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Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Federico Fubini – La Repubblica

C’è un colpevole seriale di malagestione come il comune di Roma, insieme a giunte del Centro e del Nord come Perugia, Pesaro e Urbino, Verona, Udine, Sondrio, Trieste o Bolzano. Spunta anche la Statale di Milano, con l’università di Genova. Ci sono aziende sanitarie dalle procedure d’appalto singolari, in Sardegna o Campania. E non mancano neanche coloro che dovrebbero tenere al rispetto della legge più di ogni altro ramo dello Stato: i carabinieri, la polizia, il ministero della Difesa. Tutti destinatari delle lettere di Raffaele Cantone e Carlo Cottarelli alle amministrazioni che – è il sospetto – hanno violato le norme sugli appalti da tenere solo ai prezzi più convenienti per il contribuente. Cottarelli e Cantone sono, rispettivamente, commissario straordinario alla revisione della spesa e presidente dell’Autorità anti-corruzione. Già solo i loro ruoli rendono la lettera partita a giugno un atto pieno di significato. E, potenzialmente, pieno di conseguenze per chi non sta alle regole. Non solo perché i due minacciano sanzioni ai funzionari che esitano a rispondere (25 mila euro) e a quelli che “forniscono dati non veritieri” (51 mila). Quell’intervento di Cottarelli e Cantone è soprattutto il segnale di una svolta che può arrivare se solo si rispettassero le leggi esistenti. Una serie di decreti approvati fra il 2006 e il 2012 obbliga infatti gli uffici dello Stato e le società “in house”, controllate al 100%, a non sprecare un centesimo quando comprano sette categorie di beni e servizi essenziali: elettricità, gas, carburanti, combustibili da riscaldamento e contratti di telefonia fissa, cellulare o per traffico dati. Per ordinare da questo menù, tutti dovrebbero servirsi della centrale nazionale degli acquisti Consip o delle centrali regionali. Facile capire perché: i grandi acquirenti hanno le competenze e sono in grado di spuntare i prezzi migliori. La legge tollera eccezioni, cioè amministrazioni che fanno shopping da sole, solo se un ufficio compra a meno dei prezzi garantiti da Consip.

Poiché tutti devono registrare i contratti sul portale dell’Autorità anti-corruzione (ex Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), il lavoro di intelligence è partito subito. Ministero dell’Economia, Guardia di Finanza, la squadra di Cottarelli e quella di Cantone hanno incrociato i dati ed è venuta fuori la lista dei sospetti. Prima cento, poi cresciuti a duecento. Tutti enti locali, ministeri, aziende sanitarie o università che nel 2012 e nel 2013 si sono comprate elettricità, gas, benzina o telefonate da soli, disinteressandosi della legge. Si sospetta che l’elenco possa crescere fino a tremila amministrazioni. Ma i nomi in quella lista, e i costi delle forniture, riservano già da ora più di una sorpresa.

Il ministero dell’Interno per esempio si è visto recapitare almeno due lettere, di cui la prima per il pingue contratto di telefonia mobile da 4,4 milioni di euro della Polizia di Stato. I dati del ministero dell’Economia dimostrano che in media il costo è fino a oltre l’80% inferiore quando a comprare è Consip, la centrale nazionale. Ma nel 2012 il Viminale (ministro, Anna Maria Cancellieri) procede ad assegnare un appalto per i cellulari della Polizia di Stato, peraltro è tuttora in vigore. Lo fa in perfetta solitudine, senza coinvolgere Consip. E sbriga la pratica con una “procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando”, si legge nel sito dell’anti-corruzione. Il ministero offre poi il bis e il tris con contratti per i cellulari dei Carabinieri (3,1 milioni) e per il traffico dati dell’Arma (2,2). Ora il Viminale ha dovuto fornire spiegazioni a Cottarelli sul perché l’ha fatto, con il rischio di sanzioni se davvero quei prezzi risulteranno superiori a quelli di Consip.

