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Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paolo Bracalini – Il Giornale

Col taglio dei rimborsi elettorali si taglia anche il personale in eccesso nei partiti politici. I quali hanno un vantaggio mica da poco rispetto alle aziende: possono licenziare da un giorno all’altro senza rischiare cause di reintegro davanti ad un giudice, perché il reintegro non c’è. Per i partiti l’articolo 18 non vale, ti mandano a casa e tanti saluti. E succede anche nel Pd, proprio quello della vecchia ditta che fa la guerra a Renzi per aver attentato al dogma dell’articolo 18. Così, se scaduti i due anni di cassa integrazione in cui sono stati messi nove dipendenti del Pd in Sicilia (guidato dal già bersaniano e «giovane turco» Fausto Raciti) non ci saranno più i soldi per riassumerli, scatterà il licenziamento e amen. Alcuni di loro hanno già chiesto, in via informale, tramite lettere, di essere ripresi dal Pd regionale, ma finché gli eletti – consiglieri regionali e parlamentari Pd siculi – non si decideranno a versare tutti la loro quota, e il buco nelle casse non sarà coperto, resteranno a casa. Ma qui nessun giudice può ordinare nessun reintegro, perché c’è una legge che lo dice, la 108 del 1990: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto».

Ne sa qualcosa il signor Carmine De Guido, funzionario assunto a tempo indeterminato prima dal Pds, poi dai Ds, quindi in forze al Pd a Taranto, e licenziato telefonicamente, nel 2012, con una comunicazione del tesoriere Ugo Sposetti, senatore non renziano del Pd. De Guido è un dipendente dei Ds, non del Pd, anche se lavora per il Pd, e i Ds non possono pagare lo stipendio a un dipendente del Pd, formalmente un partito diverso. E quindi arrivederci. Da quel giorno De Guido cerca rassicurazioni dai vertici Pd, chiama Fassina, scrive lettere a D’Alema, a Bersani. Gli arrivano conferme che tutto sarà risolto, di continuare a lavorare per il Pd, mentre i suoi stipendi non arrivano, per sei mesi. Finché il dipendente fantasma – nel senso che c’è ma non viene pagato ed è formalmente licenziato – fa causa al giudice del lavoro, per il reintegro. Non però facendo leva sull’articolo 18, che per il Pd non vale, ma sulla modalità del licenziamento, solo verbale. Il Tribunale gli dà ragione ma il partito no, e il reintegro non avviene. Anzi, impugna la sentenza. Per fortuna del Pd che lo Statuto non si applica come nelle aziende, sennò dovevano riprenderselo o indennizzarlo. Il tutto esploso durante la segreteria di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil, che invece si era indignato per gli operai non reintegrati dalla Fiat a Melfi («Marchionne non può fare così. Non si gioca con la vita delle persone»).

In effetti non è solo il Pd a poter beneficiare di una zona franca per il licenziamento. Anche la Cgil della Camusso ha lo stesso privilegio. Renzi lo ha ricordato: «Il sindacato è l’unica impresa sopra i 15 dipendenti e non lo applica» (in realtà anche i partiti). E infatti licenzia, tanto che è nato un sito, «licenziatidallacgil.blogspot.it», fondato dal gruppo «Comitato dei Lavoratori Licenziati dalla Cgil». Molti si presentano con nome e cognome e licenziamento: Alma Bianco, licenziata dalla Cgil di Messina, Ivana Gazzino, licenziata dalla Cgil di Udine, Luca Paoli licenziato dalla Cgil di Firenze, Franca Imbrogno, licenziata dalla Cgil di Milano, Roberto Lisi, licenziato dalla Cgil Lazio, e tanti altri. Basta farsi un giro su quel sito per trovare decine di storie, documentate, che raccontano la faccia meno nota del sindacato, quello che impiega la gente in nero, che viene condannato per mobbing o licenzia. Tanto l’articolo 18 lì non vale. Scrive il Comitato: «Com’è possibile che dentro un sindacato accadano queste cose? Semplice: ai sindacati non si applica lo Statuto dei lavoratori. Il famoso articolo 18 considera nullo il licenziamento quando avviene senza giusta causa o giustificato motivo. La mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che prescrive una legge che disciplini l’attività sindacale, ha permesso alle organizzazioni dei lavoratori di operare in deroga». Tradotto: di licenziare senza paura del reintegro.

