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Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Renato Brunetta – Il Giornale

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.

“Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010”: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di

ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta. Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato, tranne poche citazioni del sottoscritto. Allo stesso modo, lo studio non è stato confutato da nessuno. Proprio perché le analisi ivi contenute poggiano su basi solide. Ma in contrasto con i luoghi comuni della sinistra e dei giornaloni dei poteri forti. E per questo da ignorare. Allora perché citiamo questo studio, ancorché non nuovo? Perché ci serve per fare una considerazione.

Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia; mentre le riforme dei governi che si sono succeduti dopo sono state spesso inutili, oppure sbagliate, con effetti nulli, oppure dannose, oppure rimaste inattuate (si pensi a tutti i decreti attuativi arretrati che l’esecutivo non riesce a smaltire), oppure controriforme. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme. Da Monti in poi, l’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del “super ministro” Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico, voluto e sostenuto dalla sinistra a giugno 2011; fino all’abolizione della norma che cancellava il reato di immigrazione clandestina, con tutto quello che ciò comporta, e che vediamo ogni giorno. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte non riforme o controriforme.

Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo e rispetto ai quali negli anni successivi sono state fatte clamorose marce indietro, a danno dello sviluppo e della crescita dell’economia e della società italiane. Non riforme o controriforme volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e della tuttora imperante cancelliera tedesca, Angela Merkel. Solo e sempre in chiave antiberlusconiana. Allo stesso modo, oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche. Non riforme o controriforme tutte approvate con decreto Legge, con il consenso plaudente del Colle più alto.

Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def e sul Piano nazionale delle riforme presentati dal governo Berlusconi, o quando espresse giudizio favorevole su tutti gli altri provvedimenti messi in campo per far fronte alla crisi nell’estate-autunno 2011, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione europea il 26 ottobre 2011, in occasione del Consiglio europeo di quel giorno, anche in risposta alla lettera che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano il precedente 5 agosto.

Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme Berlusconi-Sacconi sul lavoro, Berlusconi-Gelmini sulla scuola, Berlusconi-Brunetta sulla Pa, Berlusconi-Romani sulle liberalizzazioni, Berlusconi-Matteoli sulle infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che, dopo pochi mesi, presentate via via da governi diversi, andavano nella direzione opposta. Non basta, dunque, dire riforme: occorre entrare nel merito delle stesse. Proprio per questo, Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà, invece, dalla completa implementazione, nel più breve tempo possibile, noi abbiamo detto cento giorni, perché mille non li abbiamo, della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, mentre occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività, come aveva cominciato a fare l’ex ministro Sacconi, i cui meriti sono stati riconosciuti anche dalla Banca centrale europea, con riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 con le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, che ha trovato poi la sua definitiva realizzazione nell’articolo 8 della manovra cosiddetta “di agosto” del 2011, nonché il superamento dello Statuto dei lavoratori, con particolare riferimento all’articolo 18, e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.

Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat. Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere. A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.

New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità. Ne beneficerà l’Italia, ne beneficerà l’Europa, ne beneficerà il governo, ne beneficerà Renzi. Con buona pace dei gattopardi.  

Politica fiscale per battere la depressione

Politica fiscale per battere la depressione

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

La decisione della Bce, di far scendere ancora i tassi di interesse e soprattutto di avviare l’acquisto di titoli emessi dalle banche, è una svolta importante. Ma perché la Bce ha aspettato così tanto e non si è mossa prima? E saranno sufficienti i provvedimenti annunciati per scongiurare la deflazione e sostenere la crescita nell’Eurozona? La risposta ufficiale alla prima domanda l’ha data il presidente Mario Draghi in conferenza stampa. La politica monetaria ha reagito a due eventi: un peggioramento congiunturale di tutta l’area Euro che è diventato particolarmente evidente durante l’estate; e una tendenza al ribasso delle aspettative di inflazione di medio periodo, anche questa accentuatasi di recente.

La risposta non è molto convincente, tuttavia. Come ben sanno i banchieri centrali, la politica monetaria ha effetti dilazionati nel tempo. Aspettare di osservare variazioni congiunturali nei dati di contabilità nazionale o di produzione è una sicura ricetta per essere in ritardo. E le aspettative di inflazione devono essere guidate dalla politica monetaria, e non viceversa. È diversi trimestri che osserviamo una continua contrazione della base monetaria e dell’offerta di credito e il progressivo rallentamento dei prezzi. La capacità inutilizzata nell’Eurozona rimane elevata, sia nell’industria che nei servizi, ed è circa un anno che ha praticamente smesso di ridursi. Da fine 2013 gli indicatori di fiducia delle imprese hanno invertito direzione. Ignorare per tanti mesi tutti questi segnali è stato un azzardo, e non solo con il senno di poi.