Singolare anche la tecnica con cui l’Aeronautica militare, cioè il ministero della Difesa, si approvvigiona di energia elettrica per illuminare l’aeroporto di Pratica di Mare. Dal gennaio del 2012 a quello del 2013 conclude la bellezza di 12 contratti d’appalto, uno al mese. Nel complesso finisce per spendere circa 2,5 milioni di euro, una somma faraonica per un solo scalo, ma ogni singolo appalto resta intorno ai 200 mila. Anche l’Aeronautica militare però adesso ha risposto alla vigilanza di Cottarelli e Cantone e la sua replica o è all’esame dei due commissari. Il record nella lista dei primi cento sospetti spetta però tutto al comune di Perugia: la bellezza di 10,5 milioni di euro pagati per dare luce alla città, con gara scaduta a luglio 2013. Anche qui, ignorando del tutto l’opportunità di comprare a meno le stesse quantità di energia elettrica tramite le grandi centrali pubbliche di fornitura. Non da meno è la Verona del sindaco leghista Flavio Tosi, che in un anno (da metà 2013 a metà 2014) riesce a spendere 7,9 milioni in lampioni e lampadine comunali: un posto sicuramente illuminato bene. È curioso però che ci sia un’università che riesce a spendere in energia tanto quanto una città di quasi 300 mila abitanti: è l’Università degli Studi di Milano che, a quanto pare disinteressandosi della legge, ha concluso di propria iniziativa un contratto da 7,5 milioni per le forniture elettriche dell’anno conclusosi a giugno scorso. Anche la Statale, al pari delle università di Perugia, Genova e Roma 3, ora avrà qualcosa da spiegare.  Né potevano mancare nella lista dei destinatari della lettera le aziende sanitarie locali. La Asl 8 di Cagliari, chissà come, riesce a pagare a Telecom Italia qualcosa come 1,8 milioni di euro solo in “servizi per la telefonia fissa”. La Asl 2 di Olbia investe 1,2 milioni in energia elettrica, con una prassi singolare: a gennaio di quest’anno, senza bandi precedenti, ha assegnato un contratto a valore retroattivo per una fornitura partita nel 2013.

Ma non sorprende che siano soprattutto i comuni a riempire la lista di Cottarelli e Cantone, perché è lì il cuore del rapporto (spesso) clientelare fra politica e piccoli oligarchi fornitori di voti locali. Nell’elenco finiscono la Roma della gestione di Gianni Alemanno (5,9 milioni per tre mesi di elettricità) e città del Nord come Bolzano per i due milioni pagati per il gas naturale, Como, Sondrio o Trieste: qui il comune riesce a spendere più di 600 mila euro per l’uso dei telefoni cellulari. E dalla provincia di Pescara al comune di Udine, la lista potrebbe continuare e lo sta facendo nel lavoro di Cantone e Cottarelli. Il loro tono ai destinatari è decisamente ultimativo: chiedono copia del contratto d’appalto e il relativo decreto di approvazione, “nonché eventuali atti amministrativi posti a motivazione della mancata adesione alle convenzioni vigenti della Consip”. E ricordano: “Il termine ultimo per fornire i documenti richiesti viene fissato in 15 giorni”. Il messaggio di fondo dei due al resto dell’apparato dello Stato è che la ricreazione è finita. I prossimi mesi diranno se è finita la ricreazione, cioè il disinteressarsi della legge quando si possono spendere soldi dei contribuenti; oppure è finita la missione ora affidata a Cottarelli e prima di lui a Enrico Bondi e Mario Canzio: questa spending review ha già cambiato più allenatori di una squadra sull’orlo della retrocessione.

Chi ha svuotato la spending review

Chi ha svuotato la spending review

Tito Boeri – La Repubblica

In un Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili. Nessuno sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile. I precedenti di analoghe spending review condotte in Paesi con una struttura decisionale più decentrata della nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.

Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse. Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica è bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza. La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento a Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review. C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto. Un grande passo in avanti che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.

Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo. Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del Titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso può impedire che l’operazione fallisca come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Federico Fubini – La Repubblica

La scure era arrivata in un passaggio del decreto Irpef del 24 aprile scorso, all’articolo 9, comma 5. Senza sconti per nessuno: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35». In altri termini, bisognava chiudere una volta per tutte con la vecchia abitudine delle 34mila piccole centrali d’acquisto distribuite per Province e Comuni d’Italia e capaci di distribuire a pioggia appalti, contratti pubblici di fornitura, incarichi di consulenza per conto delle amministrazioni pubbliche. Questa riforma era, e resta, un architrave della spending review e dunque della legge di Stabilità da presentare dopo l’estate: niente più piccole commesse pulviscolari dai costi spesso superiori al necessario, ma solo operazioni uniche per gli uffici pubblici condotte attraverso grandi centri d’acquisto specializzati. Più scrivanie, computer, stampanti e benzina per le giunte comunali si comprano allo stesso tempo, tramite un unico acquirente, meno le si paga.

Fin qui la teoria. Nella pratiche invece le migliori intenzioni del governo si sono già arenate sulla resistenza del partito dei sindaci, che è riuscito con un’abile azione di lobby a rinviare la riforma delle centrali d’acquisto. È avvenuto un po’ alla chetichella lo scorso 10 luglio, ma in una sede altamente formale: presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, nella conferenza tra Stato, città e autonomie locali. L’incontro, presieduto per il governo dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, era stato preceduto da una mossa dell’Anci, l’associazione dei Comuni d’Italia guidata da Piero Fassino. L’Anci ha scritto al governo e ha fatto presente che la riforma delle centrali d’acquisto, che doveva entrare in vigore un mese fa, è inapplicabile. La tesi è che i Comuni non capoluogo di provincia non avrebbero avuto tempo di coalizzarsi in grandi centrali appaltanti. In questo caso la legge prevederebbe che si riforniscano di ciò che serve presso la Consip, la società del Tesoro che funge da maxi acquirente unico per lo Stato a prezzi molto competitivi. Purtroppo però per l’associazione dei sindaci neppure questo è possibile: «Consip e le altre principali centrali d’acquisto non coprono tutte le esigenze degli enti locali».

Si può cercare di immaginare quale specifico tipo di fotocopiatrice o sedia di ufficio, che la Consip non può fornire, richieda un certo Comune da 800 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano o sulla Sila. Ma la sostanza non cambia: la conferenza Stato-città ha già ottenuto il primo rinvio della riforma appena varata. L’aggregazione dei centri di spesa viene posticipata di sei mesi per gli acquisti di beni e servizi, di un anno intero per gi appalti sui lavori pubblici. I Comuni anche più piccoli potranno continuare a determinare da soli le proprie commesse, ovviamente pagando più del necessario, presumibilmente premiando imprenditori amici e grandi elettori dei sindaci. Le centrali uniche d’acquisto dovevano debellare i sistemi clientelari locali e ridurre gli sprechi di denaro del contribuente, ma per ora non succederà.

La marcia indietro del governo c’è stata. In teoria l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone non avrebbe dovuto concedere i codici per eseguire gli appalti ai Comuni che non si fossero adeguati alle maxi centrali d’acquisto. Ma anche questo divieto è stato congelato. Non è un segnale positivo per la finanza pubblica. Il passaggio da 34mila a sole 35 centrali pubbliche d’acquisto in Italia dovrebbe far risparmiare almeno il 10% dei circa 130 miliardi che lo Stato ogni anno spende in acquisti di beni o servizi e in appalti. Per certe categorie di merci – arredamento, computer, convenzioni telefoniche – comprare tramite Consip può far risparmiare fino all’85% del costo. Ma soprattutto la riforma delle centrali d’acquisto era un esame per misurare la capacità del governo di avanzare sulla spending review contro la resistenza dei vari gruppi d’interesse. La legge di Stabilità del prossimo autunno, quanto a questo, prevede tagli di spesa per circa 14 miliardi. E a giudicare dalle prime mosse, non sarà una passeggiata.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.

