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La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

Mario Rodriguez – Europa

Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.

Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.

Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!

Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.

Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.

Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.

Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.

Figli e figliastri delle rigidità

Figli e figliastri delle rigidità

Danilo Taino – Corriere della Sera

La decisione annunciata ieri da Parigi, unilateralmente, di volere ritardare di altri due anni il rientro del suo deficit pubblico nei limiti stabiliti dai patti europei è un passaggio destinato a testare la solidarietà tra i 18 partner dell’eurozona. A verificare la tolleranza reciproca che ancora esiste tra i Paesi al cuore della moneta unica, innanzitutto la Germania, e i cosiddetti periferici, tra i quali l’Italia e sempre più la Francia. Sarà una navigazione burrascosa. Già ieri, Angela Merkel ha ribadito che non ci può essere crescita senza conti pubblici in ordine: si può prevedere che la posizione di Berlino – ripresa poi a Bruxelles – nei prossimi giorni sarà anche più netta. Ciò nonostante, questa può essere l’occasione per introdurre una nuova dinamica nella gestione della crisi.

Le regole europee di stabilità sono importantissime, ma non possono diventare il feticcio contro il quale schiantare l’eurozona se non si trova un punto di mediazione tra chi non lo sopporta e chi lo difende. Ed è la storia stessa dell’euro a indicare metodo e contenuto dell’approccio che Bruxelles e le capitali nazionali possono seguire per affrontare il momento critico di un’area in semi-recessione e vicina alla deflazione. Tra il 2003 e il 2004, proprio Germania e Francia decisero di non rispettare gli impegni presi con il Trattato di Maastricht sui loro deficit: segno che possono esserci passaggi economici e politici che in casi eccezionali spingono in quella direzione. E ciò che valse per due capitali dai muscoli robusti non può non valere oggi per altri se ciò ha una giustificazione. Berlino, però, usò lo spazio di bilancio conquistato per rendere meno dolorose le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, che in quegli anni realizzò; Parigi non fece alcuna riforma strutturale.

Una lettura dei patti europei flessibile per quel che riguarda i tempi in cui rispettarli potrebbe dunque avere un senso se legata a impegni precisi, contratti stipulati a Bruxelles tra Paesi, sulle riforme da fare ai livelli nazionali. Un piano riformista europeo vincolante, approvato e monitorato da Bruxelles – come immaginato dal presidente della Bce Mario Draghi – in cambio di flessibilità è un’ipotesi che potrebbe evitare una scissione verticale all’interno dell’eurozona, la rottura ufficiale dell’asse Berlino-Parigi e vedere un ruolo attivo di Paesi come l’Italia che hanno bisogno sia di riforme sia di manovrare un po’ il bilancio. Fatti salvi i vincoli europei, che se venissero ripudiati creerebbero – come ha avvertito Draghi – sfiducia diffusa nei mercati e nell’economia.

Il passaggio è stretto, la crisi è diventata del tutto politica e mette in difficoltà domestiche il presidente francese Hollande come la cancelliera Merkel. Se la situazione sfuggisse di mano, la stessa Bce finirebbe stretta tra veti nazionali incrociati, impossibilitata a realizzare le iniziative di stimolo che ha annunciato nelle settimane scorse. Chiamata forte per i leader europei.

L’asse fragile con la Francia

L’asse fragile con la Francia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un punto che accomuna le due capitali, è piuttosto il tentativo di non soffocare un’economia già debole con un’ulteriore stretta ai conti. Entrambi i leader, Matteo Renzi e Hollande, sono in cerca di investimenti, consumi delle famiglie, un qualche segno di ripresa all’orizzonte. Ma entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte.

Se l’Italia seguisse le orme di Parigi sul deficit il suo debito salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo. Se l’Italia pagasse interessi sul debito come la Francia, sarebbe la Germania. E se la Francia pagasse interessi sul debito come l’Italia, sarebbe sul punto di chiamare la troika. Naturalmente niente di tutto questo succede nella realtà, ma la situazione nei due Paesi è tanto simile in superficie quanto diversa a una seconda occhiata. I due governi hanno molti degli stessi problemi e delle stesse idee, ma non hanno interesse a prendersi l’un l’altro a modello. Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi.

Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero.Questa Francia così poco competitiva, così minacciata dal Front National di Marine Le Pen, può resistere solo se assimilata dal mondo esterno al «nucleo duro» d’Europa. Non alla cosiddetta «periferia».

Allo stesso tempo, neanche il governo di Roma ha interesse a seguire le orme di François Hollande. È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» – al 2,5% e non al 5% del Pil – il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda.

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Tutti gli Stati dell’area euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale, ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle Pubbliche amministrazioni a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare i programmi che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti, come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Secondo la Camera di commercio federale, per evitare un arresto delle attività, specialmente nei trasporti – basta viaggiare sulle autostrade per awertirlo – occorre investire 80 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Il confronto con la piccola Austria è drammatico: un tasso d’investimento aggregato (infrastrutture, industria, commercio) pari al 17% del Pil in Germania rispetto al 27% in Austria (e a una media Ue del 21%). Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato gli esperti stranieri a fornire suggerimenti.

Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che “emigrano” in vicini Paesi neocomunitari. Dall’altro, (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che – per ragioni campanilistiche – hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder-Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano la capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% di forza lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi.

È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare i programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei. Il 4 luglio le banche di sviluppo dei Paesi del G20 si sono riunite a Roma per definire scambi frequenti di strategia e di prassi. Da luglio, il club delle maggiori banche di sviluppo non solo europee (il Long term investors club – Ltic) è presieduto dall’ltalia. Anche se gli storici dell’economia ritengono che la Vnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la più antica banca di sviluppo, l’ltalia è uno dei Paesi dell’Europa occidentale con più lunga e più varia tradizione.

Uno studio recente di Amadeo Lepore analizza la storia della Cassa per il Mezzogiorno e rafforza le conclusioni a cui erano giunti una quindicina di anni fa Alfredo Del Monte e Adriano Giannola: la Cassa ha funzionato, sino alla meta degli anni Settanta, come le migliori banche di sviluppo. È stata spesso elogiata dalla stessa Banca mondiale che ha incanalato i propri finanziamenti all’ltalia (sino al 1964) non tramite i ministeri ma tramite la Cassa. Un libro di Giovanni Farese e Paolo Savona, fresco di stampa, riguarda il ruolo personale del presidente della Banca mondiale, Eugene Black, perché la Cassa diventasse il modello per il resto d’Europa e del mondo. Sappiamo che interessi particolaristici miopi hanno portato al declino e crollo della Cassa a partire della seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, come documentato in due ricchi volumi di Marcello De Cecco e di Gianni Toniolo, nell’ultimo decennio la Cassa depositi e prestiti è stata gradualmente trasformata da una direzione generale del ministero del Tesoro a una delle più grandi, più importanti e più prestigiose banche di sviluppo europee. In base a queste esperienze, sia positive sia negative, possiamo – anzi dobbiamo – fornire indicazioni alle altre banche di sviluppo in vista di una strategia coordinata per tornare a crescere.

Un Paese senza motore

Un Paese senza motore

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un’inflazione molto bassa in Eurolandia. Come conseguenza, una deflazione – si spera non ancora “cattiva”, cristallizzata al punto da far rinviare gli acquisti – in Italia. L’indice armonizzato italiano è alato a settembre e agosto, dopo essere rimasto fermo in luglio. È questo il dramma della lowflation, la bassa inflazione che attanaglia l’Unione monetaria. Costringe i Paesi in difficoltà a veder calare i prezzi per restare competitivi verso i partner dell’area: in assenza di un cambio che possa assorbire l’urto, tocca a prezzi e salari muoversi più lentamente che nei Paesi già in ripresa. Quando però la media di Eurolandia è così bassa, l’inflazione della Germania è allo 0,8% e quella francese (ad agosto) allo 0,4%, non c’è altra possibilità che far calare i propri prezzi. Ben diversa sarebbe la situazione se l’inflazione media di Eurolandia fosse al 2%, e quella tedesca o francese un po’ più alta…

Le cose potrebbero essere ancora tollerabili se i prezzi calassero tutti insieme e nella stessa misura per tutti i beni e servizi. Non è mai così. Ad agosto per esempio i prezzi alla produzione di beni durevoli e di quelli strumentali erano in crescita; mentre è quasi impossibile comprimere i salari. La soluzione, per molte aziende, è chiudere, con una tragica perdita di posti di lavoro e di capacità produttiva, di “potenza” del motore dell’economia. Secondo l’Istat anche nel terzo trimestre il Pil italiano risulterà in flessione: le conseguenze di questa terza recessione minacciano di essere durature.