Meglio tardi che mai, comunque? Non è detto. Purtroppo è poco probabile che questi interventi, per quanto significativi, siano sufficienti a risollevare la domanda aggregata, soprattutto nel Sud Europa. Oltre all’effetto sul tasso di cambio, i provvedimenti vogliono spingere l’offerta di credito bancario. Ma l’obiettivo sarebbe stato più facilmente raggiungibile uno o due anni fa, quando il deleveraging delle banche non era così avanzato. Ora la depressione ha affossato l’economia reale e riempito i bilanci delle banche del Sud Europa di crediti deteriorati. Per quanto l’acquisto diretto di titoli di credito possa parzialmente allentare il vincolo di capitale sulle banche, e i finanziamenti del sistema bancario siano a costo zero, non è detto che ciò sia sufficiente, soprattutto se è assente la domanda di nuovo credito. Inoltre, è ancora incerto se le dimensioni del mercato consentiranno alla Bce di acquistare una quantità davvero rilevante di titoli di credito.

L’esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone suggerisce che, per uscire da una crisi così profonda, la politica monetaria da sola è insufficiente, ed è necessaria una combinazione di politica monetaria e fiscale. In questi paesi la creazione di moneta è avvenuta soprattutto tramite ingenti acquisti di debito pubblico ed è stata accompagnata da maggiori disavanzi: di fatto un’espansione fiscale finanziata dalla banca centrale. L’uso di entrambi gli strumenti è cruciale: l’espansione fiscale sostiene direttamente la domanda aggregata, e il finanziamento monetario evita l’aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse. Da questo punto di vista, c’è una differenza importante tra l’acquisto diretto di titoli di credito emessi dalle banche e l’acquisto di titoli di stato. Soprattutto nel secondo caso, più che nel primo, la banca centrale allenta direttamente il vincolo di bilancio del governo.

Nell’area Euro questo non si può fare, naturalmente. Ma non è escluso che ci si arrivi comunque, anche se in ritardo e in maniera meno esplicita e molto meno rilevante. Se i provvedimenti annunciati non riusciranno a evitare la deflazione nell’area Euro, prima o poi la Bce potrebbe essere costretta ad acquistare anche i titoli di Stato. E lo stesso presidente Draghi ha sottolineato l’importanza del coordinamento tra politica monetaria e fiscale (oltre alle riforme strutturali) per uscire dalla crisi. Nel frattempo, non illudiamoci che possa essere la politica monetaria da sola a fare uscire il Sud Europa dalla depressione.

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte ci si abitua a guardare il mondo a testa in giù. Rimettersi di tanto in tanto sui piedi può fare bene: cambiare paradigma ridisegna l’ordine delle cose. Le statistiche sulla tassazione in Italia, in Europa e nel mondo aiutano: e suggeriscono che, forse, nel dibattito su spending review, vincoli europei di bilancio, crescita dell’economia potremmo ribaltare la prospettiva. Innanzitutto, il confronto mondiale (i dati sono quelli riportati nella pubblicazione di Eurostat «Taxation trends in the European Union, 2014»). Nella Ue a 28, le tasse (compresi i contributi sociali) raccolte dai governi sono state, nel 2012, pari al 39,4% del Prodotto interno lordo. Nei 18 Paesi dell’eurozona sono arrivate al 40,4%. Nel mondo, c’è qualche Stato più esoso, ad esempio la ricca ed eccentrica Norvegia (42,2%). Ma fuori dall’Europa le tasse sono molto, molto più basse: il 24,7% del Pil negli Stati Uniti, il 27,8%, in Canada, il 30,3% in Giappone, il 27,8% in Australia.

In generale, si tende a spiegare queste differenze con il fatto che in Europa c’è un alto livello – quindi costoso – di Welfare State. L’argomentazione ha debolezze intrinseche. Per esempio, è difficile sostenere che le protezioni sociali della Ue sono efficienti, destinate solo a chi ne ha davvero bisogno; o negare che spesso sono addirittura incentivanti del non lavoro. E, in una buona parte dei Paesi, il Welfare gigante toglie risorse alla crescita dell’economia, con l’effetto di gonfiare la disoccupazione, abbassare i redditi, ridurre la competitività rispetto al resto del mondo. Ma quel che è più interessante è vedere come si colloca l’Italia. Il totale delle tasse raccolte, sempre considerando i contributi sociali, nel 2012 è stato pari a 689,3 miliardi, il 44% del Pil (nel 2000 era del 41,5%), decisamente sopra la media dell’eurozona. Siamo il sesto Paese della Ue per livello di tassazione, ma mentre i cinque più esosi – Danimarca (48,1%), Belgio (45,4%), Francia (45,0%), Svezia (44,2%), Finlandia (44,1%) – possono rivendicare una qualità elevata di servizi pubblici per noi è notoriamente diverso (dal 2000 in poi, tra l’altro, Svezia, Finlandia e Danimarca hanno ridotto il carico fiscale, Stoccolma addirittura del 7,3%).

