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Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Renato Brunetta – Il Giornale

Prima presa d’atto di un disastro da tempo annunciato e per troppo tempo esorcizzato nella speranza di un improbabile miracolo. È il quadro che emerge dalla nota di aggiornamento del DEF, nei suoi dati essenziali. Per le ulteriori specifiche, che hanno comunque un valore rilevante, dovremo aspettare il varo definitivo del documento. Al momento top secret. Ma quello che è stato approvato dal Consiglio dei ministri di ieri è sufficiente per tracciare un quadro a tinte fosche dell’economia – e della società – italiana. Che fa naufragare ogni ottimismo di maniera.

Cominciamo dal dato della crescita, anzi della de-crescita. All’inizio della sua avventura (aprile 2014) Matteo Renzi aveva previsto, per l’anno in corso, un aumento del PIL dello 0,8%. Se le nuove previsioni saranno confermate, chiuderemo con una caduta dello 0,3%. E quindi una differenza rispetto al dato iniziale dell’1,1%. Dobbiamo dare atto a Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, di aver resistito alla tentazione di giocare con le cifre. Almeno per il 2014, dove il rischio di un’immediata smentita era molto più forte. La nuova previsione approssima quella dell’OCSE, che indicava per il 2014 una caduta dello 0,4%.

Con la stessa franchezza, tuttavia, diciamo che non ci convince l’ipotesi che per il prossimo anno, il 2015, l’economia italiana, in assenza di un forte cambiamento della politica economica, possa crescere dello 0,6%. Bene che vada, il semplice abbrivio porterà ad un valore che è pari alla metà, con la conseguenza di spingere il deficit, che nelle previsioni già balla pericolosamente sul baratro del 2,9%, oltre la soglia canonica prevista dalle regole di Maastricht. Risultato poco invidiabile: visto che è dal 2012 (Governo Monti) che non riusciamo ad abbassare quella febbre. Sintomo vistoso delle contraddizioni strutturali – soprattutto la bassa produttività – dell’economia italiana. Finora ci ha salvato la rivalutazione contabile del PIL che ha ridotto di 0,2 punti di PIL quel valore. Ma si tratta di un evento irripetibile.

La dimostrazione di quest’assunto è nelle previsioni circa l’andamento del debito, che in rapporto al PIL è previsto scendere da un’iniziale 134,9% del PIL al 131,6%. Con una flessione di oltre 3 punti. Un’evidente stonatura, che ha solo una giustificazione contabile. In percentuale il debito scende, ma solo come effetto della revisione statistica del PIL. Non per merito della politica economica del governo. Tutt’altro. Le nuove regole europee (Sec 2010) hanno regalato a tutti i Paesi una rivalutazione dei precedenti valori, includendo nei nuovi calcoli tra l’altro le attività illegali (dalla prostituzione al traffico di droga), che per l’Italia è stata pari al 3,8%. In valore assoluto qualcosa come 58 miliardi. C’è poi da aggiungere che con riferimento al debito pubblico, pur nel quadro ottimistico appena tracciato, è previsto l’ennesimo aumento: dal 131,6% nel 2014 al 133,4% nel 2015.

Qualche settimana fa Wolfgang Munchau, dalle colonne del Financial Times, prospettava l’ipotesi di una inevitabile crescita del rapporto debito/PIL italiano al 150%: l’anticamera del suo default, con conseguenze drammatiche sulla stessa tenuta dell’euro. Le proiezioni realistiche di quel rapporto indicano che quel rischio non è da sottovalutare. Dovrebbero spingere il Governo ad accelerare sul fronte delle privatizzazioni, secondo quanto previsto dalla legge di stabilità varata dal Governo Letta, in cui si prevedevano interventi per 10 miliardi all’anno, per l’intero triennio. Di quel programma è stato realizzato solo una minima parte: più o meno un decimo. Alla fine dell’anno mancano pochi mesi e forse qualcosa si può ancora fare. Ma occorre recuperare, rapidamente, il tempo perduto.

Perché è così importante soffermarsi sul problema del debito? Le regole europee impongono ai Paesi, condizionati dal peso eccessivo di quel fardello, procedure di rientro, che sono misurate dall’andamento del deficit strutturale di bilancio. Quest’ultimo dovrebbe essere compreso tra lo zero e meno 0,5. Per il 2014 il DEF aveva previsto una soglia dello 0,6, contestata dalla Commissione europea, secondo la quale quel valore era pari allo 0,8 per cento. Ancora maggiore lo scarto nelle previsioni per il 2015: 0,1 da parte del Governo e 0,9 da parte della Commissione. In simili circostanze, i Trattati prevedono un aggiustamento pari allo 0,5 % del PIL (circa 8 miliardi di manovra).