Il prezzo che l’Italia sta pagando per questa lowflation è dunque altissimo e paradossale: i suoi problemi, l’alto debito pubblico e la rigidità dell’economia, hanno sempre minacciato inflazione, non deflazione. È anche per questo motivo che non si capiscono più gli ostacoli politici posti alla Banca centrale europea nel suo compito di tenere sotto controllo i prezzi. È vero che gli strumenti della politica monetaria possono creare effetti perversi, premiare banche, aziende e governi imprudenti e inefficienti e dare a tutti una cattiva lezione. Lasciare però che tutto questo faccia perdere di vista alla Bce l’obiettivo principale, tenere l’inflazione al 2% nel medio periodo, sembra un errore di calcolo dai costi molto più elevati dei benefici.

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

In attesa che la nuova Commissione Ue dica la sua sulla legge di stabilità, il governo gioca d’anticipo con la mossa congiunta Tfr e bonus Irpef (i 180 euro promessi da Matteo Renzi) e prova a impostare una manovra “espansiva”, per finanziare riduzioni di imposta e nuove spese. Il via libera di Bruxelles tuttavia non è del tutto scontato.

Il nuovo quadro macroeconomico contenuto nella Nota di aggiornamento del Def (Pil a -0,3% quest’anno e a +0,6% nel 2015) con il deficit che staziona tra il 3 e il 2,9%, non offre a bocce ferme grandi margini di azione. Si prova a utilizzare quei margini di deficit che potrebbero aprirsi l’anno prossimo tra il valore del “tendenziale” e quello del “programmatico”, tenendo conto che al momento la manovra da 20-22 miliardi risulta coperta solo per 13 miliardi. Spending review, sforbiciata alle agevolazioni fiscali, maggiore Iva attesa dallo sblocco dei debiti commerciali della Pa, lotta all’evasione, ma anche risparmio in conto interessi. Il tutto senza sforare il tetto massimo del 3% del Pil.

In poche parole, da Roma parte questo messaggio diretto a Bruxelles: l’economia italiana è alle prese con la miscela esplosiva di recessione e deflazione, come confermano le anticipazioni diffuse ieri dall’Istat relativamente al terzo trimestre del 2014. La legge di stabilità non opera correzioni ai saldi di finanza pubblica, ma è interamente “espansiva”. Serve cioè a rendere strutturale il bonus Irpef da 80 euro per i redditi entro i 26mila euro annui, a ridurre di 2 miliardi l’Irap e a finanziare nuove spese: 1 miliardo per allentare il patto di stabilità interno, 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 1 miliardo per la scuola. Si prova in poche parole a scommettere sull’auspicato aumento del Pil, per ora inchiodato nel 2015 attorno a un modesto +0,6%, grazie appunto alle misure che stanno per essere inserite nella legge di stabilità, e all’effetto atteso dalle riforme strutturali in cantiere, in primis il lavoro.

Schema che ha indubbiamente una sua logica, percorso che in parte il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha già anticipato nelle grandi linee al nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e che ora dovrà essere “validato” da Bruxelles. Non mancano gli elementi di rischio, poiché sulla carta (qualora prevalesse un orientamento più restrittivo all’interno della Commissione) a novembre la Commissione potrebbe anche invitare il governo a “riscrivere” in tutto o in parte la legge di stabilità. D’accordo le circostanze attenuanti in presenza di una prolungata fase recessiva – potrebbe obiettare l’esecutivo comunitario – ma l’Italia risulterebbe inadempiente rispetto ai parametri europei, che possono e devono essere interpretati in modo flessibile ma che tuttavia (fino a quando non verranno modificati) potranno sempre essere posti nuovamente con decisione sul tavolo del confronto bilaterale con il nostro paese. Pur rispettando il tetto del 3%, il deficit nominale resterebbe sempre nei dintorni del tetto massimo. Inoltre non sarebbe rispettata la regola del debito, saremmo comunque in presenza di squilibri macroeconomici eccessivi, non assicurando che la riduzione del deficit strutturale converga verso l’obiettivo di medio termine nei tempi concordati. Lettura eccessivamente ortodossa della disciplina di bilancio, certamente, ma non la si può escludere a priori.