Province quasi abolite

Province quasi abolite

Roberto Petrini – La Repubblica

Sono enti “fantasma” destinati, dopo una lunga battaglia per razionalizzare la macchina dello Stato, a scomparire, ma ancora riscuotono le tasse. Alla fine di quest’anno, nonostante il forte ridimensionamento, le 110 Province italiane incasseranno, secondo un’analisi della Uil servizio politiche territoriali, ancora imposta per 4,5 miliardi. Tre prelievi – sulla Rc auto, sui passaggi di proprietà e sui rifiuti – che andranno direttamente a pescare nelle tasche dei cittadini. Anche se il legislatore, nel corso degli anni, è stato assai abile a nasconderli e a renderli vere e proprie tasse occulte.

L’imposta più pesante che va alle Province è quella sulla Rc auto: fu introdotta nel 1981 da Spadolini con la motivazione bizzarra che chi guida può provocare incidenti e quindi deve contribuire a sostenere il servizio sanitario. L’aliquota va dal 9,5 al massimo del 16 per cento del premio assicurativo e quest’anno darà un gettito di 2,6 miliardi. Le Province, non soddisfatte di riscuotere ancora la tassa, hanno pigiato sul pedale: tutte e 110 la applicano e di queste 76 – tra le quali Roma, Torino, Napoli e Bologna – hanno imposto l’aliquota massima del 16 per cento.

L’altro balzello riguarda sempre l’automobilista: si tratta della Ipt, l’imposta provinciale di trascrizione che si paga quando si cambia macchina o moto. Incasso previsto per quest’anno: 1,3 miliardi. Si deve in tutte le Province ma in 75 – tra le quali figurano Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli e Torino – viene applicata anche la maggiorazione del 30 per cento. A Roma, tanto per fare un esempio, la Provincia ricava dalla tassa sui passaggi di proprietà 120 milioni, mentre Milano incassa 90 milioni. Della incongruenza di una tassa incassata da enti “fantasma” si è accorto persino il recente decreto sulla pubblica amministrazione che ha previsto, a partire dal prossimo anno, di trasferire l’incasso alle Regioni. Ma per quest’anno pagheremo ancora.

Terzo pilastro che resta in piedi della fiscalità provinciale è il Tefa: pochi lo conoscono ma tutti lo pagano. Si tratta del Tributo provinciale ambientale che versiamo, per una percentuale tra l’1 e il 5 per cento, insieme alla tassa sui rifiuti. Una tassa sulla tassa che renderà alle Province ancora quest’anno 355 milioni. E non è finita: altre microtasse provinciali danno un gettito di circa 99 milioni. Si tratta della Cosap, tassa sull’occupazione del suolo pubblico, pagata sui passi carrabili sulle strade provinciali o per lo spazio occupato da tralicci o centraline. Oppure del tributo per i rifiuti speciali che le aziende versano alle società di raccolta che poi lo girano all’ente provinciale.

Purtroppo la spending review va a senso unico, taglia le spese e lascia pure in piedi le tasse. Tanto è vero che l’Upi, l’associazione delle Province, si trova a protestare per la violenza dei tagli e lamenta effetti «devastanti» sui servizi. «La riforma ha ancora contorni nebulosi – commenta il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy – e si rischia che diminuiscano i servizi ma non le tasse». Chi pagherà le tasse provinciali lo farà con qualche mugugno in più. Le Province infatti hanno avuto un forte ridimensionamento con la riforma dell’aprile scorso e hanno perso molti compiti: non gestiscono più i centri per l’impiego, le politiche del lavoro, trasporti e sostegno allo studio per i disabili. I costi della politica sono stati tagliati per 400 milioni: gli amministratori non saranno più eletti direttamente dai cittadini ma saranno sindaci e consiglieri comunali che faranno il doppio lavoro senza doppia indennità. Anche il personale, pari oggi a 56mila unità, è destinato dopo la riforma a scendere notevolmente: 6mila andranno in mobilità e altri 8mila potranno essere trasferiti ad altri enti. I tagli alla spesa pubblica non servono per diminuire le tasse?

