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Renzi non si accodi a Hollande

Renzi non si accodi a Hollande

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Renzi sembra quella di accodarsi alla Francia nel chiedere flessibilità per il bilancio 2015 e seguenti. Una tentazione diabolica per un cattolico praticante (sempre Renzi) che si batte il petto tutte le domeniche. È come recarsi alle corse dei cavalli e puntare sul perdente. Una follia. Quando è cominciata l’avventura presidenziale di Renzi, l’abbiamo scritto con insistenza: era necessario creare un fronte dei paesi per i quali necessitano misure speciali di sostegno, in modo che la Merkel e l’Europa fossero costretti a trattare. Invece no. A Bruxelles il nostro «boy-scout» s’è pavoneggiato di un’intesa, tutta da verificare, con la cancelliera tedesca e ha inciso come può incidere un piccolo moscerino sulla pelle di un cavallo da tiro.

Quando s’è trattato di discutere gli incarichi nella Commissione si è autolimitato designando l’inesistente Mogherini che, in quanto tale, è stata accettata dopo qualche piccolo mal di pancia. Se Moscovici, commissario francese agli affari economici, mette le mani avanti evocando le difficoltà che incontrerà sul dossier francese, figuriamoci la nostra commissaria (alta) alla politica estera e di sicurezza. Dobbiamo confessare che, leggendo i triboli della Francia, abbiamo pensato ai risolini a proposito dell’Italia (dell’Italia, non di Berlusconi) del duo Sarkozy-Merkel in una famosa conferenza stampa e non ci siamo dispiaciuti delle difficoltà transalpine.

Si tratta di «mal italiano», cioè dell’assenza delle riforme liberamente convenute in sede europea con l’approvazione del «Fiscal compact» e delle conseguenti direttive. La cura francese aggraverà la malattia, visto che si pensa di combattere la recessione con deficit ben al di fuori del 3% tabellare. Ecco, l’inesperienza e la supponenza potrebbero condurre Matteo Renzi sulla strada del disastro. Il sistema di dichiarare «fatte» le riforme approvate, anche in semplice cartellina, dal consiglio dei ministri è ormai al capolinea.

La legge di stabilità metterà una parola definitiva, almeno per il 2015, alle evoluzioni verbali del nostro «premier»: certo, nell’attuale situazione, sarà difficile che l’Unione nomini tre commissari (la Troika) per governare il risanamento delle finanze pubbliche italiane e per aggredire il debito pubblico. La soluzione che sembra consolidarsi nei corridoi di Palazzo Berlaymont (sede dell’Ue), in vista dell’insediamento della nuova commissione, consiste in un cronoprogramma vincolante di riforme (definite nei loro contenuti minimi, in modo che il teatrino dell’art. 18 non possa più ripetersi). Rispetto a esso, il governo e il Parlamento italiani hanno solo il compito di procedere con rapidità effettiva, trasformando in modo sostanziale la struttura socio-economica della Nazione. Il mercato «tout-court», cioè la concorrenza vera, le strutture pubbliche, protette e deficitarie, il welfare, la sanità, l’idrovora regioni. Insomma un’azione seria condotta a tamburo battente, pena, appunto, il ricorso ai commissari.

Saranno capaci questo governo e questo Parlamento di affrontare e vincere la sfida? C’è da dubitarne, visto il livello e, soprattutto, i condizionamenti di un passato che non ci si decide a seppellire. La verità vera è che, comunque, fra breve il passo cambierà. Resta da capire chi sarà protagonista del cambiamento, dato che le cicale politiche italiane risultano, sin qui, incapaci di trasformarsi in formiche.

La cosa giusta che non facciamo

La cosa giusta che non facciamo

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La tragedia era annunciata ma nonostante in molti l’avessimo vista arrivare, il treno è andato dritto contro il muro. La Francia ha dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3% fino al 2017, l’Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all’obiettivo dell’inflazione al 2% a cui è vincolata dal suo mandato.