Viceversa – ed è auspicabile che la decisione di Bruxelles vada in questa direzione – verrebbe concessa una sorta di apertura di credito, se pur condizionata e a tempo, nei confronti del nostro paese. Via libera in sostanza alla manovra “espansiva”, soprattutto se accompagnata dalla riforma del mercato del lavoro, e sospensione del giudizio fino alla prossima primavera quando si potranno cominciare a verificare sul campo gli effetti della strategia di politica economica messa in campo dal governo. Un sì condizionato, dunque, e questa pare al momento l’ipotesi più probabile. Sbocco atteso della trattativa con Bruxelles, che tuttavia non ammette ulteriori deviazioni. C’è da chiedersi ad esempio quale sarebbe il giudizio di Bruxelles qualora la riforma del lavoro perdesse pezzi fondamentali nel corso dell’esame parlamentare, o se il fuoco di fila degli emendamenti alterasse l’impianto di partenza della stessa legge di stabilità. Percorso a ostacoli, dunque, meta incerta, obiettivo arduo la cui realizzazione presuppone una forte determinazione politica e un deciso sostegno parlamentare.

L’arte sbagliata del fiscal compact

L’arte sbagliata del fiscal compact

Leonardo Becchetti – Il Fatto Quotidiano

Per qualche sfortunata congiunzione astrale ci è toccato di nascere nel regno del Fiscal Compact, nel cono d’ombra ideologico del rigorismo e del sadomonetarismo. In altre aree del pianeta la risposta alla crisi finanziaria globale è stata molto più appropriata. Se non ci mobiliteremo firmando il referendum per l’abolizione del pareggio di bilancio (referendumstopausterita.it) non usciremo mai dall’incantesimo di una regola dissennata che si propone di ridurre di un ventesimo il rapporto debito/Pil che eccede il 60 per cento e sulla quale ci siamo autoimposti l’ulteriore cilicio del pareggio di bilancio in costituzione. Violando un principio fondamentale per il quale la costituzione deve occuparsi dei fini e mai dei mezzi per raggiungerli. Come se, invece di mettere nella propria “carta costituzionale” l’aspirazione alla vittoria, una squadra di calcio scrivesse che bisogna sempre giocare con il modulo del 4-4-2.

In altre parti del mondo è diverso e tutti capiscono la regola elementare per la quale la sostenibilità del rapporto debito/Pil si realizza stimolando la ripresa del denominatore con poli- tiche fiscali e monetarie espansive e non cercando di comprimere il numeratore con misure che deprimono più che proporzionalmente quello che sta sotto (il Pil) peggiorando il rapporto. Negli Stati Uniti la risposta è stata una banca centrale che ha messo al centro la riduzione della disoccupazione e in 76 mesi l’ha riportata ai livelli pre-crisi mentre nella Unione europea è ancora oggi del 4 per cento superiore. Fiscal compact? Pareggio di bilancio? Tutto il contrario. Politiche fiscali rooseveltiane che hanno rilanciato gli investimenti pubblici e privati e la domanda interna assieme all’espansione monetaria. Per non parlare della risposta giapponese e del Regno Unito, altri due paesi che hanno fatto scelte simili e se ne infischiano della regola del 3 per cento, figuriamoci del pareggio di bilancio. Il regno del Fiscal Compact e un po’ come gli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 se Roosevelt e le sue politiche keynesiane non fossero mai arrivate.