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Federico Fubini – La Repubblica

Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori.

È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre.

Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiano crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con questo la struttura stessa delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. «Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali» dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia. «Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato».

Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso nel 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche e resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più.

Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tra aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. «Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e di conseguenza cambiare la loro struttura di controllo» nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alla municipalizzate.

Se uno su dieci diventa povero

Se uno su dieci diventa povero

Tito Boeri – La Repubblica

Con la pubblicazione ieri da parte dell’Istat dei dati sulla povertà nel 2013, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo di cosa è successo alla distribuzione dei redditi in Italia in questa interminabile crisi. Bene chiarire subito che è stato uno shock senza precedenti nella storia repubblicana. Il reddito medio è calato in sei anni del 13 per cento, riportandosi ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo risalire al 1988, per capirci l’anno del disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la visita di Ronald Reagan a Gorbaciov nel freddo inverno moscovita. Bene che i politici e coloro che fanno informazione si ricordino di questo meno 13% nel commentare le prese di posizione delle rappresentanze di interessi che lamentano il calo dei redditi delle categorie da loro rappresentate. Nelle ultime settimane, ad esempio, abbiamo assistito ad un florilegio di comunicati che lamentavano il crollo dei redditi dei pensionati proprio mentre partiva la campagna di Cgil-Cisl-Uil per estendere ai pensionati il bonus di 80 euro del governo Renzi. Ma anche i dati più allarmanti (quelli rilasciati da Confesercenti) segnalavano un calo dei redditi dei pensionati inferiore al 10 per cento, quindi ben al di sotto di quello vissuto dall’italiano medio in questo periodo. Se poi si guardano i dati dell’Istat, ci si rende conto che quello dei pensionati è l’unico gruppo sociale i cui redditi siano addirittura aumentati almeno durante la prima parte della crisi, nella Grande Recessione del 2007-9, e come la fascia di età al di sopra dei 65 anni sia l’unica in cui la povertà non è aumentata in questi lunghi anni di crisi.

La cosa forse più sorprendente che si impara leggendo le statistiche (lo fa in dettaglio Andrea Brandolini su lavoce.info) è il fatto che in Italia, a differenza che in molti altri paesi, le disuguaglianze non sono aumentate, se non marginalmente, durante la crisi. C’è stato come uno spostamento verso il basso dell’intera distribuzione dei redditi, senza che le forti disuguaglianze che la caratterizzavano in partenza siano sensibilmente aumentate. Non ci sono oggi ragioni in più di quelle che c’erano prima della crisi per preoccuparsi di queste disuguaglianze. Ce ne sono invece molte di più per preoccuparsi della povertà assoluta, delle persone che vivono al di sotto di standard di vita decorosi, raddoppiate in sei anni, passando da meno di 3 milioni a più di 6 milioni. Lo ha certificato ieri l’Istat sulla base di dati sulla spesa delle famiglie, peraltro in coerenza con i dati sui redditi del rapporto Caritas.

Un altro luogo comune che viene fortemente messo in discussione da queste statistiche è quello sul ridimensionamento della cosiddetta classe media. Non c’è stata una polarizzazione dei redditi, con uno schiacciamento di chi sta in mezzo. Nel calo generalizzato dei redditi, la quota di reddito nazionale del 60 per cento di persone che hanno redditi superiori a quelli del 20 per cento più povero e inferiori a quelli del 20 per cento più ricco della popolazione è rimasta praticamente invariata dal 1985 ad oggi. C’è stato addirittura un incremento della percentuale di persone che appartengono alla classe media, definita come persone che guadagnano meno del doppio e più di tre quarti di chi si posiziona esattamente a metà nella distribuzione dei redditi. Questo perché non pochi far quanti erano inizialmente nelle parti alte della distribuzione sono scesi al di sotto del 200 per cento del reddito mediano, finendo così per approdare nella cosiddetta middle class. Questa al contempo ha perso famiglie che dalla classe media sono scivolate in condizioni di povertà.