Per dare l’idea di quanto sia pesante l’imposizione in Italia: nella Ue a 28 siamo settimi per tasse indirette come percentuale del Pil (ma al 26° posto per Iva), quinti per imposte dirette, ottavi per contributi sociali, settimi per tasse sul lavoro, secondi per tasse sul capitale, quarti per tasse sull’energia, quarti per tasse sulla proprietà. La questione è un macigno, forse il maggiore, sull’attività dell’intero Paese. Perché dunque il dibattito è tutto sul tagliare le spese, fatto che finora non è avvenuto, e si dice che solo dopo si potranno abbassare le imposte? Probabilmente avrebbe più senso guardare la realtà raddrizzando la prospettiva: darsi obiettivi progressivi ma vincolanti di riduzione delle tasse e sulla base di questi costringere lo Stato a tagliare le spese, non il contrario. In fondo, s’è visto: a testa in giù si sbaglia strada.

Entrate ancora il flessione ma l’Iva cresce (+4,1%)

Entrate ancora il flessione ma l’Iva cresce (+4,1%)

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Un mese fa le stime di Confcommercio sui consumi interni di giugno che parlavano di «effetto invisibile» per il bonus Irpef di 80 euro gelarono gli entusiasmi del Governo. Eppure, in giugno, l’Iva cresceva del 4%, aiutando la tenuta complessiva del gettito tributario del primo semestre.

Ora il dato si ripete con il mese di luglio: +3,1% (+1.695 milioni di euro) la variazione complessiva con una progressione dell’Iva sugli scambi interni ancora in aumento del 4,1% (+1.961 milioni di euro). E il sostegno è confermato sull’aggregato complessivo delle entrate tributarie erariali dei primi sette mesi, ora pari a 232.613 milioni di euro, «sostanzialmente stabili rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,6%, pari a -1.302 milioni di euro)» come annota il ministero dell’Economia.

Nel bilancio complessivo il lato debole del gettito tributario continua ad essere quello delle imposte dirette, il cui gettito complessivo si ferma a 128.182 milioni di euro, con una diminuzione del 3,7% (-4.870 milioni di euro) rispetto ai primi sette mesi dello scorso anno. A partire dall’Irpef, che cala ancora dello 0,6% (-564 milioni di euro) riflettendo gli andamenti delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato (-0,9%), delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico (-0,4%) e dei lavoratori autonomi (-2,7%), andamenti parzialmente compensati dall’aumento dei versamenti in autoliquidazione (+2,2%). Ma molto peggio continua ad andare per l’Ires, in calo del 20,8% (-3.597 milioni di euro), un dato «essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014, effettuati da banche e assicurazioni a seguito dell’incremento della misura dell’acconto 2013 fissato, per questi contribuenti, al 130% dal dl 133 del 2013». L’incremento dell’acconto versato nel 2013 infatti si riflette negativamente sui versamenti effettuati a saldo nel 2014 relativi all’anno d’imposta 2013. E quest’ultimo dato, a sua volta è una delle componenti per la base di calcolo dell’acconto per l’anno di imposta 2014.

Tornando alle imposte indirette (gettito a 104.431 milioni di euro, +3,5% nei sette mesi), dopo aver detto del continuo progresso dell’Iva il Mef sottolinea in particolare la riduzione del differenziale negativo della componente dell’Iva sulle importazioni da Paesi extraUe rispetto ai primi sette mesi del 2013 -3,4% (risultava pari a -4,6% nel periodo gennaio-giugno) per effetto della crescita del gettito nel mese di luglio (+3,2%, pari a +39 milioni di euro), per il terzo mese consecutivo. Non è andata altrettanto bene per l’imposta di bollo, in arretramento del 4,0% (-249 milioni di euro), per effetto della variazione negativa di 692 milioni di euro dell’imposta speciale sulle attività finanziarie scudate dovuta al passaggio dell’aliquota di imposta dal 13,5 per mille per il 2013 al 4 per mille a decorrere dal 2014 (art. 19, comma 6, del dl 201/2011). «Considerando esclusivamente le altre componenti dell’imposta di bollo, si evidenzia invece una crescita dell’8,4% (+448 milioni di euro)» si legge nella nota dell’Economia.