Posto che la prima preoccupazione dei rigoristi dominati dalla lobby dei creditori è quella della sostenibilità del debito, il rigore di bilancio è almeno riuscito a migliorare la situazione dei debiti pubblici? Niente affatto, perché le ricette rigoriste hanno prostrato i Paesi che le hanno praticate. La Grecia in primis in deflazione e con un rapporto debito/Pil oltre il 177 per cento anche con un tasso d`interesse sul debito calmierato al 3 per cento non ce la farà mai a ridurre di un ventesimo il proprio debito oltre il 60 per cento (dovrebbe crescere oltre il 5-6 per cento all’anno). E ha pagato il rigore con il crollo di un quarto del Pil e due ristrutturazioni del debito. Il Portogallo si trova in analoghe condizioni di difficoltà. Ha un avanzo primario dello 0,4 per cento, un tasso d’inflazione leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2 per cento e un rapporto debito/Pil al 129 per cento. In queste condizioni il rapporto debito/Pil non si riduce ma cresce, per ridursi come previsto dal Fiscal Compact la crescita dovrebbe viaggiare al 5 per cento. E l’Italia? A bocce ferme (crescita e inflazione zero o debolmente negative, costo del debito sopra il 3 per cento e avanzo primario attorno al 2) il nostro rapporto debito/Pil cresce del 2-3 per cento all’anno. Uno scenario ben di- verso da quello delle nostre previsioni alla “Lucio Dalla” nelle quali l’anno che verrà è sempre quello dell’inversione di tendenza.

La battaglia referendaria è importante perché può aiutare i passeggeri della nave Italia a concentrarsi sul problema dell’iceberg e non sulla musica dell’orchestrina. Possiamo parlare di mercato del lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, riduzione delle tasse su cittadini e imprese, investimenti sulla banda larga, riforma della scuola ma le risorse per tutto questo non ci sono se restiamo sotto l’incantesimo del pareggio di bilancio. Nell’eurozona dove la Germania da anni sfora i limiti del surplus senza alcun intervento correttivo, la Francia si “prende” la flessibilità sul deficit, la Bce viene meno al suo impegno statutario di combattere la deflazione che peggiora i debiti pubblici portando la crescita dei prezzi vicina al livello del 2 per cento, è arrivato il momento di non essere gli unici a rispettare regole che nessuno rispetta per sedersi al tavolo e ridiscutere tutto. O l’eurozona diventa un sistema di obblighi simmetrici, di politiche fiscali e monetarie europee coraggiose in grado di sfruttare la leva e il peso specifico sovranazionale, o la rotta di collisione sulla quale ci troviamo, che ha prodotto il “miracolo” di rinfocolare rancori e nazionalismi, ci porterà presto alla rottura con conseguenze difficilmente calcolabili.

Il referendum è pertanto il primo passo necessario per superare la rimozione e discutere del vero problema che abbiamo di fronte, democraticamente e alla luce del sole. Perché la storia recente e le “cronache del Regno del Fiscal Compact” ci hanno ampiamente dimostrato che non è il caso di fidarsi e di affidarsi in toto all’intellighentia dei suoi funzionari e delle sue élite.

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Sepolta sotto una montagna di debito che, invece di diminuire, aumenta, l’economia mondiale rischia una nuova crisi dopo quella gravissima della fine del decennio passato. C’è una «spirale velenosa» fra l’alto livello del debito pubblico e privato e la bassa crescita nominale, avverte l’ultimo Rapporto di Ginevra, pubblicato ieri dal Centro internazionale di studi bancari e monetari. Fra gli autori, Lucrezia Reichlin, della London Business School e già capo della ricerca della Banca centrale europea, e Luigi Buttiglione, ex Banca d’Italia ed economista di uno dei più grandi hedge fund macro, Brevan Howard. Il circolo vizioso fra alto debito e bassa crescita, spiega Buttiglione, è evidente nell’eurozona più che altrove e, all’interno dell’eurozona, nel caso dell’Italia.

