Matteo Renzi

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Fabrizio Rondolino – Europa

Lo scontro fra sinistra riformista e burocrazia sindacale non è una novità di questi giorni: è stata, al contrario, una costante della sinistra europea da Tony Blair in poi, e in Italia risale agli albori della Seconda repubblica. In Europa prima o poi hanno sempre vinto i riformisti, da noi finora hanno sempre vinto i conservatori. Tornare al 1997, ai primi mesi del primo governo di centrosinistra, aiuta a comprendere quanto indietro sia rimasto il nostro paese, e quanto tempo la sinistra e l’Italia abbiano perduto.

Il 23 febbraio 1997 Massimo D’Alema, allora segretario del Pds e azionista di maggioranza del governo Prodi, conclude il congresso del suo partito con un discorso memorabile sull’innovazione e sulla modernità, dedicando al sindacato un passaggio esemplare. Ad un segretario della Cgil «più chiuso e più sordo all’esigenza di una riflessione critica», D’Alema oppone la necessità di un profondo rinnovamento non soltanto del sindacato, ma «di tutta la sinistra», perché «anche noi ci sentiamo sfidati dalla realtà». E la realtà del lavoro, spiega il leader del Pds, è fatta di «mobilità e flessibilità»: non soltanto perché la «fabbrica fordista» è al tramonto, ma anche perché le nuove generazioni vedono nella flessibilità e nella mobilità una sfida e persino un’occasione. Perché «questa società più aperta» non generi «insicurezza», bisogna «rinnovare profondamente gli strumenti della contrattazione» e «costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela». In caso contrario, ammonisce D’Alema, «rappresenteremo soltanto un segmento del mondo del lavoro, quello che sta in mezzo, fra chi è sufficientemente bravo per negoziare da solo e chi, in basso, vive di lavoro nero, non tutelato e precario. Ma quelli che stanno in mezzo sono sempre di meno». Poi, l’affondo: «Nel Mezzogiorno ci sono due milioni di lavoratori in nero: ma se li facessimo emergere, avremmo un milione di disoccupati in più. Non chiedo al sindacato di legalizzare il lavoro nero e il lavoro precario: ma dovremmo preferire essere lì con quei lavoratori e negoziare, anziché restare fuori da quelle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale di lavoro». La platea applaudì convinta, i giornali celebrarono con entusiasmo la svolta, Cofferati sibilò freddo: «Il segretario del mio partito ha idee diverse dal sindacato».

Quelle idee, purtroppo, durarono poco. Meno di un mese, ad essere precisi. Il 19 marzo D’Alema partecipò ad una tavola rotonda con il leader della Cgil. L’intenzione era quella di mantenere la posizione aprendo però un dialogo con il sindacato. Il risultato fu catastrofico. D’Alema ribadì alcune verità («La spesa sociale non va ai più poveri», «Il blocco sociale tutelato dal nostro Welfare è diventato una minoranza», «Una sinistra che non guarda in faccia i problemi non serve a nulla»), ma le accompagnò ad un’excusatio non petita che somigliava tanto ad un’inversione di rotta: «Forse al congresso sono stato ingeneroso nel non riconoscere alla Cgil un impegno assai più avanzato nello sforzo di governare la flessibilità… Non c’è stata alcuna frattura tra il Pds e la Cgil».

Lo scontro con Cofferati si chiuse definitivamente il sabato successivo, 22 marzo, quando D’Alema decise di partecipare alla manifestazione “per il lavoro” indetta dai sindacati confederali. Era di fatto una manifestazione contro il governo, e sembrò bizzarro che il segretario del maggior partito della maggioranza vi partecipasse. Letteralmente circondato da un robusto servizio d’ordine che impediva a chiunque anche soltanto di avvicinarsi, D’Alema sfilò in testa al corteo insieme a Cofferati. Il quale, come ogni vincitore che si rispetti, si mostrò magnanimo: «Una forza politica che ha insediamenti radicati nella società sa che l’occupazione e il lavoro sono un’esigenza profonda per tutti’». Peccato che proprio D’Alema avesse dimostrato giusto un mese prima come quell’“esigenza profonda” non potesse più essere soddisfatta dal sindacato e dal suo sistema di relazioni, protezioni, leggi e burocrazie. Quel triste 22 marzo 1997 si chiude, simbolicamente e praticamente, la stagione riformista della sinistra italiana.