Il Consiglio dei Ministri ha invece fatto orecchie da mercante, prevedendo esplicitamente un “rallentamento nel percorso di avvicinamento”. L’aggiustamento sarà solo dello 0,1 per cento. Ipotizzando (i conti senza l’oste), altresì, l’ulteriore rinvio di un anno (non più il 2016 come originariamente previsto, ma il 2017) nel conseguimento dell’obiettivo di medio termine. Una nuova scommessa, all’insegna del moral hazard. Profezia fin troppo facile, almeno a giudicare dalle reazioni immediate del portavoce del Commissario agli affari economici dell’Ue, Jyrki Katainen, il grande falco che vigila sugli adempimenti dei trattati. Che l’Italia rispetti le raccomandazioni della Commissione, dove non c’era traccia dell’assenso al rinvio del pareggio del bilancio per il 2016. Figuriamoci se il “rallentamento del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine” al 2017 (un anno ancora dopo) – come recita pudicamente il comunicato di Palazzo Chigi – potrà fargli cambiare idea.

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paolo Bracalini – Il Giornale

Col taglio dei rimborsi elettorali si taglia anche il personale in eccesso nei partiti politici. I quali hanno un vantaggio mica da poco rispetto alle aziende: possono licenziare da un giorno all’altro senza rischiare cause di reintegro davanti ad un giudice, perché il reintegro non c’è. Per i partiti l’articolo 18 non vale, ti mandano a casa e tanti saluti. E succede anche nel Pd, proprio quello della vecchia ditta che fa la guerra a Renzi per aver attentato al dogma dell’articolo 18. Così, se scaduti i due anni di cassa integrazione in cui sono stati messi nove dipendenti del Pd in Sicilia (guidato dal già bersaniano e «giovane turco» Fausto Raciti) non ci saranno più i soldi per riassumerli, scatterà il licenziamento e amen. Alcuni di loro hanno già chiesto, in via informale, tramite lettere, di essere ripresi dal Pd regionale, ma finché gli eletti – consiglieri regionali e parlamentari Pd siculi – non si decideranno a versare tutti la loro quota, e il buco nelle casse non sarà coperto, resteranno a casa. Ma qui nessun giudice può ordinare nessun reintegro, perché c’è una legge che lo dice, la 108 del 1990: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto».

Ne sa qualcosa il signor Carmine De Guido, funzionario assunto a tempo indeterminato prima dal Pds, poi dai Ds, quindi in forze al Pd a Taranto, e licenziato telefonicamente, nel 2012, con una comunicazione del tesoriere Ugo Sposetti, senatore non renziano del Pd. De Guido è un dipendente dei Ds, non del Pd, anche se lavora per il Pd, e i Ds non possono pagare lo stipendio a un dipendente del Pd, formalmente un partito diverso. E quindi arrivederci. Da quel giorno De Guido cerca rassicurazioni dai vertici Pd, chiama Fassina, scrive lettere a D’Alema, a Bersani. Gli arrivano conferme che tutto sarà risolto, di continuare a lavorare per il Pd, mentre i suoi stipendi non arrivano, per sei mesi. Finché il dipendente fantasma – nel senso che c’è ma non viene pagato ed è formalmente licenziato – fa causa al giudice del lavoro, per il reintegro. Non però facendo leva sull’articolo 18, che per il Pd non vale, ma sulla modalità del licenziamento, solo verbale. Il Tribunale gli dà ragione ma il partito no, e il reintegro non avviene. Anzi, impugna la sentenza. Per fortuna del Pd che lo Statuto non si applica come nelle aziende, sennò dovevano riprenderselo o indennizzarlo. Il tutto esploso durante la segreteria di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil, che invece si era indignato per gli operai non reintegrati dalla Fiat a Melfi («Marchionne non può fare così. Non si gioca con la vita delle persone»).