Il Rapporto smentisce anzi tutto la convinzione che il mondo stia attraversando una fase di deleveraging dopo la crisi del 2008-2009: anzi, il debito pubblico e privato (con l’esclusione di quello del settore finanziario), che era attorno al 60% del prodotto interno lordo all’inizio del decennio passato, è balzato al 200% nel 2009, dopo lo scoppio della crisi, e ha toccato il 212% nel 2013. Con una differenza fondamentale, che prima della crisi l’accumulazione di debito è avvenuta soprattutto nei Paesi avanzati, dove si è ora stabilizzato più o meno ai livelli del 2009. Dopo la crisi, invece, si assiste a un balzo del debito soprattutto nei Paesi emergenti, in particolare in Cina, il punto più fragile assieme all’eurozona, dove le autorità dovranno scegliere fra un rallentamento della crescita per frenare l’aumento del debito totale (che si è impennato dal 140% del pil del 2001 al 240% attuale) o un pericoloso aumento continuo del debito per continuare ad alimentare la crescita su ritmi vicini a quelli degli anni scorsi. Il rischio di una prossima crisi è reale, secondo il Rapporto, ed è particolarmente vivo in quei Paesi che non hanno fatto i conti del tutto con quella precedente, come quelli della periferia dell’eurozona, fra cui l’Italia.

La risposta della politica economica è decisiva. Il Rapporto di Ginevra mette a confronto quella delle autorità di Stati Uniti e Gran Bretagna con quella europea. Nel primo caso, si è scelta la strada di una forte espansione del bilancio della banca centrale (soprattutto da parte della Federal Reserve) attraverso il quantitative easing. Al deleveraging del settore privato e in particolare del sistema finanziario, ha corrisposto un aumento dell’indebitamento pubblico. L’uscita è in corso adesso, con la cessazione del Qe, e dovrà avvenire in modo graduale per non produrre nuovi sconquassi, ma ha evitato, dopo la crisi, una ricaduta nella recessione e una paralisi del credito. Cosa che è avvenuta invece in Europa, dove un possibile Qe è ancora oggetto di discussione e di forte opposizione e i vincoli anche politici dell’unione monetaria, dove ogni intervento diventa anche un trasferimento da un Paese all’altro, hanno frenato la risposta nei tempi e nei modi, anche se è stato evitato il collasso, grazie all’azione della Banca centrale europea.

L’Europa ha puntato sulla riduzione prima del debito pubblico, attraverso l’austerità fiscale e non ha ricapitalizzato il settore bancario. A differenza che negli Stati Uniti, il debito totale dell’eurozona resta oggi una percentuale più alta del pil rispetto a prima della crisi, mentre la perdita di reddito è del 5% circa negli Stati Uniti e quasi il doppio per l’eurozona. La revisione ormai ultimata dei bilanci delle banche europee, bassi tassi d’interesse e il possibile varo del Qe (che il Rapporto suggerisce) possono essere d’aiuto, ma il «veleno» del mix di alto debito e bassa crescita nominale appare più pericoloso nell’eurozona che altrove.