Gli storici discuteranno sui motivi di una sconfitta così veloce e bruciante, se cioè sia dipesa dai rapporti di forza allora dominanti (Prodi si reggeva su Bertinotti, e il suo modello di relazioni sociali è sempre stato quello della concertazione), o dalla mancanza di coraggio politico di D’Alema. Quel che è certo è che siamo ancora lì – salvo che i “garantiti” sono ormai non più di un quarto di chi lavora. Spetta dunque a Renzi completare l’opera, o per meglio dire mettere finalmente al centro la grande questione dell’uguaglianza e dei diritti sociali, oggi calpestati da un sistema di cui il sindacato è parte integrante. E c’è da scommettere che gli andrà meglio.

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Alla fine il premier Matteo Renzi ha ceduto: l’impegno sul pagamento dei debiti al 31 dicembre 2013 delle pubbliche amministrazioni non è rispettato e, come anticipato da Bruno Vespa (ispiratore della scommessa), si è detto disponibile a percorrere la ventina di chilometri che separa Firenze dal santuario del Monte Senario. Il presidente del Consiglio ha chiesto di essere accompagnato non solo dal giornalista, ma anche dal ministro dell’economia Padoan, dal presidente della Cassa depositi e prestiti Bassanini e da quelli di Confindustria e Rete Imprese, Squinzi e Merletti.
Al di là delle trovate estemporanee, la confusione sul tema è tale che, a tutt’oggi, non si ha ancora la misura esatta di quanto lo Stato debba corrispondere alle aziende creditrici e, pertanto, a quanto ammonti il saldo finale. Una situazione che ha irritato non poco il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, artefice della direttiva che impone agli Stati Ue di onorare in tempi certi i propri debiti estrapolando l’80% del pregresso dal computo del Patto di Stabilità.
Ieri, durante la conferenza stampa di presentazione del convegno «L’Europa e l’Italia che vogliamo» (il 26 e il 27 settembre a Perugia), ha anticipato i contenuti di tre interrogazioni presentate all’esecutivo di Bruxelles. Nella prima si chiede di stilare un primo bilancio dell’applicazione della direttiva comunitario sui tempi di pagamento e le ricadute sulle pmi. Nella seconda si interpella la Commissione sulle risposte fornite dall’Italia in merito alla propria esposizione nei confronti dei fornitori della pa. L’ultima, invece, si domanda se Bruxelles intenda comminare sanzioni all’Italia visto che lo Stato continua a non rispettare la direttiva, sforando sistematicamente il termine fissato di 60 giorni.
Nell’occasione Tajani ha riproposto il proprio atto d’accusa. «Oltre ai 60 miliardi che l’amministrazione pubblica deve ancora pagare, si sono accumulati altri debiti per gli interessi di mora per 8-10 miliardi», ha sottolineato. Secondo l’esponente di Forza Italia, però, occorrerebbe riformare il patto di stabilità interno (quello che impone anche alle amministrazioni locali il tetto del 3%) perché in contrasto con la normativa Ue sul pagamento dei debiti.
E mentre il ministro Graziano Delrio continua a sostenere le tesi del premier sostenendo che restano da pagare una trentina di miliardi visto che dei 60 complessivi lo Stato ha già onorato la metà, ieri è stato il centro studi ImpresaLavoro a sbugiardare Palazzo Chigi. «Nonostante le promesse, lo stock complessivo del debito rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 73,5 miliardi di euro», sostiene il presidente Massimo Blasoni ricordando che «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza». Per quanto riguarda il 2014, «stimiamo che siano già stati consegnati beni e servizi per circa 113,5 miliardi di euro e di questi ne sarebbero stati pagati soltanto 40». Senza contare il saldo delle spese in conto capitale legate al settore edilizia, bloccato dal Patto di Stabilità e del quale l’Ance lamenta la mancata corresponsione. Secondo ImpresaLavoro, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese circa 6 miliardi l’anno di oneri di finanziamento con cui sopperire alle entrate mancanti. Nel periodo 2009-2013, oltre a pagare tasse sempre più esose, le aziende sono state «costrette» a devolvere alle banche circa 30 miliardi.
Non bisogna lamentarsi, poi, se molti imprenditori hanno deciso di trasferirsi in Svizzera. Da ieri avranno un motivo in più: la Confederazione ha deciso di anticipare la riforma fiscale applicando il trattamento vantaggioso degli utili conseguiti in Svizzera a quelli ricavati all’estero. Perché restare in Italia, allora?

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Matteo paga i debiti. Solo a parole

Filippo Caleri – Il Tempo

Il premier Renzi ha già saldato tutti i debiti contratti dalla Pubblica Amministrazione con le imprese private. A parole. Già perché anche se, secondo il capo del governo, i soldi sono in cassa pronti a essere erogati, a molte aziende i pagamenti dovuti non sono mai arrivati. E l’economia non si fa a parole. Così mentre lo Stato si è approvvigionato di beni e servizi rinviando il saldo delle fatture di acquisto, l’Italia perde ogni giorno in media 107 piccole imprese al giorno. Anche oggi. Un calcolo approssimativo basato sui dati della Confesercenti che ha monitorato le cessazioni di imprese nel commercio al dettaglio. In questo comparto nei primi 8 mesi del 2014 hanno chiuso i battenti 25.760 imprenditori. Un dato che non tiene conto, a onor del vero, di quelle che hanno aperto. Ma anche in quel caso e cioè considerando il saldo, e cioè la differenza tra le nate e le cessate, i dati non sono tali da indurre all’ottimismo.