In effetti non è solo il Pd a poter beneficiare di una zona franca per il licenziamento. Anche la Cgil della Camusso ha lo stesso privilegio. Renzi lo ha ricordato: «Il sindacato è l’unica impresa sopra i 15 dipendenti e non lo applica» (in realtà anche i partiti). E infatti licenzia, tanto che è nato un sito, «licenziatidallacgil.blogspot.it», fondato dal gruppo «Comitato dei Lavoratori Licenziati dalla Cgil». Molti si presentano con nome e cognome e licenziamento: Alma Bianco, licenziata dalla Cgil di Messina, Ivana Gazzino, licenziata dalla Cgil di Udine, Luca Paoli licenziato dalla Cgil di Firenze, Franca Imbrogno, licenziata dalla Cgil di Milano, Roberto Lisi, licenziato dalla Cgil Lazio, e tanti altri. Basta farsi un giro su quel sito per trovare decine di storie, documentate, che raccontano la faccia meno nota del sindacato, quello che impiega la gente in nero, che viene condannato per mobbing o licenzia. Tanto l’articolo 18 lì non vale. Scrive il Comitato: «Com’è possibile che dentro un sindacato accadano queste cose? Semplice: ai sindacati non si applica lo Statuto dei lavoratori. Il famoso articolo 18 considera nullo il licenziamento quando avviene senza giusta causa o giustificato motivo. La mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che prescrive una legge che disciplini l’attività sindacale, ha permesso alle organizzazioni dei lavoratori di operare in deroga». Tradotto: di licenziare senza paura del reintegro.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.

Visibilità ottima

Visibilità ottima

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Era il 1994 quando il Corriere della Sera salottiero e la Cgil barricadiera lanciarono tenendosi a braccetto l’assalto al neopremier e astro nascente della politica Silvio Berlusconi, da pochi mesi insediato a Palazzo Chigi. Il famoso avviso di garanzia recapitato via stampa al G8 di Napoli e lo sciopero generale contro le riforme di lavoro e pensioni furono un uno-due micidiale che costrinse il centrodestra a mollare il governo in mano a un tecnico, Dini, e alla sinistra più retriva. Sono passati vent’anni e la storia si ripete.

In settimana è partito l’affondo del Corriere contro il neopremier, ieri la Camusso ha chiuso il cerchio minacciando, sulla riforma del lavoro targata Renzi, lo sciopero generale. Anche il tintinnio di manette c’è, più ovattato rispetto al ’94, ma c’è. E pure i vescovi non stanno alla finestra. Del resto quando mai lo sono stati? Basti ricordare che il governo Monti nacque in un convento e il suo partito in una sacrestia. Tutto lecito, per carità. Sacra è la libertà di opinione e di informazione, legittima è la protesta sindacale, liberi i giudici di indagare e i preti di pregare che le cose vadano secondo i piani del loro personalissimo Dio. Ma vogliamo mettere almeno sullo stesso piano la libertà dei governi di governare e delle maggioranze di legiferare? Già i politici ci costano un occhio della testa, se poi li costringiamo a non far niente perché a decidere devono essere altri, be’ almeno non lamentiamoci poi dell’inutilità della casta.

Sulla riforma del lavoro si sono formate maggioranze strane. Berlusconi la appoggia, coerente con se stesso e i principi liberali del suo partito. Alleati con la Cgil ci sono mezzo Pd parlamentare (quello della Bindi e di Bersani), Vendola e l’immancabile Grillo, quello che doveva cambiare tutto e che è invece diventato il più feroce dei conservatori. Dentro Forza Italia c’è qualche maldipancia a dare un aiuto a Renzi anche su questo tema. Raffaele Fitto, per esempio, invoca una «opposizione visibile». Dico io, quale occasione migliore per essere visibili che votare questa legge e vendicarsi del ’94, dimostrando a Corriere, Cgil, magistrati e vescovi quanto miopi furono. È la sinistra che con Renzi, sui temi impresa e lavoro, viene sulle posizioni di Forza Italia, non viceversa. Se saprà stare unito, prevedo visibilità ottima, per il centrodestra.

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

Renato Brunetta – Il Giornale

Fino a che punto i mercati avranno fiducia nell’Italia, dopo il taglio delle previsioni di crescita del Pil da parte dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale? Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario, ancorché in diminuzione, della Federal Reserve. Siccome «non sanno più dove mettere i soldi», l’acquisto di titoli di Stato italiani ha rappresentato ancora una strategia ragionevole: sono comunque titoli meno rischiosi di quelli dei paesi emergenti e garantiscono un rendimento conveniente.

La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed (Taper off già previsto per ottobre) e la conseguente riduzione di liquidità a livello internazionale. A quel punto, con meno soldi in circolazione, le scelte di portafoglio dei gestori dovranno essere più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno proprio quelli italiani se, per quella data, ben più vicina dei mille giorni di Matteo Renzi, il nostro paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento. E, in assenza di decisioni concrete da parte del governo o, peggio, di crisi all’interno del più grande partito della maggioranza che governa il paese, tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015.