La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Come in un film al rallentatore, tra accuse reciproche, in un gioco in cui l’attribuzione della responsabilità della crisi è sempre e regolarmente dell’«altro», si è finiti sull’orlo di un suicidio collettivo. Le voci sono ormai cacofoniche, si ha l’impressione che manchi il direttore di orchestra. La Bce bacchetta i governi del Sud e del Nord: i primi per le mancate riforme, i secondi, in particolare la Germania, perché non si fanno motore di una ripresa della domanda attraverso un’espansione di bilancio. I governi francese e italiano si lamentano di un rallentamento inaspettato (inaspettato?) dell’economia.

I tedeschi accusano i Paesi che non hanno seguito la via del rigore e delle riforme di non rispettare i patti. Ma, per una ragione o per l’altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola. Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell’Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un’economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.

I vincoli politici per seguire questo percorso ci sono e sono comprensibili. Il tema posto dai tedeschi sulla necessità di darsi istituzioni in cui gli interessi dei creditori siano protetti e dove non si creino incentivi per i debitori ad allentare i vincoli di bilancio nei tempi buoni, è un tema chiave e non può che rimanere centrale in una Unione monetaria senza integrazione delle politiche di bilancio. Il nostro Paese in particolare manca, per buone ragioni, di credibilità. Il Trattato e il patto di Stabilità sono stati costruiti in modo da rispondere a questa esigenza. Ora però, nella loro interpretazione più conservatrice, impediscono all’Unione nel suo insieme di fare la cosa giusta. I trattati non si cambiano in cinque minuti e sono il frutto di un compromesso faticoso, ma, o all’interno delle vecchie regole o dandosene delle nuove, dobbiamo uscire dall’eccezionalità di un’Unione in cui la politica della banca centrale è limitata da vincoli dettati da interpretazioni di parte del Trattato. E questo mentre l’approccio alle politiche di bilancio è sordo alla congiuntura economica e si basa su regole eccessivamente punitive e quindi poco credibili. È il legame tra l’eccessivo rigore dei vincoli e la loro mancanza di plausibilità a renderci, tutti, inadempienti.

Famolo à la francese

Famolo à la francese

Davide Giacalone – Libero

Famolo à la francese. È il ruggito che s’ode per ogni dove, da destra a sinistra, in un’Italia generosamente pronta a farsi del male con le proprie mani. L’annuncio governativo che conferma il perdurante sfondamento del deficit è, per i francesi, un segno di resa non di attacco, una sconfitta non un’orgogliosa impennata. Tagliano la spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni e quella continua a crescergli. Un film dell’orrore.

I francesi divorziano dalla dottrina del rigore e spezzano l’asse con i tedeschi? Scordatevelo. Pierre Moscovici, ex ministro delle finanze francesi e ora commissario europeo, ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione, a carico del suo Paese (e non poteva fare diversamente), ma ha anche detto che per tutta la durata del mandato non si parlerà di eurobond. È questo è inaccettabile, oltre che la conferma del lato oscuro dell’asse Berlino-Parigi. La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. È un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia.

Ciò avviene nel mentre le scelte della Banca centrale europea ottengono la discesa del valore dell’euro. A lungo reclamata e oggi non declamata. È la seconda volta che la Bce coglie nel segno, avendo già operato con successo per la discesa dei tassi d’interesse e la riduzione della voragine spread. Il fatto è che la Bce non può fare il resto, non può sostituirsi ai governi, non può e non deve usurpare la politica. È alla politica che spetta il compito di piantarla di vivere l’euro e l’Unione europea come vincoli, decidendosi a trasferirvi maggiore sovranità, quindi più politica e più democrazia. Avvertendone, altrimenti, l’insostenibilità. Se si praticasse seriamente la prima opzione (più saggia e promettente), si tratterebbe non di chiedere deroghe sui conti, non di avere spazi per far continuare una politica depressiva di sottrazione di ricchezza alla produzione e al consumo, per consegnarla alla fornace della spesa corrente improduttiva, ma di rifare i conti e rivalutare i pesi di ciascuno. Noi italiani siamo un pessimo esempio di gestione del debito pubblico, ma un buon esempio di debito aggregato (pubblico + privato) in relazione al patrimonio. Il nostro debito pubblico, così com’è, ci affonda. Il nostro debito aggregato è fra i meglio sostenibili, ben più di quello francese. Questo è far politica, questo è portare la politica nelle sedi decisionali, anche per evitare che il ragionierismo conceda ad altri vantaggi indebiti.

Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente. Certo che non bisogna rassegnarsi all’ottusa politica del rigore, ma questo deve significare grande rigore nelle politiche nazionali di bilancio e spinta allo sviluppo nelle politiche europee. Certo che non ci si deve piegare all’egemonismo teutonico, ma i tedeschi vanno battuti non strappando il non rispetto dei parametri (quindi suicidandosi), bensì nella federalizzazione della spesa per investimenti e del debito. Quella è la condizione cui subordinare la vita dell’euro, non l’opposto, ovvero la possibilità di allargare ciascuno i propri debiti, perché questo consegna tutto il potere ai tedeschi: senza la loro copertura e senza l’euro la Francia, che ha il 54% del debito pubblico collocato all’estero (noi circa il 40), si ritroverebbe massacrata dagli interessi passivi.

C’è anche evidenza empirica: nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro. Ogni volta che sento dire o leggo: “diciamolo all’Europa”, “ce lo impone l’Europa”, “lo abbiamo promesso all’Europa”, capisco che chi usa quel linguaggio non è cittadino europeo, ma subisce il vincolo di un regno ove è suddito. Supporre che i conti francesi portino forza all’ulteriormente scassare quelli italiani significa ancora di più: avere vocazione alla sudditanza.

L’ultimo salvagente rimasto

L’ultimo salvagente rimasto

Giuseppe De Bellis – Il Giornale

Basta, ha detto ieri la Francia. A se stessa, alla Germania, all’Europa. Basta con l’ossessione del rigore. Il governo di Parigi ha annunciato che sforerà ancora il rapporto deficit-Pil, quello che per i trattati europei deve essere massimo al 3%, una percentuale che per noi è diventata un incubo fatto di manovre su manovre, ovvero tasse su tasse. Ecco, la Francia quest’ anno chiuderà al 4,4% e ha rimandato il rientro sotto la soglia al 2017.

È la rottura di un argine che ha tenuto finora, di un fronte rigorista che praticamente tutti (tranne l’Italia di Berlusconi e in parte quella di Renzi) in Europa non avevano il coraggio di contrastare. Lo fa la Francia, che per anni ha fatto da spalla alla Germania della Merkel: ve lo ricordate l’asse franco-tedesco? Parigi ha cambiato idea da un po’ sotto la spinta della crisi e del conseguente calo di popolarità del presidente Hollande, arrivato oggi a un imbarazzante 13%. E sarà di sicuro questa la principale motivazione che spinge la Francia, ma resta il fatto che Parigi ieri ha lanciato una carica di dinamite sull’Europa: un governo tassatore che dice «noi non chiederemo più un solo sforzo ai francesi». La Germania ha reagito all’istante, la Merkel ha minacciosamente detto: «I Paesi facciano i loro compiti». Sprezzante, nervosa, irritata. Non se l’aspettava. Ce l’aspettavamo noi, invece, e da tempo, quando speravamo che il grido di dolore dei Paesi arrivasse dall’ltalia ma né Monti, né Letta si sono sognati di dire quel «basta». Di che cosa avevano paura? E di che cosa dovrebbe avere paura oggi Hollande? Delle dichiarazioni da maestrina della Merkel? Che può accadere? Commissarieranno la Francia? Sarebbe la fine dell’Europa.

Il potere contrattuale è direttamente proporzionale al coraggio. Renzi aveva cominciato le sue trattative con Bruxelles e Berlino, poi s’è fermato. Hollande l’ha superato, forse per disperazione. Ma l’ha fatto. Ci si può aggregare, distruggendo prima le resistenze di sindacati e mezzo Pd: la riforma del lavoro subito per muovere il Paese e dire all’Europa: «Adesso basta anche per noi». È paradossale che Parigi, cioè il governo più di sinistra d’Europa, faccia la cosa più liberale d’Europa: smettere di chiedere ai cittadini di salvare lo Stato. Dev’essere lo Stato a salvare i cittadini. I propri, prima che quelli europei. Forse vale la pena di salvare gli italiani.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Merkel che dice “dovete fare i compiti” ai paesi europei che non riescono a rispettare il fatidico “3 per cento” sembra la parodia del compagno di scuola secchione che si vanta della propria pagella e la fa pesare agli altri. Ecco qualcosa decisamente “di destra”, non tenere conto delle difficoltà altrui, voler punire la debolezza piuttosto che capirla e soccorrerla; ed ecco qualcosa decisamente “di sinistra”, dire ai primi della classe che il loro alto rendimento non può valere come parametro universale. Semmai, e non sempre, può essere di esempio, a patto che non diventi un’ossessione.

