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Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Federico Fubini – La Repubblica

Seguaci di Margaret Thatcher contro fedeli della bocciofila. Rottamatori contro custodi di una visione che in Germania fu superata nel 1959, a Bad Godesberg, quando la socialdemocrazia accettò l’Occidente. E via con gli scambi di accuse. Non appena si tocca il tema del lavoro in Italia, i decibel salgono al punto da coprire qualunque altro segnale. Le proposte assumono un significato che, sul momento, sembra superare il loro impatto concreto. In questo l’idea di introdurre un contratto permanente a tutele progressive, ma senza diritto di reintegro per via giudiziaria, non fa eccezione.

I semplici numeri alla base di questa ipotesi però raccontano una situazione diversa. Questa riforma non ha l’aria di segnare una svolta radicale, ma un’evoluzione (quasi) cauta rispetto all’aggressività con cui avanza il male italiano. Il tutto, sullo sfondo di sistema di welfare ormai talmente ingiusto verso i più deboli che, visto nei dati reali, grida al cambiamento. Le statistiche su cui il ministero del Lavoro sta misurando gli effetti reali della riforma sono quelle sui nuovi contratti di lavoro. E quanto a questo, i dati segnalano un fenomeno crescente: ai ritmi attuali, le nuovi assunzioni a tempo indeterminato rischiano di diventare una specie in via di estinzione. Nel 2011 sono state 1,8 milioni, nel 2012 sono scese a 1,7 milioni e l’anno scorso si sono ridotte a 1,5 milioni. Non c’entra solo la poca disponibilità di posti di lavoro, perché i contratti coperti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un tempo la norma, calano molto più in fretta degli altri. Negli ultimi tre anni sono passati dal 20% al 16% di tutti i nuovi contratti. È una tendenza al declino che continua e trova la sua contropartita nella crescita dei contratti a tempo: erano il 63% del totale nel 2011 e sono saliti al 68%. Malgrado un crollo dell’economia del 5% intervenuto nel frattempo, ne sono stati firmati ben 6,5 milioni sia quattro anni fa che l’anno scorso.

Se questi sembrano numeri elevati per un Paese così affamato di lavoro, è perché gli stessi precari firmano più contratti brevi in un solo anno. Ma le statistiche del ministero del Lavoro rivelano anche un’altra conseguenza della riforma voluta da Matteo Renzi: molto probabilmente, al premier serviranno non meno di sette o anche dieci anni per cambiare a fondo il rapporto fra le imprese e i loro dipendenti permanenti. Più che una rivoluzione, sembra una trasformazione progressiva.

Possibile? L’idea del premier sulle tutele crescenti ricorda un aspetto del modello iberico, da Renzi spesso deprecato. In Spagna le tutele crescenti valgono per tutti, perché l’indennizzo in caso di licenziamento per motivi economici vale per qualunque dipendente a tempo indeterminato. Per i giovani il governo di Mariano Rajoy propone qualcosa di simile a ciò che ora vuole fare Renzi: incentivi fiscali o contributivi sui primi due anni per le imprese che li assumono con contratti permanenti. In questo l’Italia cerca di applicare una versione di ciò che la Spagna fa già.

L’impatto però sarebbe graduale, perché la riforma non si applica ai contratti esistenti ma solo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Queste ultime in Italia sono state due milioni nel 2011 e 1,5 milioni nel 2013, risulta al ministero del Lavoro. Ma poiché l’Istat registra circa 14,5 milioni di dipendenti assunti in modo permanente, l’attrito dei nuovi contratti fa sì che la scomparsa dell’attuale tutela dell’articolo 18 prenderebbe gran parte del prossimo decennio. Un effetto collaterale può verificarsi subito: certi lavoratori potrebbero diventare riluttanti a cambiare azienda, perché non avrebbero più la protezione di cui godono oggi in caso di licenziamento. Con il vecchio contratto potrebbero contare su un giudice del lavoro che li rimette al loro posto, se l’azienda vuole cacciarli; con il nuovo avrebbero diritto solo a un indennizzo. Dunque la coesistenza dei due regimi può bloccare gli ingranaggi di un normale mercato del lavoro, perché pochi avranno ancora voglia di muoversi.