E l’allarme crescita, in Italia e in Europa, è stato al centro anche degli incontri dei ministri dell’Economia e delle finanze e dei banchieri centrali dei paesi del G20 riuniti a Cairns, in Australia. Proprio nei giorni in cui un altro quotidiano inglese, il Financial Times, pubblicava l’indiscrezione secondo cui il membro belga del Consiglio direttivo della Bce, Benoït Cœuré, e Jörg Asmussen, ex Bce, ora vice-ministro del Lavoro tedesco, hanno chiesto al governo di Angela Merkel di ridurre le tasse sul lavoro e aumentare gli investimenti pubblici, fino a 18 miliardi nel 2015 e 10 miliardi nel 2016 (rimanendo, quindi, ampiamente nel rispetto dei parametri europei in termini di rapporto deficit/ Pil) per fare da traino alla crescita in Europa. In altri termini: reflazione. Lo scriviamo da 3 anni. Significa aumento della domanda interna tedesca, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per la Germania e per l’intera area dell’euro.

Rispetto alla situazione interna ed europea/internazionale descritta fino ad ora, il Partito democratico spaccato sulla riforma del mercato del lavoro introduce un ulteriore elemento di instabilità, di cui l’Italia proprio non aveva bisogno. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, deve, pertanto, fare chiarezza subito. Deve fare delle scelte. E non solo sul lavoro, ma anche sul fisco, sulla burocrazia, sulla politica economica, sulla giustizia, sull’Europa. Da che parte sta? Ce lo dica. O di là, o di qua. Di là c’è il corpaccione del Pd parlamentare, della Cgil, dei poteri forti finanziari e delle Coop. Di qua c’è la maggioranza del paese, ci siamo noi, c’è il centrodestra: brutto, sporco e cattivo, ma dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani.

Se qualche dubbio resta, basta considerare le diagnosi avanzate dai principali Organismi internazionali. Dopo l’Ocse della scorsa settimana, che ha bruciato gli ottimismi di Matteo Renzi, proprio il giorno prima di recarsi in Parlamento per spiegare il suo programma dei mille giorni, è stata la volta del Fondo monetario internazionale. Anche per Washington previsioni al ribasso. Da un iniziale 0,6% di crescita per il 2014, si passa a un meno 0,1%. Ma non è questa la cosa, almeno per noi, sorprendente. Ciò che non quadra è che il Fondo Monetario ha lasciato inalterate le previsioni di crescita per gli anni successivi. Come se il 2014 fosse una semplice parentesi e non avesse un impatto negativo almeno per il 2015.

Per il resto la previsione è nera. Un debito che sale fino al 136,4%, ma che rischia, in caso di choc esterni, di raggiungere il 150%: l’anticamera del default. Un deficit nominale che difficilmente riuscirà ad allontanarsi dal tetto del 3%, trascinando con sé un deficit strutturale, corretto, cioè, per l’andamento del ciclo, troppo alto per lasciare intravvedere una possibile correzione della traiettoria del debito. Mentre il tasso di disoccupazione resterà inchiodato a quel 12,6% che toglie il respiro.

Il possibile miglioramento è affidato a ricette discutibili per le loro contraddizioni in termini. Una manovra per il 2015 di circa 27,2 miliardi di euro al fine di riportare il deficit strutturale dallo 0,8 allo 0,3% del Pil (8 miliardi), di ridurre il cuneo fiscale (14,4 miliardi), di aumentare le spese per le scuole (4,8 miliardi). Con forme di copertura a carico soprattutto dei contribuenti: riducendo le agevolazioni fiscali (12,8 miliardi), introducendo una nuova tassa sulla ricchezza (4,8 miliardi) e sulle rendite finanziarie (i Bot?), con un introito di 3,2 miliardi. Mentre dalla Spending review, altro che i 13 miliardi previsti nell’ultimo Def, o i 20 miliardi sbandierati da Renzi: si avrebbero risparmi pari a solo 4,8 miliardi.