Si capisce che Merkel conosca poco e ami pochissimo l’illustre connazionale Karl Marx, anche grazie all’uso sciagurato e criminale che ne ha fatto la Ddr. Ma il celebre assunto espresso nel finale del Manifesto, “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni’, oltre a essere il nobile succo del pensiero socialista, è anche una utile, pragmatica indicazione per ogni comunità umana, compresa quella europea. Non tutti sono in grado di rendere al meglio (pensarlo sarebbe, questa sì, pura utopia), ma tutti hanno bisogno di sentirsi ugualmente dignitosi e rispettati. Se 1’Europa avesse tenuto presente, insieme ai suoi pedanti numeretti, anche questo principio di umanità e di realismo, oggi staremmo tutti un po’ meno peggio. Essendo, anche, tutti un po’ meno di destra.

Ora la partita si sposta a Roma

Ora la partita si sposta a Roma

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Si sapeva che la partita decisiva sulle sorti economiche e politiche dell’area euro si sarebbe dovuta giocare tra Francia e Germania e il momento è arrivato. Di questa partita l’Italia è molto più di uno spettatore interessato. Da dieci anni, da quando entrambi violarono le regole fiscali, i due maggiori paesi europei hanno visto divergere le loro economie e ciò ha reso difficile la gestione della politica economica europea. Diverse politiche di bilancio, austere in Germania e dispersive in Francia, hanno reso problematico un impegno comune nonché un coordinamento con la politica monetaria. Da un anno e mezzo è cresciuta anche la divergenza politica. Sarkozy aveva nascosto la divergenza accettando un ruolo pubblico ancillare alla cancelliera tedesca; Hollande ha fatto della critica alla Germania un elemento di identità politica.

La divaricazione tra Parigi e Berlino minaccia la tenuta della costruzione europea, come dimostra l’imbarazzo in cui è calato il processo di nomina dei nuovi commissari, in un’inedita architettura che vede il socialista francese Moscovici costretto a prendere decisioni sulla politica di bilancio dei paesi euro solo col gradimento di un altro commissario, il vicepresidente Valdis Dombrowskis, un lettone considerato un severo alfiere del rigore. Le elezioni europee avevano già squilibrato il baricentro europeo a svantaggio di Parigi. Ora le vicende attorno alla Commissione Ue dimostrano che il confronto avviene in un momento in cui la Francia è politicamente molto più debole.

Annunciando obiettivi di bilancio in violazione degli accordi, Parigi ha alzato il costo politico dello scontro anche per Berlino. Il problema è che sul breve termine Parigi ha ragione, l’economia europea si è fermata e soffre di un grave vuoto di politiche di sostegno alla domanda, ma sul lungo termine le ragioni di Berlino sono più forti. Nessuno vede in questo momento la possibilità di riconciliare due ragioni che si contraddicono in assenza di un’adeguata sintesi politica.

La partita sul breve termine si gioca sugli obiettivi di bilancio dei prossimi anni. Il ministro delle Finanze tedesco Schäuble ha presentato un piano di bilancio che azzera il deficit nel 2015 e fino al 2018, non escludendo un surplus. Prevedendo la crescita all’1,5%, sopra il livello potenziale, Berlino non fa altro che rispettare il Patto di stabilità. La sfida francese è giunta con l’annuncio del ministro Sapin che il disavanzo salirà al 4,4% e non scenderà sotto il 3% fino al 2017. Parigi aveva già mancato l’obiettivo del 3% nonostante una duplice estensione dei termini concessa dalla Commissione. Sapin ritiene che la debolezza dell’economia giustifichi l’allentamento della politica di bilancio. A livello aggregato dell’euro-area, Parigi ha certamente ragione, la debolezza viene sottovalutata da Berlino, ma qui purtroppo di aggregato c’è ben poco.