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

SINTESI DEL PAPER

L’Italia ha uno sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di quattro punti di PIL, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente precedenti la crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata negli anni precedenti, ma le entrate fiscali hanno continuato ad aumentare anche con la crisi. Si è infatti deciso di ridurre il deficit e rispondere alla crisi economica sul lato delle entrate anziché su quello delle uscite, che hanno continuato ad aumentare sia in termini nominali che di percentuale di PIL, anche se di poco. La classe dirigente italiana ha cioè preferito preservare l’ingente spesa pubblica anche a costo di danneggiare ulteriormente l’economia reale, contribuendo ad aggravare e prolungare la crisi. È da considerare che l’Italia è caratterizzata da un maggior peso dell’economia sommersa rispetto agli altri paesi europei considerati, e quindi a parità di pressione fiscale sul PIL complessivo (che include anche una stima del sommerso), la pressione fiscale effettiva in rapporto al PIL prodotto alla luce del sole è ancora maggiore che negli altri paesi.
Rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben quattro punti di PIL, pari a circa 65 miliardi di euro. Si noti che, anche se la Gran Bretagna ha una pressione fiscale ancora minore, nel 2012 aveva un forte deficit (oltre il 6%), quindi i dati di pressione fiscale possono essere fuorvianti, non essendo un forte deficit compatibile con la stabilità finanziaria nel lungo termine: la Gran Bretagna dovrà o tagliare la spesa o aumentare le tasse in futuro, e parte del vantaggio rispetto all’Italia potrebbe ridursi. Anche l’Italia ha un deficit superiore a quello tedesco (le cui finanze erano in pareggio nel 2012), e dunque una riduzione della pressione fiscale agli stessi livelli tedeschi richiederebbe una riduzione ancora maggiore della spesa pubblica.
La ricerca di “ImpresaLavoro”, elaborata dal fellow dell’Istituto Bruno Leoni Pietro Monsurrò, prende in considerazione anche i dati annuali di Eurostat (disponibili dal 2000 al 2012) sui diversi indici del livello di tassazione implicito (ITR) nei vari paesi europei. L’ITR è infatti il rapporto tra le entrate fiscali e la base fiscale relativa (un ITR sul consumo del 20% significa cioè che il 20% della spesa in consumi se ne va in tasse, e lo stesso vale per gli altri ITR). Analizzando ad esempio l’ITR sul lavoro, si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. Inoltre c’è stato un notevole peggioramento, di circa il 2%, negli anni precedenti la crisi. Le cose non cambiano molto se si considera l’ITR sul capitale, con l’eccezione che l’Italia è superata dalla Francia, che ha aumentato molto la pressione fiscale relativa durante la crisi economica. Anche l’Italia mostra un notevole peggioramento, pari circa al 4%, successivo all’intensificarsi della crisi, superando la Gran Bretagna che nel frattempo ha invece notevolmente diminuito il carico fiscale sul capitale. Se si considera infine l’ITR sul reddito di impresa delle società individuali e dei lavoratori autonomi, l’Italia tallona la Francia ancora una volta e mostra un notevole peggioramento del livello di tassazione nell’ultimo anno, a fronte di un notevole miglioramento della Gran Bretagna. In definitiva, la pressione fiscale italiana è particolarmente concentrata sul lavoro e sul capitale, cioè sui fattori produttivi. Un dato che scoraggia l’occupazione e gli investimenti, con conseguenze sul mercato del lavoro, sulla competitività, e sulla crescita economica.
La ricerca di “ImpresaLavoro” si sofferma inoltre sui costi indiretti del sistema fiscale, ad esempio i tempi e le procedure amministrative necessari ai contribuenti per pagare le tasse. A riguardo il sistema italiano risulta particolarmente inefficiente, come evidenziato dalla classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale. Per trovare il nostro Paese occorre infatti scorrerla fino al 138° posto (con 15 procedure amministrative e 269 ore necessarie). Un dato pessimo, sopratutto se confronto con i nostri maggiori competitor europei: la Gran Bretagna si piazza al 14° posto (con 8 adempimenti burocratici e 110 ore necessarie), la Francia al 52° posto (con 7 adempimenti burocratici e 132 ore necessarie), la Spagna al 67° posto (con 8 adempimenti burocratici e 167 ore necessarie) e la Germania all’89° posto (con 9 adempimenti burocratici e 218 ore necessarie). A fronte quindi di un livello di imposizione fiscale elevato, il fisco italiano aggiunge l’ulteriore costo di compilare moduli, leggere regolamentazioni, chiedere consulenze, etc.
«Il carico e la struttura del sistema fiscale contribuiscono alla stagnazione del paese in vari modi: riducendone la competitività, costringendo a sprecare tempo e risorse in procedure burocratiche, e in definitiva riducendo gli incentivi a produrre, lavorare e risparmiare» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «Sebbene la stagnazione negli ultimi decenni e la fragilità economica messa in luce dalla crisi abbiano molteplici cause, le imposte rappresentano un fattore rilevante per le insoddisfacenti performance economiche del paese. Resta dunque prioritario riformare il sistema fiscale riducendone la complessità a parità di entrate, spostare la tassazione dal lavoro e dalle imprese ai consumi, e ridurre la pressione fiscale complessiva tagliando al contempo la spesa».
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Per una tassazione competitiva