L’altro punto critico riguarda il sostegno ai disoccupati. Chi resta senza cassa integrazione o mobilità, perché era precario o perché è a casa da troppo tempo, oggi può contare solo sull’assistenza sociale dei comuni. Di qui la povertà estrema che si sta diffondendo in molte parti d’Italia, specie fra chi vive in comuni rimasti senza soldi. Finisce così che il welfare è più ricco dove serve di meno, ma miserabile dove sarebbe più drammaticamente necessario. A dati Istat, nel 2011 la spesa per abitante in interventi sociali ha superato i 250 euro in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma è stata di 25 euro in Calabria e di 45 in Campania. Non è un caso: grazie al loro statuto speciale, Trentino e Valle d’Aosta ricevono dallo Stato oltre il doppio dei trasferimenti, sempre per abitante, rispetto alle regioni del Sud. Questo non è un welfare possibile nel terremoto prolungato che il Paese sta vivendo. Renzi ha trovato una parola per definirlo, e i numeri gli danno ragione. Apartheid.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Il dibattito sull’articolo 18 ha qualcosa di nobilmente nostalgico (nei suoi difensori) e di inutilmente maramaldesco (nei suoi avversatori). È un po’ come veder qualcuno che litiga sulla scelta delle tende in un palazzo ormai ridotto in macerie. Nel frattempo il lavoro è diventato una poltiglia che gli offerenti vendono sottocosto, e nonostante questo gli acquirenti non possono più permettersi di comperare; sistema pensionistico e sistema sanitario poggiano su basi di prelievo sempre più esigue. Specie ad ascoltare le storie di molti ragazzi, anche laureati, l’impressione è di vivere una specie di lungo “anno zero” del lavoro, che non c’è, se c’è è mal pagato, se è ben pagato è di corto respiro. Bisognerebbe, tra le macerie, ripensare daccapo a diritti, doveri, tutele.

Ma per farlo ognuno dovrebbe rinunciare a qualcosa: i sindacati alla memoria gloriosa ma oramai remota del proletariato di fabbrica e di una visione di classe resa impossibile dalla trasformazione delle classi (non solo quella operaia) in un immenso coacervo di individui smarriti e di interessi frantumati; i datori di lavoro al terrore, vecchissimo anche quello, che un lavoro più garantito sia solo un impiccio e una minaccia; la politica all’illusione di limitarsi ad arbitrare, come ai tempi di Agnelli e Lama, un conflitto padroni-operai oramai largamente in secondo piano rispetto al vero conflitto di classe, che è quello tra capitale finanziario da un lato, mondo del lavoro (imprenditori compresi) dall’altro.

La responsabilità flessibile

La responsabilità flessibile

Piero Ignazi – La Repubblica

Un primo ministro in maniche di camicia che, dalla sede del governo, polemizza aspramente con una importante organizzazione degli interessi; e anche, il segretario del partito di sinistra che attacca frontalmente il proprio sindacato di riferimento. La durezza dello scontro è inedita per le forme; quanto ai contenuti nel passato s’era visto anche di peggio, ma si trattava di partiti moderati e conservatori, non di partiti aderenti alla famiglia socialista. Entrambi i contendenti hanno perso la misura, la segretaria della Cgil paragonando il capo del governo alla Thatcher, e Renzi accusando il sindacato di non aver fatto nulla per i più disagiati in questi anni. Ed entrambi i contendenti hanno ragioni e torti.

Le ragioni del capo del governo, e il merito del suo intervento, stanno nella natura “provocatoria” del messaggio, cioè nel provocare il maggiore sindacato italiano a maggiore disponibilità e maggiore inventiva. Senza un cambio di passo anche la Cgil come tutti gli altri sindacati italiani ed europei rischia l’irrilevanza. La parabola dei sindacati americani, un tempo potentissimi, rappresenta un monito per quelli europei. Persino in Scandinavia stanno perdendo terreno tanto in adesioni quanto nella stima e nella considerazione dell’opinione pubblica. Per il semplice fatto che tutti sono stati presi in contropiede dalle trasformazioni economiche post-fordiste. Non hanno avuto la flessibilità di adattarsi ai diversi rapporti di lavoro che proliferano dovunque (e ai nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro). Non hanno saputo reagire per tempo e con efficacia alla miriade di nuove forme di occupazione. E di conseguenza si sono, quasi inevitabilmente, rinserrati nel territorio che meglio conoscevano e più facilmente difendevano.