Morale della favola: un aumento netto della pressione fiscale di 6,4 miliardi. Nuovo capitolo della saga dell’austerity. L’insistere sulle vecchie pratiche del passato (manovre correttive) dimostra che quegli insegnamenti non sono serviti. L’Italia conserva il triste primato della maggiore lontananza dai valori antecedenti la crisi del 2007. Mentre la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare quel gap, il nostro scarto supererà alla fine dell’anno i 9,5 punti di Pil. Su questo dato di fondo dovrebbe concentrarsi l’attenzione per acquisire una consapevolezza nuova.

Gli interventi di tipo macroeconomico (leggi manovre a ripetizione) sono ormai più un vincolo che non una risorsa. I margini si sono progressivamente prosciugati, senza che vi sia stato un reale beneficio in termini di sviluppo o di benessere collettivo. Lo dimostrano gli scarsi successi conseguiti nel campo della politica monetaria. Nonostante i lodevoli sforzi di Mario Draghi e le difficoltà incontrate nel vincere le resistenze (soprattutto) tedesche, i risultati, almeno, finora sono stati deludenti. Il cavallo – le richieste solvibili delle aziende – continua a non bere. Forse è ancora troppo presto; sta comunque il fatto che le erogazioni della Bce, per mancanza di domanda, sono state di gran lunga inferiori alle aspettative.

Sono queste le considerazioni che ci fanno insistere in modo particolare sull’importanza di due riforme: mercato del lavoro e fisco. Almeno in questo siamo d’accordo con il giudizio dell’FMI. Per quella cruna dell’ago passa la spinta ad una maggiore produttività aziendale, che non è una concessione a favore del padronato. Ma lo strumento attraverso il quale si crea maggiore ricchezza. Che, a sua volta, è presupposto di un benessere da ripartire seguendo criteri di equità. Da questo punto di vista la sopravvivenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come è ora, è un macigno insormontabile. Non solo non abbiamo nulla contro i lavoratori, ma vogliamo supportare il loro sforzo individuale per migliorare le proprie condizioni di vita, in una partecipazione attiva al processo produttivo.

Queste sono le implicazioni della battaglia di ottobre e dei prossimi 100 giorni. Contro le pigrizie, soprattutto, intellettuali. Il semplice quieto vivere in un mondo che cambia a ritmi impressionanti. Discorso che vale per il privato, ma soprattutto per il pubblico, dove quelle stesse tutele: il posto fisso sempre, si sono trasformate in un privilegio inaccettabile. Ed ecco allora la saldatura. Vogliamo ridurre il carico fiscale proprio per tagliare l’erba che alimenta il tran tran parassitario e sottrae risorse per completare una modernizzazione finora dimezzata, come il celebre visconte della trilogia di Italo Calvino. Impegno che richiede, indubbiamente, una gran fatica. O di qua o di là. O con la vecchia guardia dei conservatori (Pd in testa), o con chi vuole cambiare e salvare l’Italia. Non c’è più tempo.

Renzi non paga. Trattiamo

Renzi non paga. Trattiamo

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Matteo Renzi ha perso la scommessa fatta in diretta tv nel salotto di Bruno Vespa, con me casuale testimone: lo Stato non è riuscito a pagare entro il 21 settembre i suoi debiti con imprese e fornitori. Mancano all’appello 35 dei 60 miliardi e poco importa se la colpa è della politica, della burocrazia o di chiunque altro. Tra le tante promesse questa era sicuramente la più importante. Altro che legge elettorale, altro che ridimensionamento del Senato o rivoluzione nella scuola. Trentacinque miliardi sono una montagna di soldi che avrebbero potuto salvare imprese e famiglie dalla morsa della crisi. Azzerare i debiti della pubblica amministrazione era e rimane la più urgente delle riforme. Se la Camusso, la Cgil e i sindacati tutti, invece che rompere i santissimi per boicottare la riforma del lavoro avessero protestato, urlato e scioperato per ottenere il pagamento dei debiti, avrebbero fatto cosa meritoria per i lavoratori e il Paese intero. Perché una cosa è certa: il lavoro lo si difende solo aiutando e proteggendo gli imprenditori, soprattutto quelli medi e piccoli. Cosa questa a cui ha rinunciato anche Confindustria, un carrozzone che negli ultimi anni, sotto la gestione di Montezemolo e della signora Marcegaglia, ha avuto colpe nella conservazione sfascista non di molto inferiori a quelle dei sindacati.