Se i due paesi avessero presentato le due manovre insieme, come se appartenessero a un bilancio comune, l’effetto netto sarebbe stato positivo e credibile. Un disavanzo sopra il 2% in Francia-Germania sarebbe stato un segnale accettabile per l’euro area. Ma anziché accordarsi, i due governi hanno fatto il contrario. Schäuble ha escluso violentemente che Berlino possa corrispondere alle invocazioni dei partner europei, dell’Fmi e della Bce in favore di una politica espansiva che dimostri che anche Berlino fa la sua parte nel coprire il vuoto di domanda di cui soffre l’euro area. Sapin da parte sua ha tolto credibilità al coordinamento delle politiche di bilancio annunciando una violazione unilaterale dei patti. Sarebbe bastata un po’ di cooperazione politica per ribaltare questo pasticcio che erode le fondamenta dell’euro-area, e rappresentarlo come un successo.

La ragione per cui ciò non avviene è che divergono le visioni di fondo. In questo caso Berlino ha uno straboccante arsenale di motivi per sentirsi nel giusto. Il tasso di crescita dei due paesi dall’inizio dell’euro è stato simile, ma a differenza della Germania, la Francia non ha saputo agganciarsi all’economia globale: ogni anno il saldo commerciale aggiunge lo 0,6% al Pil tedesco, ma sottrae lo 0,2% a quello francese. La crescita francese dipende per l’1,7% dalla domanda interna, (0,8% per la Germania), quindi da consumi, salari e trasferimenti spesso a carico dello Stato. Così si spiega la divergenza sia nei costi del lavoro sia nel debito pubblico che in Francia tende a crescere senza sosta. Schiacciate da costi e tasse, le imprese francesi hanno dovuto aumentare la leva finanziaria per fare investimenti e rimanere profittevoli, ma il risultato è altro debito e una disoccupazione doppia rispetto a quella tedesca. Senza l’allineamento ai tassi tedeschi, lo Stato e le imprese francesi non sopravviverebbero. Questo rende le politiche della Bce l’ultima istanza per tenere insieme l’intera euro area a costo di surrogare la mancanza di intesa politica.

La scelta dell’Italia deve tener conto del cattivo equilibrio tra Parigi e Berlino. Sul breve termine sta prevalendo la tentazione di inseguire la Francia con il rinvio degli impegni di bilancio, ma sul lungo è ancora da dimostrare che ci stiamo allineando alla posizione tedesca. In assenza di intese tra Francia e Germania, grava interamente sull’Italia l’onere di dimostrare che si può intervenire mediante riforme strutturali a tutto campo e con un orizzonte temporale adeguato a sostenere gli investimenti.

Se la crisi fa tremare l’Unione

Se la crisi fa tremare l’Unione

Stefano Lepri – La Stampa

Il «Fiscal Compact» vacilla. Quell’insieme di regole di bilancio molto severe che aiutò (ma non bastò da solo, ci volle Mario Draghi) a uscire dalla crisi dell’euro tre anni fa non è più adeguato oggi, nel seguito di una grande crisi che continua a sorprendere. Se tutti i Paesi lo rispettassero alla lettera, l’Europa si addentrerebbe in una recessione senza fine. Purtroppo quando si incrina una regola, senza che ne sia pronta una nuova, il rischio del caos è grave. In mancanza della fiducia creata da una comune disciplina, contrasti disordinati tra Paesi possono condurre a esiti perfino peggiori. Nell’ipotesi più probabile, un compromesso poco trasparente lascerà strascichi di rancore. La Francia quelle regole non le ha mai seguite; l’annuncio che le infrangerà per la terza volta può darsi non aiuti l’Italia, poiché i casi dei due Paesi sono molto diversi. L’obbligo principale, quello del 3% di deficit, il nostro governo promette di rispettarlo. Ma la relazione presentata ieri al Parlamento spiega che fare onore agli altri due, deficit strutturale e debito, avrebbe effetti disastrosi.

Ormai le carte sono in tavola. Varie sono le colpe. L’Italia ha migliorato i suoi bilanci, ma è rimasta inefficiente. Il presidente francese è riuscito nel capolavoro alla rovescia di giocarsi il consenso pur non avendo cambiato quasi nulla; giura che manterrà la settimana di 35 ore, unica al mondo. Se pur con questi torti ora Roma e Parigi riescono a vantare ragioni, la responsabilità è della Germania.