È però del tutto fuori misura tacciare i sindacati di indifferenza per gli “ultimi”. Chiunque conosca dall’interno quelle organizzazioni sa quanta generosità e dedizione vi circoli. Ma non è questione di cuore o di buona volontà. Si tratta di attuare un cambio di marcia e guardare al mondo del lavoro in un’ottica più ampia, individuando quali innovazioni siano necessarie e quali residui debbano essere abbandonati (e cosa debba essere difeso con le unghie e con i denti). Perché, quando tutto cambia, e la crisi non ha fatto altro che accelerare drammaticamente processi già in atto, le vecchie conquiste rischiano di essere zavorre che impediscono di acciuffare quelle nuove. Se ha ragione il capo del governo ad insistere nell’innovazione — il suo marchio di fabbrica, peraltro — ha ragione anche il sindacato nel chiedere che si tenga conto delle tante protezioni sociali che mancano ai lavoratori a incominciare dal sussidio di disoccupazione o salario di cittadinanza che sia. Il sindacato si poneva come rappresentante di diritti universali perché il proletariato di un tempo si percepiva, ed era visto, come il terzo stato della rivoluzione francese: “tutto” come diceva l’abate Sieyès. Contrariamente a coloro che li hanno inviati ad occuparsi solo dei loro associati (quante ditini alzati a riprovarli per invadenze nel passato), i sindacati devono sentire di nuovo una responsabilità generale per il “mondo del lavoro” includendo, ovviamente, in questo campo anche chi il lavoro non ce l’ha, l’ha perso, non l’ha mai trovato e rischia di non averlo per molto.

Quando Renzi racconta delle vite spezzate dei non-occupati sentirà certo il dovere etico di rimboccarsi ancora di più le maniche per trovare soluzione a quelle disperazioni. Ma è sicuro che la via più efficace sia quella di alzare al calor bianco la polemica con il sindacato più importante? Vero è che il capo del governo non ha mostrato alcuna deferenza nei confronti dei salotti buoni e delle gerarchie confindustriali (del resto è quello che ci si aspetta da un leader di sinistra). Per decenni l’Italia ha adottato una sua modalità di concertazione che ha prodotto risultati importanti. Per perseguire un obiettivo di carattere generale, ma in certa misura contrario agli interessi della sua organizzazione, un leader di grande prestigio ed autorevolezza come Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo del ‘93, si dimise. La concertazione si è ossificata ed ha perso valore. Non per questo deve essere sostituita da duelli rusticani, anzi. La crisi drammatica che viviamo non necessita di capri espiatori (e semmai, ben altri ce ne sarebbero pensando a quanto ancora prosperano i tanti topi nel formaggio, come diceva Paolo Sylos Labini). Necessita semmai di una nuova modalità di relazioni tra governo e rappresentanti di interessi nella quale ciascuno contribuisca alle necessarie innovazioni. Esibizioni gladiatorie dall’una e dall’altra parte rendono tutto più difficile.

Draghi, i governi e i passi falsi

Draghi, i governi e i passi falsi

Eugenio Scalfari – La Repubblica

Sui giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l’asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?

La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l’errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un’economia senza crescita. Ridotto all’osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l’Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l’economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d’affari, fondi d’investimento speculativi, interessi che vedono l’euro come il fumo negli occhi.

I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell’euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche. Non c’è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l’attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell’Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l’opposto probabilmente l’Europa oggi sarebbe agitata da un’altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti. Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L’Europa supererà la recessione che l’ha colpita e la deflazione che la sta soffocando?

La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell’offerta. L’Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all’anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l’abbiamo superato. Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l’occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.

La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull’economia reale. Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell’offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.

Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi sia chiara ai governi confederati nell’Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico. Trionfo della politica sull’economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l’Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l’economia.

Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell’insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti. L’America del Nord è un continente, la Cina, l’Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l’America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell’indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.

Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c’è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni. Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?

Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto. Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d’essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24. La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l’età. Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l’occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull’età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov’è che stiamo sbagliando? L’ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C’è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.

Prigionieri di un feticcio

Prigionieri di un feticcio

Gad Lerner – La Repubblica

Inutile girarci intorno. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è un passo necessario ma è anche un passo indietro nel nostro diritto del lavoro. Consolarci evocando una svolta storica cruciale come Bad Godesberg non allevierà la durezza delle scelte che siamo chiamati a compiere. Quando i socialdemocratici tedeschi ripudiarono la lotta di classe e si candidarono al governo di una società capitalista, nel 1959 a Bad Godesberg, lo fecero nel pieno di un boom economico che garantiva la piena occupazione dei lavoratori. Ben diverso è l’azzardo richiesto oggi a Renzi e al Pd per dimostrarsi affidabili in Europa, nel mezzo di una Grande Depressione che falcidia milioni di posti di lavoro. Altro che Bad Godesberg, ci troviamo sulla linea del Piave. Ai nostri generali tocca valutare se una ulteriore ritirata tattica sul terreno dei diritti e delle tutele sia la premessa necessaria per una futura controffensiva. O se invece si tratti solo di prendere atto di un arretramento già imposto dalla dura realtà dei rapporti di forza.

La resistenza opposta dai sindacati e dalla sinistra Pd all’abolizione definitiva del reintegro obbligatorio dei licenziati – una prassi di cui peraltro già oggi godono solo pochissimi lavoratori italiani – non è liquidabile come retaggio conservatore. Troppi sottintesi circondano il feticcio dell’articolo 18 (o ciò che ne resta). Davvero crediamo che facilitare i licenziamenti in Italia nel 2014 possa aiutare la ripresa economica? Ma soprattutto: l’insistenza con cui ci viene richiesta un’ulteriore iniezione di flessibilità nel mercato del lavoro, non mira forse ad altro, cioè a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente? Questo è il non detto che vizia il progetto ambizioso del Job’s Act. Non a caso rinviato da gennaio fino a oggi, perché lo stato della finanza pubblica rende impensabile sommare un assegno universale per chi perde il lavoro agli ammortizzatori sociali vigenti, come la cassa integrazione in deroga a carico dello Stato.

Non so se l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia solo «uno scalpo per i falchi dell’Ue», come sostiene Susanna Camusso. E sarà poco elegante Maurizio Landini quando ricorda che la maggior parte delle aziende si guardano bene dal fare assunzioni anche dove non si applica l’articolo 18: «Ma per piacere… Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?». Fatto sta che sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori.

Chi si è espresso con ammirevole chiarezza in tal senso è l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, il quale motiva così l’urgenza della riforma del mercato del lavoro: «Lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti» (Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2014). Richiesto di chiarire cosa intendesse proponendo deroghe ai salari minimi, Tabellini ha precisato: «Meglio consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto i minimi contrattuali, anziché licenziare o ricorrere alla Cig». In seguito, «l’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef».

Questo significa parlar chiaro: l’uscita dell’Italia dalla recessione comporterebbe una terapia d’urto di deroga generalizzata dai minimi sindacali previsti dai contratti nazionali. Pagando il prezzo di un ulteriore allargamento della fascia dei lavoratori poveri, in un ridisegno complessivo del nostro sistema economico che sopporti l’acuirsi delle disuguaglianze fra (poche) imprese d’eccellenza e (molte) aziende che sopravvivono al ribasso. Naturalmente Tabellini ammette che la scelta di sospendere i minimi contrattuali provocherebbe un ulteriore crollo dei consumi interni, compensabile a suo parere da una maggiore domanda estera. Lavoratori più flessibili e pagati meno, questo sarebbe il prezzo da pagare per una ipotetica futura ripresa economica. E per dimostrarci affidabili in sede europea.