Se i destinatari dei rimborsi – in maggioranza piccole e medie imprese – fossero stati storicamente decisivi per formare il consenso elettorale della sinistra sono certo che l’impegno di Renzi a mantenere la promessa nei tempi indicati sarebbe stato ben altro. Purtroppo per loro non è così. E allora ecco la necessità che il centrodestra, che di quelle categorie è il principale referente politico, aiuti sì Renzi nella sua spallata al sindacato e in generale ai più biechi conservatorismi che ostacolano la ripresa. Ma non gratis. Chi produce beni per venderli (anche) allo Stato – così come poliziotti e carabinieri – non vale meno dei dipendenti meritevoli degli ottanta euro, degli insegnanti. Fare ostruzione sulla nomina dei membri laici della Consulta e del Csm è roba loro. Ci piacerebbe vedere presto deputati e senatori del centrodestra bloccare il Parlamento per sbloccare i 35 miliardi che mancano all’appello. Oppure appoggiare la riforma del lavoro di Renzi se unita a un decreto che sospende il pagamento degli oneri aziendali per i nuovi assunti (costo zero per l’erario). Insomma, fare – assieme a Renzi – cose liberali.

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Stefano Zurlo – Il Giornale

Non siamo in alto mare, ma la riva è ancora lontana. Per arrivare a terra e trasformare l’Italia, almeno su questo lato, in un Paese normale ci vorrebbero altri 35 miliardi di euro. Trentacinque miliardi che le imprese italiane, alle prese con i morsi di una crisi che non vuol passare, aspettano dalla pubblica amministrazione. Niente da fare. Matteo Renzi ha perso la sua scommessa. Qualcosa si è mosso, metà circa dei debiti, a spanne perché pure le cifre sono ballerine e cambiano a seconda di chi le stima, è stata pagata. Ma molto, moltissimo resta da fare. E i tempi della nostra burocrazia sono migliorati ma rimangono lenti. Terribilmente lenti per chi vorrebbe misurarsi con i parametri europei: ci vogliono 165 giorni per saldare il dovuto. Troppi se si tiene a mente che la direttiva dell’Ue indica un periodo che oscilla fra i 30 e i 60 giorni per soddisfare le richieste dei creditori.

È la Cgia di Mestre, l’agguerrita associazione delle piccole imprese venete, a fare due conti e a bacchettare il premier Pinocchio. All’appello mancano almeno 35 miliardi su un totale, quello conteggiato da Bankitalia, di 75 miliardi. Siamo in realtà, considerando anche la porzione di debiti stornata e ceduta agli istituti di credito, a metà, anzi un po’ meno, dell’arduo cammino. Renzi ha illuso gli italiani. La sfida viene lanciata la scorsa primavera quando il premier si presenta nel salotto di Bruno Vespa e azzarda: «Facciamo un contratto serio. Se il 21 settembre, giorno di San Matteo, noi abbiamo sbloccato i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione lei va a Monte Senario a piedi da Firenze». Vespa ridacchia compiaciuto: «Se riuscite a pagare i debiti io vado in pellegrinaggio». San Matteo è arrivato, ma Matteo, fra una promessa e l’altra, non ha fatto il miracolo. Ha accorciato la distanza che separa lo Stato dalle industrie, ma la vergognosa zavorra che frena lo sviluppo è ancora lì. Fra un discorso e un comizio. I fuochi d’artificio non bastano per far guarire il malato Italia. E la Cgia aspetta al varco, sulla linea del calendario, il presidente del consiglio che non ha onorato il contratto stipulato davanti alle telecamere di Porta a porta. «Purtroppo – spiega il leader della Cgia Giuseppe Bortolussi – la promessa non è stata mantenuta».

I numeri sono impietosi: secondo i dati del ministero dell’Economia nel biennio 2013-14 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi. Entro il 21 luglio ne sono stati pagati 26,1. Non basta. A sentire il ministro Pier Carlo Padoan, dopo il 21 luglio la pubblica amministrazione ha versato altri 5-6 miliardi. Dunque, al momento, dovremo essere a quota 31-32. Un totale ragguardevole, ma lontano dalla meta fissata a quota 66,6. Siamo, sempre a spanne, a 35 miliardi di euro dal traguardo fissato appunto a 66,6 perché allo stock di 75 miliardi devono essere sottratti 8,4 miliardi di debiti girati dalle imprese alle banche e dunque fuori dal perimetro del mondo industriale. Certo, Renzi vedrà il bicchiere mezzo pieno, ma alla Cgia notano quel che manca: «Per azzerare complessivamente il debito accumulato con le aziende – prosegue implacabile Bortolussi – la pubblica amministrazione deve pagare, in linea di massima, ancora 35 miliardi». Il traguardo è ancora un miraggio. E Renzi a questo punto dovrebbe fare penitenza. «Se perdo io la scommessa – aveva detto a Vespa nel corso della trasmissione – potete immaginare dove mi manderanno gli italiani. Non sarà a Monte Senario».