L’altro segnale significativo riguarda, infine, la lotta all’evasione. Tra gennaio e luglio le entrate derivanti dall’attività di accertamento e controllo, comunica il Mef, continua il suo andamento favorevole, in crescita del 12,4% (+528 milioni di euro), mentre le entrate derivanti dall’attività dei giochi sono cresciute dello 0,1% (+8 milioni di euro).

Conti pubblici, entrate in affanno

Conti pubblici, entrate in affanno

Luca Cifoni – Il Messaggero

Il segno è negativo: di poco, ma comunque negativo. Più esattamente, nei primi sette mesi di quest’anno le entrate tributarie si sono ridotte di 1,3 miliardi owero dello 0,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. Il modesto incremento del solo mese di luglio (247 milioni in più, pari ad un +0,7 per cento) non è bastato ad invertire una tendenza non brillante che deriva da un lato dalla mancata crescita (e dallo stesso basso livello di inflazione) dall’altra dalla scelta del precedente governo di maggiorare gli acconti dovuti alla fine dell`anno scorso, penalizzando inevitabilmente gli incassi del 2014.

Di questo andamento non potrà non prendere atto la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), attesa per l’inizio di ottobre. Nel Def dello scorso aprile, in un contesto di previsioni economiche ben più ottimistiche, il Tesoro aveva stimato per quest’anno un incremento nominale delle entrate tributarie (a livello di conto delle amministrazioni pubbliche) intorno al 3 per cento. Un ritmo che ora appare irrealistico, anche se naturalmente è possibile che ci siano dei miglioramenti nei mesi successivi.

In realtà ci sono grandi preoccupazioni per quanto riguarda il 2014: si ritiene che le minori entrate saranno compensate da altre voci positive come la minore spesa per interessi indotta dal forte calo dei rendimenti di mercato. Ma la flessione del gettito si farà sentire anche negli anni successivi, a partire dal prossimo, nel quale andranno trovate le risorse per finanziare una serie di sgravi fiscali a partire da quello sull’Irpef. Più dettaglio, da gennaio a luglio si è ridotto il gettito delle imposte dirette, che si è fermato a 128,2 miliardi (quasi 4,9 in meno con una flessione del 3,7 per cento). La variazione negativa è dello 0,6 per cento per l’Irpef, anche se c’è stato un miglioramento dei versamenti in auto-liquidazione; molto più marcato il calo dell’Ires pagata dalle società, che riflette essenzialmente i minori saldi versati in particolare da banche e assicurazioni che si erano viste portare al 130 per cento la percentuale dell’acconto. Ha invece fruttato 1,7 miliardi l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia, una voce una tantum collegata alla decisione di rivedere gli assetti proprietari della banca centrale.

È invece positiva la tendenza delle imposte indirette, che arrivano a 104,4 miliardi con un incremento del 3,5 per cento (3,6 miliardi in più). Va abbastanza bene l’Iva (+3,1 per cento) ed in particolare quella sugli scambi interni che cresce del 4,1, mentre resta negativa quella sulle importazioni da Paesi extra-Ue che pure ha avuto un segno positivo nel solo mese di luglio.

Sul buon risultato dell’imposta sul valore aggiunto incide naturalmente anche l’aumento di un punto, dal 21 al 22 per cento, dell’aliquota ordinaria. Il ministero dell’Economia segnala infine un incremento del gettito derivante dalle attività di accertamento e controllo che hanno portato 528 milioni in più.

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Francesco Forte – Il Giornale

Il programma che Draghi ha lanciato, operativo dal 3 ottobre, è massiccio, ricco di opportunità e sfide, per combattere la deflazione oramai diffusa in tutta Europa prima che diventi endemica e quindi difficile da sradicare e da rimpiazzare con una normale crescita. Ci sono tre misure inattese che servono a espandere il credito e ad abbassare l’euro (che già ha perso un punto col dollaro). C’è un ribasso del tasso di interesse sui prestiti ordinari alle banche, al livello di 0,05, che è soprattutto simbolico, perché indica la possibilità di una mossa successiva, di tasso negativo su prestiti Bce.