Per una tassazione competitiva

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

In un mondo in cui da decenni sono caduti barriere commerciali e vincoli ai movimenti dei capitali l’Italia si trova ad essere sempre più stretta nella morsa della concorrenza tra sistemi economici nazionali. Non sono soltanto i prodotti italiani a doversi confrontare con la concorrenza estera, all’interno come all’estero, con in prima fila i partner comunitari, ma l’intero sistema economico e finanziario. Da anni si assiste a un progressivo disincanto verso il Paese come luogo di investimento e produzione (meno home bias), mentre si tende a investire in misura crescente là dove è più conveniente, indipendentemente dal paese. Il confronto con le convenienze offerte dai diversi paesi o regioni è quindi divenuto più pervadente e chiama in causa quasi tutti gli aspetti di sistema. La tassazione, in quanto parte inerente al sistema di produrre e finanziarsi, è assurta pertanto a terreno di contesa tra paesi per attrarre capitali, competenze, ingegni, imprenditori.
Come mostrano i dati comparativi dell’analisi di “ImpresaLavoro”, l’Italia non esce bene da questo confronto. Il riscontro si aveva da anni anche da altri dati, in particolare dagli investimenti diretti con l’estero, che mostrano dal 2000 un saldo tra i più modesti in Europa in termini sia di flussi, che di consistenze. Quali aspetti non vanno nella tassazione italiana nel confronto con i maggiori partner?
In breve, si può sostenere che il livello del prelievo, la sua distribuzione per classi di basi imponibili e tra soggetti (imprese, lavoratori, pensionati, altri percettori di reddito), la ripartizione tra consumi, investimenti reali e finanziari, e tariffe per servizi, la differenziazione tra regioni e la complessità del fisco e della sua amministrazione sono tutti punti deboli, che rendono poco attraente investire nel Paese. Da anni si richiede pertanto un radicale cambiamento di sistema, scevro da condizionamenti ideologici e diretto a rilanciare la competitività del Paese.
Una grande sfida, dato che queste scelte sono il vero specchio dei valori di uno Stato, una società, una democrazia. Sono scelte politiche dure, che non possono accontentare tutti per il fatto stesso che comportano scelte tra interessi contrapposti, ma che non hanno trovato un adeguato punto di ricomposizione nella politica. In realtà sono sfociate in una aggrovigliata ed oscura selva di norme e particolari esenzioni, senza giungere a una riforma di sistema.
In tale quadro non è nemmeno facile individuare come si distribuisce la tassazione. Il lavoro di IL è molto utile per gettare luce sull’intricata materia ed evidenziarne le differenze con altri paesi, ma restano punti interrogativi. Ad esempio, il rapporto col PIL, che è generalmente usato, non tiene conto che il peso sui contribuenti effettivi è maggiore di quanto mostra l’indicatore, perché gli evasori e gli esentati stanno all’interno della misurazione del PIL, ma non tra i colpiti dalla tassazione. I tributi locali complicano il confronto nella misura in cui si nascondono nelle forme di tariffe per servizi. Queste rappresentano una vera imposta se in contropartita non si danno servizi adeguati e si costringe il contribuente a dover pagare di nuovo per ottenere lo stesso servizio dal privato, come nel caso dei servizi idrici. Vi sono poi prelievi nascosti nei costi dell’energia, sotto voci di oneri di sistema, che peraltro non si applicano a tutti gli utenti, a causa delle esenzioni.
Anche l’attuale distribuzione del prelievo fiscale e contributivo pone difficili problemi di equità e di controversi effetti di incentivazione e disincentivazione di determinate attività. I troppi trattamenti pensionistici che superano di gran lunga le contribuzioni versate, costituiscono per chi lavora e deve coprirli un aggravio iniquo e non più tollerabile alla luce delle disparità di costo unitario del lavoro con i concorrenti e nel confronto intergenerazionale. Una tassazione crescente sui redditi da risparmio e da capitale scoraggia leve essenziali per la crescita economica. Lo stesso può dirsi per l’incremento di imposizione sui consumi, sebbene in questa area vi siano grandi sacche di evasione. Tassare i redditi d’impresa pesantemente scoraggia l’attività imprenditoriale, gli investimenti ed alimenta l’evasione.
La chiave di volta sarebbe un generalizzato arretramento della spesa pubblica a tutti i livelli e una sistemazione del macigno del debito pubblico accumulato. Ma si tratta di erodere diritti acquisiti anche se ingiustamente e di ridurre il welfare state, entrambi molto dolorosi.
Sono tutti dilemmi a cui si deve dare risposte appropriate al più presto. Si vedrà se la delega fiscale in approvazione al Parlamento saprà rispondere alla grande sfida per il meglio dell’economia e del Paese.