Non sarebbe stato possibile sfidare il «Fiscal Compact» se l’economia dell’Europa non si fosse bloccata in un ristagno che minaccia di trasformarsi in ricaduta. Tutte le misure utili a una ripresa sono state o sono ostacolate da Berlino: ora un piano di investimenti collettivo, prima una unione bancaria più completa, prima ancora una ricapitalizzazione delle banche. Così pure la Bundesbank ha cercato di bloccare o ritardare tutte le misure monetarie espansive della Banca centrale europea. Lo farà anche contro le novità all’ordine del giorno oggi nel consiglio direttivo della Bce riunito a Napoli. E solo fino a un certo punto c’è una logica di interesse economico, tanto meno di dominio. C’è piuttosto un fenomeno culturale di conformismo misto a senso di superiorità nazionale e a paura del nuovo, nell’ossessivo ripetere agli altri Paesi «dovete fare come abbiamo fatto noi». Ma non è più possibile – ammesso e non concesso che lo fosse prima, per tanti Paesi insieme – uscire dalla crisi esportando, ora che la Cina ed altri emergenti rallentano. L’Italia, la Francia, devono sì diventare più competitive, ma non basta. C’è una crisi epocale in cui alcuni Paesi hanno troppi disoccupati e altri hanno capitali in eccesso: se non riescono ancora a incontrarsi, occorre che le autorità pubbliche sperimentino mosse nuove. Ovvero tutto ciò che la dottrina in voga in Germania, mese dopo mese smentita dai fatti, considera azzardi.

Si apre ora in Europa una partita complicata, dove sarà ancora più necessaria l’efficacia dell’azione di governo interna. Ancora non è chiaro, ad esempio, se la teatrale resa dei conti all’interno del Pd sulla questione del lavoro si tradurrà in novità vere o no; fermo restando che l’obiettivo dev’essere tirar fuori i giovani dal precariato facendo funzionare il contratto di inserimento. Il pericolo di una nuova crisi dell’euro è politico, non finanziario. O si smuove qualcosa nelle politiche nazionali – Angela Merkel dovrà imparare ad avere nemici a destra cosi come Matteo Renzi li ha a sinistra, Renzi dovrà impegnarsi a realizzare – oppure finiremo per contrapporci tra nazioni, ognuno a dare la colpa agli altri.

La lezione francese da seguire

La lezione francese da seguire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Evviva la Francia! Lo spread e i mercati vogliono affamarla? Parigi se ne frega. L’austerità è nemica del progresso, del sacrosanto diritto dei cittadini di vivere dignitosamente e di godere dei benefici che un intero popolo si è conquistati con sacrifici, con il lavoro e con il sangue versato per costruire un’Europa libera dai totalitarismi. Compreso quello dei mercati finanziari. La Francia dunque non si piegherà alle politiche di rigore – ormai chiaramente fallimentari e recessive – imposte da Berlino. E fa bene, perché nell’attuale crisi proprio la Germania e i vincoli imposti alla politica monetaria della Bce sono il freno che sta bloccando la ripresa. Ora illustri critici e commentatori di giornali sempre pronti a trovare il pelo nell’uovo si stanno esercitando a sparare sul governo di Parigi, sostenendo che ribellarsi alle regole di Bruxelles nuocerà pure all’Italia. Ma quando mai? Piuttosto facesse pure l’Italia lo stesso, abbassando subito le tasse e mettendo più soldi in tasca ai cittadini. Da questa crisi non si esce curandoci con l’aspirina. Abbia il governo il coraggio di sfidare i mercati. Per iniziare una cura seria. E darci la speranza che il domani sarà migliore.

La via d’uscita

La via d’uscita

Giuseppe Turani – La Nazione

Abbiamo dominato il mondo, inventato il diritto, costruito il Colosseo, fatto strade da Roma all’Irlanda ma ora siamo qui fermi da almeno dieci anni e giriamo intorno al palo della crescita dell’1% per cento l’anno quando va bene. I disoccupati aumentano, le aziende chiudono i battenti, tutti si sentono (e sono) più poveri e nessuno vuole spendere.