Ci sono poi due misure non convenzionali rivolte direttamente agli operatori economici, cioè imprese e famiglie. Una è l’acquisto da parte della Bce di prestiti obbligazionari coperti da ipoteca o garanzia di primo grado (covered bond), tra cui rientrano i mutui ipotecari immobiliari e le obbligazioni garantite da Stati con rating di A. L’altra è l’acquisto da parte di Bce di crediti di imprese garantiti da garanzie reali e da credibili fatture verso la clientela e le pubbliche amministrazioni (asset backed securities). In futuro Draghi potrebbe varare operazioni non convenzionali rivolte alle banche con prestiti assistiti da loro crediti costituiti da obbligazioni bancarie e titoli pubblici. Non ha fatto ciò ora un po’ per riservarsi questo «colpo di pistola fumante» e un po’ per l’opposizione intema al suo comitato esecutivo. Le misure sono state approvate a maggioranza, non all’unanimità perché la Bundesbank non le gradisce. Forse anche altri avrebbero storto la bocca se ci fossero stati prestiti alle banche con garanzie di titoli del debito pubblico di Stati come il nostro (la Spagna ora ha fatto la riforma del mercato del lavoro e le case tedesche ora assemblano le auto in Spagna).

Renzi ha ricevuto una grossa opportunità da Draghi, perché i prestiti alle imprese e alle famiglie garantiti seriamente possono ricevere prezioso denaro fresco dalla Bce, saltando l’intermediazione bancaria. Ma perché i cavalli (le imprese) e le cavalle (le famiglie) possano fruire adeguatamente di queste opportunita ci vogliono due condizioni: bisogna disporre di regolamentazioni snelle per consentire agli intermediari finanziari di far affluire questi crediti alla Bce; e le famiglie devono essere convinte che convenga investire in immobili (prima casa, ma anche altre) e quindi che le imposte su ciò siano moderate e non siano aumentate all’insegna della «caccia alla rendita», che mette paura. Inoltre occorre che le imprese non siano oberate di imposte e possano disporre di un mercato del lavoro doppiamente flessibile, mediante contratti aziendali orientati al merito e alla produttività e mediante l’impiego anche di addetti a tempo determinato, part time e partite Iva, essenziali nelle economie basate sui servizi (commercio, artigianato e turismo) e su industria e agricoltura, in cui il made inItaly si nutre di servizi specializzati, ma anche nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Banca mondiale in Italia la pressione fiscale sulle imprese è ora il 65,8%: un record mondiale. Seconda la Francia con il 64,7 e terza la Cina con il 63,7. A grande o grandissima distanza la Spagna con il 58,6, la Germania con il 49,4, gli Usa col 46,3, il Regno Unito col 34%. Il cavallo e la cavalla vogliono bere alla fonte di Draghi, ma dirigismi, giustizialismi e fiscalismi populisti mal impostati come l’Irap o gli 80 euro finanziati dalle imposte sugli immobili, impediscono loro di bere.

Il programma Draghi potrebbe servirci a vivacchiare: ci aiuta per gli effetti sul cambio, che in ogni caso faciliteranno l’export verso aree dollaro, yuan e yen e verso i Paesi euro che riusciranno a utilizzare bene le misure della Bce. Inoltre i prezzi aumenteranno un po’ e il nostro Pil aumenterà in moneta, così si ridurrà il rapporto debito/Pil e aumenterà il gettito Iva. Ma noi dobbiamo crescere un po’ di più di 0,5 punti l’anno, per migliorare l’economia, ridurre il debito e la disoccupazione. Non possiamo vivacchiare al traino degli altri. Renzi non sprechi questa occasione, che – comunque – ci aiuterà ma non durerà mille giorni. Nella favola della volpe e del cigno, dall’anfora riuscì a bere il cigno, non la volpe, furba ma con il muso corto.

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Tino Oldani – Italia Oggi

Il premier Matteo Renzi, anche nel nuovo programma dei mille giorni, insiste: il bonus di 80 euro ci sarà anche nel 2015 e deve diventare strutturale, perché, a suo avviso, serve a rilanciare i consumi delle famiglie e, di riflesso, la ripresa dell’economia. Il fatto che finora non vi sia stato un impatto positivo sugli acquisti, non sembra scoraggiarlo. Ma è plausibile che la ripresa possa basarsi su 10 miliardi annui di maggiori consumi? Oppure si tratta di un errore marchiano, basato su teorie economiche fallaci, di cui i consiglieri economici del premier sembrano essere tenaci assertori? E se si tratta di un errore teorico-politico, quale può essere l’alternativa?

La risposta più convincente, a mio avviso, l’ha data Alessandro Pansa, ex amministratore delegato di Finmeccanica con precedenti esperienze di banca (Unicredit, Vitale Borghesi & C, Lazard), in un commento pubblicato di recente sul Corriere della sera. Diversamente da altri critici degli 80 euro, che sostengono sia più utile destinare i 10 miliardi alla riduzione dell’Irap (tesi cara alla Confindustria e al suo giornale, ma anche a Eugenio Scalfari, all’ex ministro Vincenzo Visco e alla fronda interna del Pd vicina a Bersani), Pansa sposta il tiro dagli sgravi fiscali ai nodi irrisolti dell’economia reale, e sostiene che «una crescita duratura, capace di incidere sulla struttura del Paese, delle imprese e del lavoro, non dipende dai consumi, specie in una economia che importa la maggior parte dei beni di valore unitario elevato. Lo sviluppo può essere guidato solamente dagli investimenti delle imprese». Sembra l’uovo di Colombo, e lo è: ma, sul piano politico, significa una bocciatura secca degli 80 euro e delle tesi che fondano la ripresa sugli sgravi fiscali.