Questi dati sono molto importanti per capire i problemi distributivi che stanno di fronte alla politica economica in Italia. Nel declino economico generalizzato del nostro paese e nelle due pesanti recessioni che abbiamo attraversato sembra esserci stato un arretramento complessivo, in cui tutti i decili della distribuzione del reddito hanno subìto un peggioramento assoluto. L’Italia è un paese in cui i problemi distributivi sono al contempo sempre più marcati e sempre più difficili da risolvere perché anche chi potrebbe “dare di più” ha già assistito a una erosione del proprio reddito e, dunque, in qualche misura si sente di avere già dato. È davvero il momento di preoccuparsi per la prima volta in Italia dei più poveri, degli ultimi degli ultimi, ignorati anche dai bonus di Renzi, che ha escluso i cosiddetti incapienti e i disoccupati. Bisogna offrire protezione di base anche a chi ha meno di 65 anni. Bene che chi ci governa sia consapevole del fatto che è illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media. Oggi la classe media è troppo numerosa (si tratta di più di 34 milioni di persone) per i nostri vincoli di bilancio: nessun governo potrà mai attuare trasferimenti (o riduzioni di tasse) sufficientemente grandi per essere percepiti da chi appartiene alla middle class. Mentre la costruzione di un efficace paracadute contro la povertà per tutti costerebbe molto meno e verrebbe apprezzata anche dall’elettore medio. La lezione della crisi è infatti che anche chi ha redditi a metà tra i più ricchi e i più poveri rischia di precipitare nell’indigenza. È una lezione che capiscono molto bene le famiglie con figli minori: ne bastano due per avere un rischio di povertà doppio rispetto a quello dell’italiano medio. Ne sono perfettamente consapevoli anche gli elettori mediani, coloro che appena al di sopra dei 50 anni sono al contempo troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per essere riassunti in caso di perdita del lavoro, per colpa di istituzioni, di regole contrattuali e regimi di contrattazione salariale che ci ostiniamo a non voler riformare.

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Giovanni Marabelli – Affari&Finanza

Centomila miliardi di dollari. Una montagna immensa che sovrasta e domina le economie dei continenti. E, in molti casi, imbriglia governi e cittadini, condizionandone politiche pubbliche e scelte private. A calcolare l’entità di questo moloch è la Bri (Banca dei regolamenti internazionali), la più antica istituzione finanziaria globale, che cerca di far cooperare 57 banche centrali. Nei sette anni di crisi il debito pubblico mondiale è aumentato di oltre il 40%, salendo dai circa 70 miliardi di dollari nel 2007 ai 100mila miliardi dello scorso dicembre. E mentre la montagna si gonfiava la produzione calava, facendo impennare il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, che possiede un valore vincolante solo nell’Eurozona ma rappresenta un significativo indicatore finanziario. Tra il 2007 e il 2013 in Italia è schizzato dal 104 al 127%, nella Ue dal 42 al 70% e negli Usa dal 55,6 al 93,8%. In complesso, il debito pubblico mondiale vale una volta e mezza il Pil planetario. A farlo lievitare sarebbero state, secondo la Bri, proprie le politiche dei governi mondiali, intenti a salvare il sistema finanziario dal crac. Basta prendere come esempio gli Stati Uniti, dove la crisi è scoppiata, il cui debito è passato da 4,5 a 12 miliardi.

Ma esistono esempi virtuosi di Paesi che, invece, hanno aggredito e ridotto l’entità del debito pubblico nonostante la crisi? E, in alternativa, si può convivere senza traumi con questo moloch? Esemplare viene ritenuto da molti osservatori il caso del Belgio. In meno di 15 anni Bruxelles è riuscita a portare il proprio debito dal 140 all’84% del Pil nonostante i crescenti problemi politici, il rischio di uno smembramento del Paese, un anno e mezzo trascorso con un governo senza maggioranza in attesa di formarne un altro legittimato dal voto parlamentare. Nel 1995 il Belgio riconobbe come prioritario il problema del debito pubblico. Fu creato un fondo unico per governare centralmente e razionalizzare le spese sociali, decimando sprechi e doppioni. Formato un organo di controllo (Consiglio superiore della finanza) con pieni poteri sulla spesa pubblica, anche locale, che fu congelata a favore di soluzioni a costo zero. Varati piani di tagli alle spese burocratiche e amministrative. E i risultati si sono visti.