Abbiamo 2300 miliardi di debiti, qualcuno sostiene che non torneremo più come nel 2007 e dovremmo creare due milioni di posti di lavoro. Impresa disperata. Se esiste un momento per fare le riforme, è esattamente questo. La politica non ha mai avuto alibi, ma oggi siamo proprio a zero. Solo che uscire dalla trappola non è così semplice: da una parte dobbiamo rispettare i vincoli posti dall’Europa, dall’altra avremmo bisogno di molti soldi per rilanciare l’economia. Esiste una via d’uscita? Forse sì. E ci viene indicata dalla Francia. L’Europa faccia quello che vuole: noi, dicono i francesi. cerchiamo di non soffocare e di ridare un futuro alla nostra gente. La ricetta è applicabile all’Italia? Sì, al punto in cui siamo non resta altro da fare. Quindi possiamo sforare i parametri europei? Sì, possiamo e, anzi, dobbiamo. Con un paio di precisazioni, però.

La prima è che l’eventuale decisione di sforare (che farà innervosire mercati e partner) va accompagnata da una sorta di crono-programma di tagli da fare a scadenze precise, che devono consentirci entro 3-4 anni di rientrare nei parametri. I mercati ce lo lasceranno fare? Penso di sì: un debitore morto è un pessimo debitore. E noi siamo molto vicini all’ultimo respiro.

La seconda è di quelle che forse non piaceranno ai nostri politici. Ogni punto di sforamento sono circa 15 miliardi. Se si dovesse sforare al 5%, ci sarebbero 30 miliardi in più da spendere. Già vedo i politici che fanno salti di gioia. Finalmente si può fare politica industriale, faremo questo e quell’altro, aggiusteremo le scuole, rifaremo gli argini dei fiumi. Bene, niente di tutto questo. La politica italiana, con il suo «fare», ha già dilapidato 2300 miliardi. Se c’e qualcuno che non deve nemmeno provare a toccare i «nuovi» soldi sono proprio i nostri politici. Senza offesa per nessuno: purtroppo i numeri stanno a dire che il «sistema Italia» ha la tendenza a buttare via i soldi. E allora? I denari in più (che, ricordiamolo, sarebbero altri debiti) vanno tutti dedicati alla diminuzione della pressione fiscale: sul lavoro, sulle imprese, sulle famiglie. Vanno dedicati, cioè, a costruire un paese dove abbia ancora un senso lavorare e guadagnare. E, naturalmente, i tagli promessi vanno fatti, esattamente nelle scadenze stabilite, non deve essere ammesso nemmeno un rinvio.

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Renato Brunetta – Il Giornale

Prima presa d’atto di un disastro da tempo annunciato e per troppo tempo esorcizzato nella speranza di un improbabile miracolo. È il quadro che emerge dalla nota di aggiornamento del DEF, nei suoi dati essenziali. Per le ulteriori specifiche, che hanno comunque un valore rilevante, dovremo aspettare il varo definitivo del documento. Al momento top secret. Ma quello che è stato approvato dal Consiglio dei ministri di ieri è sufficiente per tracciare un quadro a tinte fosche dell’economia – e della società – italiana. Che fa naufragare ogni ottimismo di maniera.

Cominciamo dal dato della crescita, anzi della de-crescita. All’inizio della sua avventura (aprile 2014) Matteo Renzi aveva previsto, per l’anno in corso, un aumento del PIL dello 0,8%. Se le nuove previsioni saranno confermate, chiuderemo con una caduta dello 0,3%. E quindi una differenza rispetto al dato iniziale dell’1,1%. Dobbiamo dare atto a Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, di aver resistito alla tentazione di giocare con le cifre. Almeno per il 2014, dove il rischio di un’immediata smentita era molto più forte. La nuova previsione approssima quella dell’OCSE, che indicava per il 2014 una caduta dello 0,4%.