Le tutele non sono questione ideologica

Le tutele non sono questione ideologica

Vittorio Daniele – Il Garantista

I dibattiti sulle riforme raramente sfuggono alla retorica. Albert Hirschman, grande economista, scriveva che le retoriche dei conservatori si riconducono a tre tesi fondamentali. La prima tesi, della «futilità», argomenta che le riforme sono, semplicemente, inutili. La seconda, della «perversità», sostiene che i cambiamenti tendono a produrre effetti opposti a quelli desiderati. La terza tesi, della «messa a repentaglio», argomenta che le riforme comportano costi elevati e riducono le conquiste ottenute in passato. La retorica semplicistica, perentoria e intransigente non è, però, campo esclusivo dei «reazionari». Sotto questo profilo – scriveva Hirschman – le controparti «progressiste» non sono da meno. Nella versione progressista, le tre tesi reazionarie si ribaltano in tre opposte retoriche: del «progresso», della «sinergia» e del «pericolo incombente».

Nella retorica progressista, la ragione delle riforme è insita nel corso degli eventi: «abbiamo la storia dalla nostra parte!», sostiene il progressista. Le nuove riforme, aggiunge, migliorano quelle precedenti. In ogni caso, le riforme sono indispensabili e vanno realizzate in fretta; se non le si attua, si avranno gravi conseguenze: «il pericolo incombe». Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro non sfugge alle retoriche dell’intransigenza. Non è agevole, però, separare il campo dei conservatori da quello dei progressisti. Una ricorrente retorica sostiene che il dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è meramente ideologico. Secondo questa tesi, che echeggia quella del «progresso»›, l’art. 18 è un inutile orpello, retaggio di un mondo ormai passato.

L’economia italiana, si dice, è fatta di piccole o piccolissime imprese, per cui le garanzie dell’art. 18 interessano una quota assolutamente marginale di lavoratori. Esso ha, dunque, scarsa rilevanza pratica, ma la sua cancellazione un alto valore simbolico. Stanno davvero così le cose? Davvero le tutele dell’art. 18 riguardano un esiguo gruppo di ipergarantiti? I dati dell’ultimo censimento mostrano una realtà diversa. Effettivamente, la stragrande maggioranza (il 93 per cento) delle imprese italiane con dipendenti ha meno di 15 addetti. Ma le proporzioni si modificano, e di molto, quando si guarda all’occupazione. In Italia, il numero di dipendenti delle imprese e di 11.304.000. L’11 per cento circa ha un contratto a tempo determinato mentre il restante 89 per cento a tempo indeterminato. Le imprese con oltre 15 addetti occupano il 57,6 dei dipendenti, cioè circa 6.500.000 persone. Nonostante la definizione statistica di impresa sia ampia (include, per esempio, anche le aziende speciali di comuni, province o regioni), il numero degli occupati in imprese con oltre 15 dipendenti è tutt’altro che esiguo.

Un’altra argomentazione, che richiama la tesi del «pericolo incombente»›, sostiene che un mercato del lavoro più flessibile è necessario per uscire dalla recessione, per sostenere la crescita e attrarre investimenti. Affermazioni scarsamente suffragate dai fatti. Decine di ricerche mostrano come, per i Paesi sviluppati, il grado di rigidità del mercato del lavoro non sia correlato con la crescita di lungo periodo, né tantomeno con la capacità di attrarre investimenti dall’estero. È largamente riconosciuto, invece, che le riforme dal lato dell’offerta – quelle «strutturali», come con pappagallesco ritornello si ripete – non hanno effetti espansivi di breve periodo sulla produzione. Si argomenta che l’aumento della disoccupazione, il calo della produttività o la perdita di competitività dell’Italia, richiedano riforme urgenti. Ma occupazione, produttività e costo del lavoro per unità di prodotto dipendono anche dalla produzione che, a sua volta, dipende dalla domanda. Nel 2007, prima della Grande recessione, il tasso di disoccupazione in Italia era del 6%. Dopo il crollo della produzione, è passato all’attuale 12%. Per tutta risposta, si invocano riforme strutturali.