Più controverso è il caso dell’Islanda, che in parte ha ripudiato il debito pubblico. In realtà, dopo la nazionalizzazione del sistema bancario tramite una consultazione popolare, Reykjavik si è rifiutata di riconoscere quella parte (consistente in rapporto al suo Pil) di debito pubblico che si era accollata attraverso il fallimento di una banca privata controllata da investitori esteri. E le autorità europee, in prima istanza, hanno dato ragione all’Islanda perché il riconoscimento fino a 100mila euro pro capite ai correntisti di una banca fallita sarebbe stato introdotto in Europa dopo che Reykjavik aveva nazionalizzato gli istituti di credito dell’isola mentre in precedenza la normativa islandese non riconosceva questo indennizzo.

Diverso è il caso della convivenza con elevate quantità, relative al Pil e/o assolute, di debito pubblico. L’indipendenza tra banca centrale e governo, che nell’Eurozona è vincolante ed espressamente prevista dai Trattati, in pratica non la permette. In Italia, dove vige dal 1981, molto prima che negli altri Paesi dell’Eurozona, in compenso questa indipendenza ha contribuito all’impennata dei tassi e al pagamento di tre miliardi di interessi in meno di 35 anni. Altrove, dagli Usa al Giappone passando per il Regno Unito e la Svizzera, il rapporto è più collaborativo in quanto la banca centrale ha la possibilità di stampare moneta per acquistare il debito pubblico emesso dal Tesoro, come accadeva anche in Italia fino al 1981.

Il Giappone, nonostante il suo debito pubblico astronomico, rimane una delle primissime economie del mondo e addirittura può permettersi di finanziare il debito pubblico americano appunto perché la Banca centrale può stampare moneta per acquistare debito pubblico e perché il debito pubblico è quasi interamente in portafoglio a investitori nipponici. Questo permette di non essere tecnicamente attaccabili dalla speculazione straniera,, riuscendo quindi a tenere sotto controllo i tassi d’interesse e di alimentare un circuito di finanziamento interno. Quanto all’inflazione, incubo ricorrente per la Banca centrale europea, il Giappone dimostra che non è un rischio per chi stampa moneta allo scopo di acquistare debito pubblico. E il caso degli Usa dimostra che non fa schizzare prezzi e tariffe nemmeno stampare moneta per facilitare i consumi. Ma questa è un’altra storia. Casomai su Tokio incombono altri rischi: la demografia (il debito pubblico è nel portafoglio di pensionati o pensionandi che potrebbero decidere di volerne vendere una parte per mantenere il proprio tenore di vita) e la scarsa liquidità a disposizione degli investimenti.

Il modello americano è un caso a parte. Gli Usa hanno beneficiato per anni del ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale, dopo il disancoramento all’oro, e della propria potenza politico-militare. Da alcuni lustri a questa parte è la co-dipendenza, mutualmente vantaggiosa, con la Cina a permettere il crescente indebitamento pubblico americano. Perché la Cina continua a finanziare gli Usa? Lo ha spiegato efficacemente l’economista Stephen S. Roach sr. La Cina ha riciclato il 60% della sua eccedenza valutaria di esportatore globale nel debito pubblico federale prima di tutto per limitare l’apprezzamento della sua moneta, il renminbi, che metterebbe a repentaglio competitività e crescita basata sulle esportazioni. Fino a quando Pechino baserà il proprio sviluppo sull’export, l’equilibrio dovrebbe mantenersi costante. In caso contrario, gli Usa e il mondo si troverebbero di fronte a una incognita di non poco conto.