Ma come si fa a rilanciare gli investimenti delle imprese in un paese come l’Italia, dove gli imprenditori, come diceva Napoleone Colajanni, sono protagonisti di un «capitalismo senza capitali», e da sempre devono supplicare le banche con il cappello in mano per ottenere un prestito? Negli ultimi tempi, poi, anche le suppliche lasciano il tempo che trovano: la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato ferite profonde, e nonostante i miliardi con i quali la Bce di Mario Draghi ha inondato le banche, il credito rimane assai scarso. Le banche si difendono ricordando che un’impresa su quattro è «deteriorata» (altro brutto neologismo portato dalla crisi, dopo gli esodati), per cui dal 2008 ad oggi le sofferenze bancarie sono salite da 43 a 166 miliardi di euro, portando a 290 miliardi i crediti «deteriorati». Un quadro difficile, sostiene l’Abi, a cui le banche hanno fatto fronte con 50 miliardi di aumenti di capitale, che non hanno alcuna intenzione di perdere con prestiti rischiosi. Eppure, sostiene Pansa, puntare sul credito per investimenti nell’industria rimane l’unica strada valida che il governo dovrebbe perseguire, avendo chiare le difficoltà da superare.

Un paese come l’Italia, per l’ex ad di Finmeccanica, «ha bisogno non di più credito, ma di credito migliore e soprattutto diverso: prestiti concessi per sviluppare tecnologie, innovare prodotti, processi, impianti, macchinari, con condizioni e tassi ritagliati sui piani d’investimento. Ma questo credito per le aziende non c’è». In passato, fino agli anni Ottanta, questo lavoro l’hanno fatto gli istituti di credito speciale (Imi, Mediocredito centrale, Mediobanca, per citare i nomi più noti), dove team di ingegneri specializzati esaminavano i piani di investimento, ne valutavano la solidità e le prospettive, e se convinti della bontà dei progetti elargivano il credito a medio termine. L’Italia industriale è nata così, da una collaborazione costruttiva tra banche e imprese, in assenza della quale non saremmo mai diventati la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania.

E ora? «Questo mestiere le banche italiane, per quanto ci provino, oggi lo fanno poco o nulla» afferma Pansa, per esperienza diretta. Piuttosto che perdere tempo per radiografare un’azienda e i suoi progetti d’investimento, le banche trovano «più redditizio ed eccitante finanziare un leveraged buy out, l’acquisizione di una società finanziata in gran parte ricorrendo al debito». Non solo. Le stesse regole di vigilanza sulla gestione del patrimonio spingono le banche a speculare sui derivati piuttosto che immobilizzare risorse in aziende di medie dimensioni, non quotate e senza rating.

Se lo scenario è questo, che si può fare? Gettare la spugna e arrendersi al declino? Giammai, dice Pansa, che suggerisce al governo una soluzione concreta: «Si vuole fare davvero politica industriale in Italia? Allora si crei una banca di credito a medio-lungo termine. Non è molto difficile: all’inizio bastano pochi miliardi di patrimonio (3 o 4), coinvolgendo come azionisti un grande istituto di credito, una grande compagnia di assicurazioni, e una o più casse di previdenza». Sfruttando anche i miliardi a basso tasso d’interesse della Bce, in poco tempo i fondi disponibili potrebbero arrivare a 100 miliardi, e le imprese che hanno progetti d’investimento validi potrebbero trovare finalmente il credito che oggi non c’è, nonostante l’abbondanza di liquidità, dovuta ai miliardi della Bce a costo quasi zero, che le banche usano per comprare Bot e Btp e avere così rendimenti più facili e sicuri rispetto al credito industriale.

In sintesi, una sfida vera sul piano della governance: non più politici maneggioni, come quelli che dicevano «allora, abbiamo una banca?», ma un premier che si faccia lui stesso promotore di un nuovo, grande istituto di credito a medio-lungo termine, anche mettendo insieme pubblico e privato. Perché senza credito all’industria, la crescita è destinata a restare uno slogan politico vuoto, un’illusione che l’Italia rischia di pagare con un declino senza ritorno e, checché ne dica Beppe Grillo, per nulla felice.