Insomma, l’annuncite del premier rischia, col passare del tempo, di trasformarsi in un boomerang. In una somma impresentabile di sconfitte, ritardi, riforme arenate. E il malcostume non è solo un retaggio del passato. «I debiti – attacca Bortolussi – potrebbero aumentare ulteriormente a seguito del perdurare dei ritardi con cui lo Stato paga i fornitori». Siamo intorno ai 165 giorni. Meglio di prima, ma lontanissimi dalle tabelle europee. «Se in questo ambito – è la conclusione – anche le pubbliche amministrazioni di Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia sono più efficienti della nostra, vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto». Altro che Monte Senario.

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’economia non è una scienza esatta, ma un suo postulato pressoché inconfutabile recita che in periodi di recessione non si possono applicare politiche di bilancio estremamente restrittive (tipo aumentare le tasse sperando di fare meno deficit) perché altrimenti la crescita non ritornerà per molto tempo. L’Italia ha spesso ignorato questa semplice regola e, dopo 7 anni di vacche magre, i risultati sono sempre più modesti.

Un esempio lampante viene dal Centro Studi Promotor (Csp) che ha analizzato i consumi di carburanti nei primi otto mesi del 2014. Ebbene, l’utilizzo di benzina e gasolio è diminuito dell’1,4%, la spesa per il loro acquisto è calata del 2,8%, mentre il gettito fiscale ha subito solamente un leggero decremento dello 0,5% annuo a 23,5 miliardi di euro. Questi dati, secondo il presidente di Csp Gian Primo Quagliano, dimostrano che «è stato superato il limite oltre il quale l’aumento dei prezzi deprime i consumi». I prelievi fiscali record sui carburanti – con il continuo aumento delle accise (ed è in arrivo un’altra mazzata) unito a quello dell’Iva – hanno creato questa situazione paradossale: si preferisce lasciare il mezzo di locomozione fermo o si cerca di risparmiare al massimo. «È venuto il momento di ridurre la tassazione», conclude Quagliano sottolineando che anche il bilancio dello Stato ne avrebbe beneficio, poiché più consumi equivalgono a maggiori entrate. Non è un caso che tra il 2007 e il 2013 le vendite di benzina e di gasolio abbiano registrato una contrazione del 20 per cento.

La stessa immagine, riferita però ad altri settori merceologici, viene restituita dal Codacons. Dal periodo pre-crisi (sempre il 2007) a oggi i consumi in Italia sono diminuiti di 80 miliardi di euro. Ciascuna famiglia – in questi sette anni – ha ridotto mediamente gli acquisti per oltre 3.300 euro. La riduzione dei consumi ha superato i 1.300 euro pro capite, neonati compresi. Tra i settori più colpiti dai tagli di spesa operati si evidenziano i trasporti (-23% e il calo dei consumi petroliferi lo conferma), abbigliamento e calzature (-17%), mobili per la casa ed elettrodomestici (-12%). Si riducono anche i consumi primari, con gli alimentari che scendono in 7 anni dell’11,5 per cento. Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, ha individuato nel raddoppio del tasso di disoccupazione (dal 6,1% del 2007 all’attuale 12,6%), che ha determinato un incremento dei senza lavoro di 1,7 milioni di unità, una delle cause principali della débâcle. «Sono anni che gli allarmi sullo stato economico disastroso delle famiglie lanciati dal Codacons rimangono inascoltati dalle istituzioni», ha commentato Rienzi aggiungendo che «il governo, con il bonus da 80 euro, ha gettato solo una goccia nel mare, del tutto insufficiente a risollevare i bilanci familiari».

Ovviamente, il crollo dei consumi non è sintomatico di una povertà diffusa e galoppante. Certamente la condizione reddituale di molte famiglie italiane è peggiorata e confina con l’indigenza. Tuttavia si è verificato quel fenomeno che accade ogniqualvolta le politiche economiche dei governi tendono a creare una situazione di insicurezza peggiorando, come detto, il clima recessivo: non si spende perché si ha paura di diventare poveri o si teme di non poter far fronte a un episodio imprevisto. La mancata spesa diventa risparmio che comunque è ricchezza della nazione. Come ha evidenziato il Censis, nei sette anni della crisi contanti e depositi bancari sono aumentati del 9,2% raggiungendo i 1.209 miliardi di euro a marzo scorso dai 975 miliardi di fine 2007. La propensione al risparmio è salita del 10% negli ultimi due anni nonostante il reddito disponibile sia diminuito dell’1,2 per cento. Più risparmi meno consumi perché il timore è proprio quello di finire in povertà per un italiano su tre. Il premier Matteo Renzi tutto questo lo sa e forse lo dimentica tra una Tasi qui e un’accisa là.