Con la stessa franchezza, tuttavia, diciamo che non ci convince l’ipotesi che per il prossimo anno, il 2015, l’economia italiana, in assenza di un forte cambiamento della politica economica, possa crescere dello 0,6%. Bene che vada, il semplice abbrivio porterà ad un valore che è pari alla metà, con la conseguenza di spingere il deficit, che nelle previsioni già balla pericolosamente sul baratro del 2,9%, oltre la soglia canonica prevista dalle regole di Maastricht. Risultato poco invidiabile: visto che è dal 2012 (Governo Monti) che non riusciamo ad abbassare quella febbre. Sintomo vistoso delle contraddizioni strutturali – soprattutto la bassa produttività – dell’economia italiana. Finora ci ha salvato la rivalutazione contabile del PIL che ha ridotto di 0,2 punti di PIL quel valore. Ma si tratta di un evento irripetibile.

La dimostrazione di quest’assunto è nelle previsioni circa l’andamento del debito, che in rapporto al PIL è previsto scendere da un’iniziale 134,9% del PIL al 131,6%. Con una flessione di oltre 3 punti. Un’evidente stonatura, che ha solo una giustificazione contabile. In percentuale il debito scende, ma solo come effetto della revisione statistica del PIL. Non per merito della politica economica del governo. Tutt’altro. Le nuove regole europee (Sec 2010) hanno regalato a tutti i Paesi una rivalutazione dei precedenti valori, includendo nei nuovi calcoli tra l’altro le attività illegali (dalla prostituzione al traffico di droga), che per l’Italia è stata pari al 3,8%. In valore assoluto qualcosa come 58 miliardi. C’è poi da aggiungere che con riferimento al debito pubblico, pur nel quadro ottimistico appena tracciato, è previsto l’ennesimo aumento: dal 131,6% nel 2014 al 133,4% nel 2015.

Qualche settimana fa Wolfgang Munchau, dalle colonne del Financial Times, prospettava l’ipotesi di una inevitabile crescita del rapporto debito/PIL italiano al 150%: l’anticamera del suo default, con conseguenze drammatiche sulla stessa tenuta dell’euro. Le proiezioni realistiche di quel rapporto indicano che quel rischio non è da sottovalutare. Dovrebbero spingere il Governo ad accelerare sul fronte delle privatizzazioni, secondo quanto previsto dalla legge di stabilità varata dal Governo Letta, in cui si prevedevano interventi per 10 miliardi all’anno, per l’intero triennio. Di quel programma è stato realizzato solo una minima parte: più o meno un decimo. Alla fine dell’anno mancano pochi mesi e forse qualcosa si può ancora fare. Ma occorre recuperare, rapidamente, il tempo perduto.

Perché è così importante soffermarsi sul problema del debito? Le regole europee impongono ai Paesi, condizionati dal peso eccessivo di quel fardello, procedure di rientro, che sono misurate dall’andamento del deficit strutturale di bilancio. Quest’ultimo dovrebbe essere compreso tra lo zero e meno 0,5. Per il 2014 il DEF aveva previsto una soglia dello 0,6, contestata dalla Commissione europea, secondo la quale quel valore era pari allo 0,8 per cento. Ancora maggiore lo scarto nelle previsioni per il 2015: 0,1 da parte del Governo e 0,9 da parte della Commissione. In simili circostanze, i Trattati prevedono un aggiustamento pari allo 0,5 % del PIL (circa 8 miliardi di manovra).

Il Consiglio dei Ministri ha invece fatto orecchie da mercante, prevedendo esplicitamente un “rallentamento nel percorso di avvicinamento”. L’aggiustamento sarà solo dello 0,1 per cento. Ipotizzando (i conti senza l’oste), altresì, l’ulteriore rinvio di un anno (non più il 2016 come originariamente previsto, ma il 2017) nel conseguimento dell’obiettivo di medio termine. Una nuova scommessa, all’insegna del moral hazard. Profezia fin troppo facile, almeno a giudicare dalle reazioni immediate del portavoce del Commissario agli affari economici dell’Ue, Jyrki Katainen, il grande falco che vigila sugli adempimenti dei trattati. Che l’Italia rispetti le raccomandazioni della Commissione, dove non c’era traccia dell’assenso al rinvio del pareggio del bilancio per il 2016. Figuriamoci se il “rallentamento del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine” al 2017 (un anno ancora dopo) – come recita pudicamente il comunicato di Palazzo Chigi – potrà fargli cambiare idea.