Quando, nel 2003 si riformò il mercato del lavoro si disse che le nuove norme avrebbero introdotto quella flessibilità che mancava. Si sostenne che il job-sharing. i co.co.pro o il lavoro a chiamata, e le altre formule della parcellizzazione del lavoro, avrebbero rivitalizzato la sclerotizzata economia italiana. Agli oppositori di allora si rispose con argomenti non dissimili dalle attuali retoriche progressiste. Molti di quelli che, in passato, predicarono l’urgenza delle riforme, constatano oggi che quelle stesse norme comportano enormi costi sociali, non favoriscono l’occupazione né, tantomeno, la crescita. Come tutte le riforme, anche quella del mercato del lavoro può, naturalmente, essere utile, magari per ridurre l’incertezza ansiogena della precarietà occupazionale. Un’opposizione di principio non ha molto senso. Ma intransigenti retoriche, conservatrici o progressiste che siano, creano solo divisioni e, di certo, non aiutano a capire.

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica «il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio». E poco più avanti fissa «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori? Oppure, come è più probabile, sull’obbligo di reintegro si è incancrenita da anni in Italia un’astratta discussione ideologica che ha fatto perdere di vista quello che è diritto e quello che è tutela giuridica, quello che è un valore assoluto e quello che è norma storica legata a determinati assetti della produzione e del rapporto tra Stato, impresa e lavoro?

Verrebbe da dire che l’aspro confronto nella direzione del Pd di ieri è stato ancora una volta ostaggio di quella ideologia del passato. Ma in realtà si è trattato per gran parte di un dibattito pretestuoso che, utilizzando una questione seria come la riforma del mercato del lavoro, ha avuto per oggetto la sfida sulla leadership di Matteo Renzi nel suo partito. In questo senso il premier può forse essere soddisfatto del voto ottenuto, con i 130 favorevoli e i soli 20 contrari. Ma quello che conta qui è altro. È dare all’Italia una buona e vera riforma del mercato del lavoro, per dare una spinta agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro.

Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace.

Non serve una riforma che nasce per cambiare tutto ma che poi cambia poco. Tanto più che anche sul lato delle regole in entrata, finora, non c’è stata chiarezza. Se si arriverà, alla fine, a un impercettibile miglioramento sui contratti a tempo indeterminato al costo di un irrigidimento significativo delle altre forme contrattuali più flessibili, allora il risultato per la creazione di posti di lavoro sarà negativo. È esattamente l’errore che fu fatto con la legge Fornero. Ripeterlo sarebbe un assurdo. Tanto più che il governo Renzi, al suo esordio, ha dimostrato piena consapevolezza del problema, eliminando gli irrigidimenti introdotti dalla Fornero sui contratti a tempo determinato. La precarietà non si riduce introducendo nuovi vincoli per tutti – così si alimenta solo il lavoro nero – ma rendendo davvero più conveniente il contratto a tempo indeterminato e, magari, prevedendo i giusti controlli contro gli abusi – che ci sono – sulle forme contrattuali più flessibili.

Sono cose che il presidente del Consiglio conosce bene. Le ha affermate lui stesso in queste settimane, con tutta l’oratoria e la capacità di convincimento di cui è capace. Finora ha dimostrato un grande coraggio nell’affermare e nel portare avanti un cambiamento netto nel modo con cui a sinistra si guarda al rapporto tra capitale e lavoro. Ancora ieri non ha avuto timore nello sbattere in faccia ai suoi oppositori la realtà che gli imprenditori sono lavoratori e non “padroni”. Perciò la sua riforma non può adesso smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Marco Sodano – La Stampa

Il governo pensa di anticipare parte del Tfr in busta paga: quanto può valere?
Il Tfr (il trattamento di fine rapporto) accumulato equivale alla retribuzione annua divisa per 13,5. Si tratta, insomma, di una mensilità. Si è parlato di anticipare il 50% del Tfr maturato per un periodo di un anno almeno (valutando anche l’ipotesi di estendere l’anticipo per tre anni), mentre non è ancora chiaro se il governo ha intenzione di metterlo in busta spalmato sulle tredici mensilità oppure in una volta sola. Comunque sia, si tratta di una cifra che equivale grosso modo a metà dello stipendio.