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Francesco Forte – Il Giornale

Matteo Renzi sembra stia pensando a una nuova nefandezza fiscale, cioè l’aumento dell’imposta di successione. Si ridurrebbe la attuale franchigia di un milione di euro, portandola a 300mila euro. L’aliquota fra parenti in linea retta del 4% salirebbe al 6%, quella del 6% sui parenti meno stretti andrebbe all’8% e l’aliquota ordinaria attuale, dello 8%, passerebbe al 10%. Il gettito, attualmente di mezzo miliardo, cosi raddoppierebbe.

Dato lo schema della proposta, il gravame andrebbe soprattutto sui ceti medi e modesti, sui parenti del defunto e sulle piccole aziende non strutturate. La tesi che viene avanzata per questa nuova vessazione tributaria è che si tratta di spostare le imposte dai redditi ai patrimoni. Tesi, comunque, priva di senso in un Paese con un debito pubblico che supera il 130% del Pil, in cui una buona ricchezza privata è garanzia del debito collettivo. Occorrerebbe un maggiore investimento, per accrescere la nostra produttività e competitività onde aumentare il Pil e rafforzare la bilancia con l’estero.

Silvio Berlusconi, sulla base di queste considerazioni, rilevanti anche allora, seppure un po’ meno pressanti aveva abolito l’imposta di successione. Io avevo fatto notare che essa aveva un gettito miserevole, incoerente con il valore annuo dei lasciti ereditari, che si può calcolare dividendo il presunto patrimonio annuo nazionale per 33 che è l’intervallo medio fra le generazioni. Quel calcolo vale anche ora. Se il patrimonio nazionale privato è 9.000 miliardi (evidente sottostima), il 33% è 300 miliardi. Se l’aliquota effettiva è il 4% (media prudenziale fra le aliquote del 4/6/8% attuali e gli esoneri vigenti), il gettito annuo dovrebbe essere 12 miliardi, non mezzo.

Chiaramente i ricchi e i furbi non pagano il tributo di successione anche ora che è al massimo dello 8%, cifra comunque consistente. Ricchi e furbi in parte hanno il controllo dei loro beni all’estero, tramite holding a catena e altre «scatole cinesi» con varie intestazioni e in parte detengono titoli e gioielli in cassette di sicurezza e casseforti. E inoltre con la partecipazione di figli e altri eredi alle varie società e alle scatole cinesi, sono in grado di generare passaggi di proprietà non tassabili. Il tributo successorio lo pagano i familiari del colonnello in pensione che oltre alla prima casa lascia due alloggi: uno che affittava e l’altro che usava come seconda casa. Lo pagano gli eredi del professionista che lascia l’ufficio, dell’artigiano e del negoziante che lasciano i loro piccoli capitali produttivi e l’avviamento.

L’esonero faceva perdere un gettito minimo, liberava gli uffici fiscali da pratiche complicate. Ma ciò che fa Berlusconi è considerato dal Pd, a priori, iniquo, anche se in realtà è ragionevole e liberale. Così Prodi, con un coro di sì dei giustizialisti, aveva reintrodotto il tributo successorio. Qualcuno ha voluto persino sostenere che l’imposta di successione era propugnata da Einaudi, dimenticando che questi, però, sosteneva l’esonero del reddito mandato a risparmio dall’imposta sul reddito, che egli voleva molto moderata. Einaudi non voleva l’imposta di registro. E non voleva che si tassassero i redditi distribuiti dalle società ove già tassati. Invece ora il tributo personale sul reddito arriva al 45% e non esonera il risparmio, salvo quando è tassato con l’elevata cedolare sulle rendite finanziarie. Le società sopportano un carico fiscale che può arrivare al 65%, mentre gli utili distribuiti sono tassati. Sugli immobili gravano sia l’Imu che l’imposta di registro del 9% per i trasferimenti a titolo oneroso. Per le successioni essa è comunque del 3% (però si chiama imposta ipotecaria e catastale) e si aggiunge al tributo di successione.

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.