sono state censite circa 300 banche di sviluppo, in gran parte istituite negli ultimi cinquant’anni sulla scia del successo delle istituzioni di Bretton Woods (in particolare della Banca mondiale). I «puristi» ritengono cheVnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la prima istituzione a potersi fregiare del titolo di «banca di sviluppo» .In Europa, oltre a banche di sviluppo regionali come la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), esistono numerose banche di sviluppo nazionali di qualità. Le principali – ad esempio la Caisse des Dépôts et Consignation, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la German Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesca, per citare le più note – hanno costituito nel 2009 un «club» di investitori a lungo termine non solo per forgiare strategie in comune, ma sopratutto per operare su alcuni fondi d’investimento a lungo termine ben definiti.
Da poco più di un mese il club è presieduto dalla Cassa Depositi e Prestiti, e quindi dal suo presidente Franco Bassanini. Gli strumenti non mancano. Occorre chiedersi se in questi anni difficili non sia stata ridotto, oltre al finanziamento all’investimento di lungo periodo, anche la progettazione. In molti Paesi – tra i quali l’Italia – sono stati costituiti fondi specifici per la progettazione (elaborazione di schemi progettuali, di progetti definitivi con computi metrici, documenti di gara). Sono stati utilizzati al meglio?