Le imprese non sembrano entusiaste: perché?
Perché parte di quel denaro lo custodiscono loro e dovrebbero sborsarlo subito. Nelle pmi sotto i cinquanta dipendenti, il Tfr di chi non ha scelto un fondo pensione dopo la riforma del 2006 (ovvero la maggior parte dei lavoratori italiani) resta in azienda. Le imprese usano questo denaro per finanziarsi. L’ammontare totale annuo accumulato dagli italiani vale circa 24 miliardi (su 326 miliardi di retribuzioni). Di questi il 40% matura nelle pmi, 10,8 miliardi. Tornando all’ipotesi di mettere in busta metà della liquidazione, nelle casse – già esauste – delle piccole imprese si creerebbe un buco da 5 miliardi e mezzo. Così, se il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi è freddo e parla di «manovra molto complessa», le piccole imprese parlano di misura «impensabile. Per i lavoratori – ricorda il presidente di Rete Imprese Merletti – il Tfr è salario differito, per le imprese debito a lunga scadenza. Non si possono chiamare le imprese ad indebitarsi per sostenere i consumi dei propri dipendenti». Tanto più in un momento in cui ottenere credito è sempre meno facile.

Il premier ha parlato di usare i soldi della Bce per garantire il credito, però.
Vero: la liquidità garantita dalla Banca centrale europea deve andare alle imprese per definizione, un impiego del genere rispetterebbe lo spirito delle iniezioni decise dall’Eurotower. Bisognerà poi vedere, però, se il credito verrà concesso alle singole imprese, che andranno a chiedere il denaro in banca: visto com’è andata negli ultimi anni è legittimo che gli imprenditori abbiano qualche dubbio sugli strumenti che dovrebbero sconfiggere il credit crunch. Fino ad oggi hanno fallito tutti, nonostante ci abbiano provato in mezzo mondo.

Non è la prima volta che si parla di un anticipo del Tfr. Poi non se ne fece nulla: perché?
Nell’agosto del 2011 fu l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti sondò questa possibilità. Alla fine fu scartata perché troppo complicata: come fare con chi versa il Tfr in un fondo complementare per irrobustire la pensione? E gli Statali? Nel pubblico impiego chi è stato assunto prima del 2001 non riceve il Tfr ma il Tfs (trattamento di fine servizio): l’80% dell’ultima retribuzione moltiplicato per gli anni di servizio. Fino al pensionamento non è possibile sapere quanti soldi ha diritto di ricevere ogni lavoratore.

E i lavoratori? È un affare ricevere il Tfr in anticipo?
Dal 2007 – grazie a una riforma molto discussa – i lavoratori possono scegliere di non accumulare più il Tfr in azienda e di farlo confluire nei fondi pensione. Questo perché il passaggio dal sistema pensionistico retributivo (pensione calcolata sull’ultimo stipendio) a quello contributivo (calcolata su quanto accantonato nel corso della vita lavorativa), è diventato chiaro che chi è al lavoro adesso avrà pensioni molto più basse di quelle attuali: ai fondi toccherà il compito di integrare gli assegni. Un po’ di denaro disponibile subito fa comodo: ma bisogna avere ben chiaro che quei soldi non ci saranno più al momento del pensionamento. Insomma: non sono soldi in più, sono soldi in anticipo. Finiremmo con lo spendere oggi le ricchezze di cui dovremmo disporre domani: è lo stesso meccanismo del tanto vituperato debito.

Ma questi soldi in più come sarebbero tassati?
Anche qui per ora non è chiaro il meccanismo pensato dal governo: al ministero chiariscono che «non c’è ancora un piano». Sul Tfr si paga un’aliquota fiscale agevolata, più bassa di quella normale pagata sul reddito (sullo stipendio). Sull’anticipo si rischia di pagare di più: non è un affare. Tra l’altro non sarebbe neppure corretto pagare su questo denaro – che è frutto di un accumulo a scopo previdenziale – la parte di tasse che va alla previdenza.

Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Bandiere senza idee

Bandiere senza idee

Giuseppe Turani – La Nazione

Siamo alle solite. Il sindacato si avvicina a una scadenza importante (la riforma del lavoro) e subito accadono due cose. La prima è che si dividono; la seconda è che, con un riflesso quasi pavloviano, l’ala più combattiva ( la Cgil) annuncia che sarà sciopero contro i cambiamenti. Due fatti che non testimoniamo una maturità del nostro sindacalismo. Persino in una situazione difficile come questa che stiamo vivendo, le tre famiglie sindacali italiane non riescono a trovare un terreno comune di intervento sensato. Viene il sospetto che si tratti quasi di una lotta fra clan. Nessuno vuole andare all’unificazione perché perderebbe il controllo della propria area: oggi ci sono tre segretari generali e tre gruppi dirigenti. Se ci fosse l’unità, avremmo un solo segretario e un solo gruppo dirigente. Meglio continuare così: ognuno ha il proprio pezzettino di gloria e privilegi. E c’è il sospetto che abbiano come prima preoccupazione quella di autoperpetuarsi: esattamente come la politica.