Quel commercio senza aiuti

Quel commercio senza aiuti

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Se non riparte la domanda interna, non riparte l’intera Azienda Italia. I dati del Rapporto Coop testimoniano, ancora una volta, la drammatica crisi della capacità di spesa delle famiglie. Ci vuole dunque una scossa forte, urgente, che stimoli investimenti e nuovo lavoro e dia fiducia ai consumatori. Servono ricette nuove. Proviamo a dare incentivi alle promozioni.

Alleggeriamo dunque il fisco su lavoro e imprese, ridiamo fiducia alle famiglie, diamo vantaggi concreti a chi fa promozioni ma facciamo presto, altrimenti perdiamo anche il treno del 2015. La crisi dei consumi, determinata in generale dal progressivo dimagrimento dei redditi e dalle turbolenze del mercato del lavoro, si protrae da anni ed oggi presenta un consuntivo pesante, come testimoniano i risultati del Rapporto Coop. La crisi ha anche provocato mutazioni profonde nei comportamenti di spesa delle famiglie costrette a razionalizzare drasticamente gli acquisti.

Ciò che dobbiamo fare oggi però è guardare avanti, traendo profitto dalla lezione di questi anni. Siamo infatti a un punto che potrebbe essere di svolta. Un punto dal quale è possibile iniziare un il recupero della domanda interna. Alcuni segnali ci sono, come quelli che arrivano dal fronte dei mutui, ad esempio, in moderata ma apprezzabile ripresa. Le decisioni espansive della Bce possono costituire la cornice macro di interventi che il Governo dovrebbe però adottare in tempi rapidi per stimolare il mercato interno. Ci vorrebbe un mix di iniziative tra alleggerimento fiscale e bonus per incentivare i consumi. Il punto è che i provvedimenti temporanei esauriscono i benefici nel tempo. Sarebbe invece opportuno pensare a un percorso di alleggerimento e di incentivazione che diventasse stabile con il tempo. Il tutto accompagnato da un rilancio della modernizzazione dei canali distributivi. Il fatto che per la prima volta sia in calo la quota di nuove superfici di vendita delle strutture moderne è un segnale davvero preoccupante, in aggiunta alla grave crisi del dettaglio tradizionale. Più investimenti e più concorrenza nel settore commerciali portano a prezzi più convenienti in termini relativi.

Dobbiamo recuperare poi due divari chiave: quello con gli altri Paesi leader d’Europa, rispetto ai quali la dinamica della domanda interna italiana è sempre più distante, e quello domestico. La spesa delle famiglie flette un po’ ovunque in media ma al Sud il calo è tre volte più alto rispetto al Nord.

Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

La sveglia di Draghi per la politica

La sveglia di Draghi per la politica

Jean Pisani Ferry – Il Sole 24 Ore

I banchieri centrali vanno spesso fieri di essere noiosi. A eccezione di Mario Draghi. Due anni fa, a luglio 2012, il presidente della Banca centrale europea colse tutti di sorpresa annunciando che avrebbe fatto «whatever it takes», ovvero qualsiasi cosa, per salvare l’euro. L’impatto fu grande. In questi giorni Mario Draghi ha approfittato del simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole, nel Wyoming, per lanciare un’altra bomba. Il suo discorso stavolta è stato più analitico, ma non meno ardito.

1) Il governatore della Bce ha preso posizione nel dibattito in corso sulla risposta politica più adeguata per far fronte all’attuale stagnazione dell’eurozona. Draghi ha sottolineato che, oltre alle riforme strutturali, bisogna sostenere la domanda aggregata e che il rischio di fare «troppo poco», supera quello di fare «troppo».
2) Draghi ha confermato che la Banca centrale europea è pronta a fare la sua parte per stimolare la domanda aggregata e ha parlato del quantitative easing, la politica di acquisto di bond, come strumento necessario in un contesto in cui le aspettative inflazionistiche sono scese sotto l’obiettivo ufficiale del 2 per cento.
3) Suscitando la sorpresa dei più, Draghi ha aggiunto che c’è spazio per una posizione fiscale più espansionistica nell’eurozona in generale. Per la prima volta, il governatore ha affermato che l’eurozona ha sofferto per l’insufficienza e l’inefficacia delle politiche fiscali di Usa, Regno Unito e Giappone attribuendolo non agli elevati deficit pubblici preesistenti, ma al fatto che la Bce non potesse fare da cuscinetto finanziario ai governi e risparmiare alle autorità fiscali la perdita della fiducia del mercato. Inoltre, ha auspicato un dibattito fra i membri dell’euro su una politica fiscale unitaria dell’eurozona.