Non so se calcoli di questo tipo vengano soppesati anche a Palazzo Chigi. Certo sembra andare nella stessa direzione la proroga del blocco degli aumenti dei dipendenti pubblici. Del resto è comprensibile che il governo punti a alleviare la sofferenza sociale con sgravi fiscali di natura redistributiva, come già fatto con gli 80 euro, non potendo affrontare di petto il dramma dei bassi salari. Ma quando Renzi, in polemica coi sindacati, afferma che nel pubblico impiego vi sarebbe ancora troppo “grasso che cola”, forse senza volerlo ma sembra assecondare come inevitabile una ulteriore decurtazione delle buste paga.

Di per sé il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti corrisponde a un principio di giustizia sociale che i sindacati non possono contestare. Purché si chiarisca in che misura esso vincolerà le aziende beneficiate dal recente decreto Poletti, che consente loro di perpetuare le più vantaggiose assunzioni a termine rinnovabili. Così come bisognerà capire se l’annunciata istituzione di un salario orario minimo rappresenti una tutela per i precari, o invece sia il primo passo per sterilizzare in seguito i contratti collettivi di categoria. Quando la direzione del Pd si riunirà per approvare la versione definitiva del Job’s Act non potrà eludere questa drammatica scelta di fondo: è inevitabile che una democrazia occidentale precipitata in una spirale depressiva retroceda sul terreno dei diritti del lavoro, rinunciando a contemplarli fra le sue norme fondamentali? Renzi ha usato un argomento “di sinistra” denunciando l’ingiustizia di un mercato del lavoro fondato sull’apartheid. Ma se l’articolo 18 ormai è poco più che un feticcio, man mano che si allarga la fascia dei lavoratori poveri diviene sempre più arduo distinguere chi sarebbero le sparute minoranze di “bianchi” avvantaggiati da questo apartheid. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ulteriori lacerazioni dentro una sofferenza sociale comune.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Federico Fubini – La Repubblica

Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l’impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all’impegno all’equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell’Ocse sull’occupazione e quelli di Eurostat sull’andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev’esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l’Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono «occupati». Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l’impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell’Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l’Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell’Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c’è spesso su un altro aspetto nel quale l’Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell’Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un’incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell’Italia, ma dall’anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C’è poi un’ultima «verità» italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all’economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell’euro, i salari nell’industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%. Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

La disfatta degli economisti

La disfatta degli economisti

Paul Krugman – La Repubblica

La scorsa settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da Rethinking Economics , un gruppo gestito da studenti che invita, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita. A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. Ovviamente l’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni – o meglio decenni – portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso per faziosità o per amor proprio hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta multilivello – e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica – la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi.

In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione.

I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni Ottanta è sempre più difficile pubblicare sulle maggiori riviste un contributo che metta in discussione questi modelli. Gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff, di Harvard, non certo un radicale (e con il quale ho avuto da discutere). Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.

Tuttavia molti economisti applicati avevano una visione più realistica del mondo e i testi di macroeconomia pur non prevedendo la crisi, hanno saputo predire abbastanza bene la realtà del dopo crisi. I tassi di interesse bassi a fronte di gravi deficit di bilancio, l’inflazione bassa a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita e la forte contrazione economica in paesi che impongono l’austerità fiscale hanno colto di sorpresa gli esperti in tv, ma corrispondevano semplicemente alle previsioni dei modelli fondamentali nelle situazioni predominanti del post crisi. Ma se i modelli economici non sono stati poi così deludenti nel dopo crisi, altrettanto non si può dire di troppi economisti influenti che si sono rifiutati di ammettere i propri errori, lasciando che la mera faziosità avesse la meglio sull’analisi, o entrambe le cose. «Ho sostenuto che una nuova depressione non fosse possibile, ma mi sbagliavo, è che le imprese reagiscono al futuro insuccesso della riforma sanitaria di Obama».

Direte che sbagliare è tipico della natura umana, ed è vero che mentre il dolo intellettuale più sconvolgente è attribuibile agli economisti conservatori, anche alcuni economisti di sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello e a prendere di mira i colleghi rivali piuttosto che a correggere il tiro. Ma questo comportamento ha sorpreso e sconvolto soprattutto chi pensava che fossimo impegnati in un reale dibattito. Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene?

Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse, che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare. La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica sono convinti che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono, ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta. Né la teoria né la storia giustificano il panico scatenatosi riguardo agli attuali livelli di debito pubblico, ma i politici hanno deciso di abbandonarsi comunque al panico, citando a giustificazione studi non verificati (e rivelatisi erronei).

Non voglio dire che la teoria economica è a posto né che gli errori degli economisti non contano. Non lo è, gli errori contano e sono del tutto favorevole a ripensare e riformare il settore. Il grande problema della politica economica non sta però nel fatto che la teoria economica tradizionale non ci dice cosa fare. In realtà il mondo starebbe molto meglio se la politica reale avesse rispecchiato gli insegnamenti del corso di economia di base Econ 101. Se abbiamo fatto la frittata – e così è stato -la colpa non è dei libri di testo ma solo nostra.

L’austerity affonda l’Italia, l’inclusione sociale è al livello di Romania e Bulgaria

L’austerity affonda l’Italia, l’inclusione sociale è al livello di Romania e Bulgaria

Andrea Tarquini – La Repubblica

In Italia la crisi economica ha raddoppiato il numero dei poveri, che sono ormai il 12,4 per cento del totale della popolazione, una percentuale allarmante e anomala per un paese industriale. E quanto a inclusione sociale, cioè alla capacità di inserire le persone nella vita sociale e lavorativa normale, il nostro paese è sceso al ventiquattresimo posto sui ventotto paesi dell’Unione. Soltanto l’Ungheria dell’autoritarismo nazionalista e darwinista del premier Viktor Orbàn, la Romania, la Bulgaria (cioè il più povero dei paesi dell’Unione europea) e la Grecia stremata dall’iperindebitamento e dalle draconiane misure di rigore imposte dalla troika, stanno peggio di noi. Lo afferma la fondazione Bertelsmann, l’influente centro studi legato alla grande azienda editoriale tedesca, nel suo rapporto pubblicato stamane.

Gli italiani poveri, cioè costretti a pesanti privazioni materiali, scrive il rapporto, sono quasi raddoppiati dall’inizio della crisi economica, passando dal 6,8 per cento della popolazione nel 2007 al 12,4 nel 2013. Lo studio pone l’Italia, appunto, al poco invidiabile 24esimo posto per inclusione sociale. Nella Ue stanno peggio di noi soltanto un paese relativamente industrializzato ma certo non come i big dell’eurozona, cioè l’Ungheria di Orbàn, e due Stati in crisi acuta, cioè la poverissima Bulgaria, la Romania e la Grecia. Ai vertici della classifica sono invece paesi del Nordeuropa, cioè Svezia, Finlandia e Danimarca. Il rapporto della fondazione Bertelsmann è stato compilato tenendo in considerazione diversi parametri, tra cui i metodi e politiche di prevenzione della povertà, l’inclusione nel mercato del lavoro, l’equo accesso all’istruzione e la giustizia nel rapporto tra le generazioni. Il documento sottolinea comunque che in generale la situazione è in peggioramento nell’intero vecchio continente.

In particolare, “le rigide politiche di austerità portate avanti durante la crisi, e le riforme strutturali miranti alla stabilizzazione economica e dei conti pubblici, hanno avuto nella maggior parte dei casi, nei paesi in cui sono state varate, effetti negativi sulla giustizia sociale”. Il rapporto suona tra l’altro, a livello politico, come una implicita ma durissima critica e sconfessione della politica della priorità al rigore a tutti i costi e al consolidamento dei bilanci sovrani, che la Germania governata da Angela Merkel in grande coalizione con la Spd e gli altri paesi “falchi” dell’Eurozona continuano a tentare di imporre a governi e opinioni pubbliche del resto dell’Unione.  

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Repubblica.it

Mentre in Senato ci si appresta ad affrontare il nodo dell’articolo 18 all’interno della discussione sul Jobs Act, alcuni dati mostrano che il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.

Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, “siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro”.


E l’Italia è ancora ultima per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).

“Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione”, commenta Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. “L’elaborazione del nostro Centro Studi – sottolinea Blasoni – chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione”.