Poi c’è la questione dello sciopero (forse della sola Cgil). Che senso abbia uno sciopero in un momento in cui i senza lavoro sono quasi sei milioni (contando anche i cassaintegrati) non si sa. Probabilmente uno solo: dare una prova di forza, portando in piazza alcune migliaia di persone. A che cosa serve tutto ciò? A niente. Questo è un momento in cui servirebbe uno sforzo comune, servirebbero delle idee, non gente che urla in piazza e sventola bandiere rosse. Ma le idee non ci sono. Il mondo del lavoro non riesce a trovare nemmeno al suo interno una piattaforma condivisa per fare fronte alle difficoltà del momento. Ma la Cgil si vuole presentare al paese come rappresentante del mondo del lavoro, cosa smentita dal fatto che altri sindacati se ne staranno a casa. Insomma, il momento è grave, ma il sindacato non riesce ad avere una presenza significativa. Riesce solo (una parte) a andare in piazza a urlare slogan invecchiati. A questo si deve aggiungere che il sindacato rappresenta nella società italiana un’area grigia: non ci sono bilanci, ci sono molti precari, non si applica il famoso articolo 18, e persino il numero degli iscritti varia a seconda delle occasioni. La politica non attraversa un buon momento, ma il sindacato dà quasi l’impressione di essere alla fine della sua storia e del suo ruolo.

Sindacati da pensionare

Sindacati da pensionare

Antonio Selvatici – Il Tempo

Si è tranciata la «cinghia di trasmissione» tra il più grande partito di sinistra e le masse operarie. Probabilmente l’ideologia c’entra poco: in realtà la Cgil si è già condannata alla dimenticanza per cause demografiche. Se si guardano i numeri lo strappo tra politica e sindacato di sinistra è lieve perché la parte più importante della Cgil è composta da arzilli pensionati: sono tre milioni gli iscritti alla Cgil- Sindacato Pensionati Italiani. Ma non doveva essere il sindacato dei lavoratori? Quale rappresentatività? Quale lotta per gli interessi delle classi lavoratrici? Per chi sventolano le bandiere rosse? È chiaro che le esigenze, e quindi le conseguenti rivendicazioni di chi è pensionato, non possono coincidere con quelle di chi lavora. Anzi, in alcuni punti contrastano, stridono, si elidono. E allora perché bisogna confrontarsi con un sindacato che è oggi, per sua struttura, scarsamente rappresentativo? Ma all’origine quando sono nati in Inghilterra non si chiamavano trade unions?

La contrattazione è una parte importante delle relazioni sindacali ed il confronto tra le note parti sociali è determinato anche dal peso, vale a dire anche in termini quantitativi degli iscritti, però con un tasso così importante di pensionati iscritti alla Confederazione sembra che fino ad ora il confronto si sia basato molto sulla quantità e meno sulla qualità. Questa volta Matteo Renzi ha ragione quando si svincola e rifiuta di farsi stritolare dalla potenza del sindacato rosso, non per motivi ideologici, ma numerici. Perché un’analisi serena che si basa sui dati porta a dire che i trascorsi della Cgil condannano il sindacato della Susanna Camusso all’oblio: il sindacato tendenzialmente geriatrico è naturalmente destinato alla tomba. Non per ideologia, ma per consunzione. Se sfogliamo la pagina web della Cgil su sfondo rosso appare: «La Confederazione Generale Italiana del Lavoro è un’associazione di rappresentanza dei lavoratori e del lavoro. È la più antica organizzazione sindacale italiana ed è anche la maggiormente rappresentativa, con i suoi circa 6 milioni di iscritti, tra lavoratori, pensionati e giovani che entrano nel mondo del lavoro». Ma i pensionati pesano troppo e, probabilmente, i giovani troppo poco. In una fase storica in cui il lavoro scarseggia e i pensionati abbondano la politica di Matteo Renzi rischia di irritare di più i frequentatori delle bocciofile piuttosto che le tute blu.