Draghi ha infranto tre tabù in un colpo solo: 1) Ha fondato il suo ragionamento sul concetto eterodosso di un mix politico che combina misure monetarie e misure fiscali. 2) Ha parlato esplicitamente di una politica fiscale comune quando l’Europa ha sempre ragionato solo su base nazionale. 3) La sua affermazione secondo la quale impedire alla Bce di agire come prestatore di ultima istanza comporta uno scotto elevato – rendendo vulnerabili i governi e riducendo il loro spazio fiscale – contraddice il principio secondo il quale la Banca centrale non deve sostenere il prestito ai governi.

Il fatto che Draghi abbia scelto di sfidare l’ortodossia, in un momento in cui la Bce ha bisogno di sostegno per le proprie iniziative, fa capire quanto sia preoccupato per la situazione economica dell’eurozona. Il suo messaggio è che il sistema politico, così come funziona attualmente, non è adatto alle sfide che si prospettano all’Europa, e che sono necessari ulteriori cambiamenti politici e istituzionali. Ora resta da vedere se – ed eventualmente come – questo coraggio a parole si tradurrà in un’azione politica. Ci sono sempre meno dubbi sui benefici del quantitative easing da parte della Bce, quella misura che è stata a lungo considerata come troppo “non convenzionale” per essere contemplata, ha gradualmente guadagnato consensi. A livello operativo sarà difficile da attuare perché la Bce, a differenza della Federal Reserve, non può contare su un mercato obbligazionario unificato e liquido, e la sua efficacia resta incerta. Ma con buona probabilità si farà.

Al tempo stesso ci sono pochi dubbi sul fatto che la politica fiscale non soddisferà le aspettative di Draghi. In Europa manca una visione comune su una politica fiscale e il cuscinetto che la Bce potrebbe offrire agli Stati sovrani può essere concesso solo ai Paesi che s’impegnano ad adottare una serie di politiche negoziate. Persino questo sostegno condizionato nel quadro del programma di Outright monetary transactions (Omt) della Bce è stato osteggiato dalla Bundesbank e dalla Corte costituzionale tedesche. L’iniziativa di Draghi su questo fronte andrebbe così interpretata non solo come un’esortazione a passare all’azione, ma anche e forse ancora di più, come un’esortazione a riflettere sull’approccio futuro della politica europea. La questione è la seguente: come può l’eurozona definire e attuare una politica fiscale comune senza avere una politica di bilancio comune?

L’esperienza internazionale mostra che il coordinamento volontario serve a poco. Quanto è accaduto nel 2009 è stata una rara eccezione; crolli come quello seguito alla bancarotta di Lehman Brothers – così improvvisi, nefasti e fortemente simmetrici – si verificano una volta in decine e decine di anni. All’epoca, tutti i Paesi si sono trovati praticamente nella stessa situazione e tutti hanno condiviso la stessa preoccupazione che l’economia globale potesse scivolare in una depressione. Oggi il problema dell’Europa, per quanto serio, è diverso: un significativo sottogruppo di Paesi non ha uno spazio fiscale in cui muoversi e non sarebbe così in grado di sostenere la domanda. E, anche se la Germania sta andando molto meglio di tutti ed è dotata di uno spazio fiscale, non intende usarlo a beneficio dei suoi vicini di casa. Se deve essere intrapresa un’azione fiscale congiunta, occorre mettere in atto un meccanismo specifico per farla partire. Si potrebbe pensare a una procedura decisionale congiunta che, in alcune condizioni, prevedesse l’approvazione del Parlamento nazionale e di una maggioranza di Paesi membri (o dal Parlamento europeo) per le normative sul bilancio.

Oppure si potrebbe pensare a un meccanismo ispirato ai permessi di deficit negoziabili immaginati da Alessandra Casella della Columbia University: ai Paesi verrebbe concesso un permesso sul debito, ma sarebbero liberi di negoziarlo. Un Paese che mira a registrare un deficit minore potrebbe così decidere di cedere il suo permesso a un altro che intende registrarne uno più elevato. In questo modo sarebbe raggiunta la soglia comune prevista pur venendo incontro alle preferenze nazionali. Qualsiasi meccanismo del genere pone una serie di domande, ma il fatto che sia l’autorità responsabile dell’euro a sollevare la questione fa capire come l’architettura della moneta comune sia ancora in divenire. Pochi mesi orsono, erano tutti d’accordo sul fatto che fosse ormai superato il momento di ripensare l’euro e che l’eurozona avrebbe dovuto convivere con l’architettura ereditata dalle riforme attuate con la crisi. Ora non è più così. Potrebbe volerci del tempo prima di raggiungere un accordo e prendere delle decisioni, ma il dibattito riprenderà. E questa è una buona notizia.