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Roberto Mania – La Repubblica

Licenziati e poi reintegrati. Accade – sempre meno – in Italia, ma anche in tanti altri paesi europei: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia e pure in Gran Bretagna, paese del common law. E il ritorno nel posto di lavoro non è del tutto escluso nemmeno in Francia, Finlandia, Spagna o Lussemburgo, in caso di licenziamento illegittimo. Insomma la reintegra, come la chiamano i giuslavoristi, «non costituisce un’anomalia tutta italiana». Così scrivono i ricercatori di “Italia Lavoro”, il braccio operativo del ministero nelle politiche attive per il lavoro, in un dossier, “La flessibilità in uscita in Europa”, che fa un’analisi comparativa dettagliata sulle regole dei licenziamenti individuali e collettivi nei paesi europei. Ne esce un quadro di tutele piuttosto estese sulla base di un principio sancito nella Carta sociale europea: i lavoratori licenziati senza valido motivo hanno diritto «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».

Con il suo reintegro in versione ridotta dopo la legge Fornero (vale per i licenziamenti discriminatori e quelli camuffati da motivi economici) l’Italia è in buona compagnia nel prevedere la possibilità che un lavoratore ingiustamente licenziato possa tornare al proprio posto di lavoro. In genere spetta al giudice (anche questa non è un’anomalia italiana) decidere, ma sono previsti casi di ricorso ad un arbitro per la conciliazione (possibile pure da noi). Ciò che distingue molto l’Italia dagli altri paesi è, piuttosto, la durata dei procedimenti giudiziari: in media intorno ai due anni contro i quattro-cinque mesi della Germania, stando ad un’indagine dell’Ocse. È questo che genera incertezza per gli imprenditori. Ed è questa la ragione principale per cui il governo Renzi ha deciso intervenire nuovamente (la legge Fornero è di soli due anni fa) sull’articolo 18 dello Statuto. Non tanto per rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro, quanto per rendere più certo il quadro per le aziende che intendano investire in Italia. Perché più che il reintegro in sé, le imprese temono l’incertezza (per i tempi e per le imprevedibili conclusioni diverse da tribunale a tribunale) che può condizionare non poco la loro operatività. La strada dell’indennizzo verso il quale ha scelto muoversi il governo diventa sotto questo profilo più prevedibile.

In Germania, dove la cultura dei giudici è meno pro labour ma il sindacato è più forte e strutturato nelle aziende, prevale Nell’impianto legislativo la conservazione del posto di lavoro. Dunque è il tribunale che può ordinare il mantenimento del rapporto di lavoro in caso di licenziamento nullo o ingiustificato. Tra l’almo, durante il periodo in cui si svolge il processo, il lavoratore ha il diritto di continuare a prestare la sua attività. Queste regole valgono per tutti i lavoratori con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e nelle aziende con più di dieci dipendenti. Una soglia dimensionale che non ha impedito che in Germania si formasse un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza delle grande imprese. Nello stesso tempo è questo un’argomento a sfavore di chi, in Italia, sostiene che il nanismo del capitalismo tricolore dipenda tra l’altro dallo Statuto dei lavoratori che si applica alle aziende con più di quindici dipendenti.

In Francia vige un sistema “misto”. C’è il reintegro in tutti i casi di licenziamenti discriminatori o nei casi di violazione di diritti fondamentali e di libertà pubbliche. Negli altri casi, decisamente più numerosi, di fronte al licenziamento senza giusta causa scatta un risarcimento monetario. In Irlanda, paese nel passato preso ad esempio per la sua flessibilità e non solo per il favorevole trattamento fiscale, prevale il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo. Reintegro previsto anche in Gran Bretagna che affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. È interessante il fatto che queste ipotesi non valgano per i lavoratori che hanno meno di due anni di servizio. Tortuoso anche il procedimento in Olanda dove l’imprenditore deve ottenere dall’autorità pubblica l’autorizzazione (con funzione di deterrenza) per poter licenziare. Il problema dunque non è l’istituto del reintegro più comune, sulla carta, di quanto si pensi, bensì l’efficacia dell’iter che porta alla conclusione dell’eventuale contenzioso.

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.