Sempre secondo la Confesercenti, infatti, questo numero tra marzo e agosto, i mesi nei quali Renzi ha preso in mano le redini del governo, è stato pari a 14.831. Tante sono quelle che sono completamente sparite nel parco complessivo di piccole imprese nei settori del commercio, della ristorazione e degli alloggi. Anche se si lavora su questa cifra, il risultato è sconfortante: nei sei mesi presi in considerazione sono scomparse 82 aziende ogni giorno. Attenzione il numero è stimato per difetto, perché questo aggregato è solo un sottoinsieme, comunque rappresentativo, del totale delle imprese italiane. Comunque le si metta le 80-100 scomparse, che risultano dai calcoli sommari, sono solo il valore di soglia più basso dal quale partire per comprendere come l’economia italiana stia avvizzendo.

Questo dunque il quadro di riferimento di fronte al dibattito che si sta innescando attorno alle somme più o meno stanziate per pagare i debiti della pubblica amministrazione. Un confronto nato dall’accusa rivolta sabato scorso dalla Cgia di Mestre a Renzi che aveva promesso, in una puntata di Porta a Porta, di saldare i conti entro il 21 settembre, San Matteo. Una promessa tradita secondo l’associazione artigiana di Mestre perché, nonostante i pagamenti effettuati nel corso del 2014, al conto finale mancano ancora 25 miliardi. Ieri Renzi ha replicato alle accuse spiegando al Tg2 che «tutti coloro che devono avere soldi dalla Pubblica amministrazione possono averli iscrivendosi al sito del ministero dell’Economia. I soldi ci sono, il 21 settembre l’impegno è stato mantenuto».

Una mezza verità perché effettivamente le disponibilità liquide nel conto corrente del ministero dell’Economia ci sono. I contanti in cassa sono saliti a 105,2 miliardi a giugno scorso contro i 92,2 di fine maggio e i 57,8 di gennaio. Una montagna di denaro presa a prestito nella prima fase dell’anno con tassi molto bassi che hanno aumentato il debito pubblico al record di 2168 miliardi, e che servono a evitare rifinanziamenti con prezzi più elevati se ripartissero le tensioni sui mercati finanziari. Ebbene questa massa di denaro, che eccede le normali necessità di pagamento dell’amministrazione, serve a saldare l’insoluto dello Stato.

Dunque è vero che i soldi ci sono, ma se continuano a restare accreditati a via XX settembre, e non passano nelle casse delle imprese è come se non ci fossero. Probabilmente ci sono degli intoppi nelle procedure per presentare la documentazione oppure molte aziende non hanno tutte le carte in regola per ottenere i loro compensi. La gran parte però attende speranzosa. E occorre fare presto. Soprattutto se, come dice Renzi, i mezzi per pagare ci sono. Un falso problema dunque confermato da Palazzo Chigi ieri sera con una nota: «Tutti i soggetti che hanno un debito verso la P.a. sono oggi – grazie all’accordo tra Governo, banche e CDP – in condizione di essere pagati». «Lo Stato – ribadisce ancora la nota – si è messo nelle condizione di pagare tutti i debiti. E dunque è corretto sostenere che la sfida di liberare risorse per pagare tutti i debiti Pa è vinta. Rimane quella di semplificare e imporre efficienza a tutta la pubblica amministrazione».

Trasformatore o trasformista?

Trasformatore o trasformista?

Davide Giacalone – Libero

Chissà se Susanna Camusso si è mai chiesta come mai tanti giovani italiani lavorino a Londra, mentre i giovani inglesi che lavorano a Roma sono delle rarità. I malpancisti sono divenuti tutti monetaristi immaginari, sicché credono che la formula vincente sia l’autonomia della valuta e la svalutazione. Peccato che quella sia la ricetta che ci ha portati alla perdizione, mentre furono le riforme di Margaret Thatcher a evitare che il Regno Unito scivolasse in un altrimenti inarrestabile declino. Fra quella sinistra (che non sta solo a sinistra) e Matteo Renzi, quindi, mille volte meglio il secondo. Ma c’è un ma. E neanche uno solo.
Tutto sta a capire se si tratta di un trasformatore o di un trasformista. Ce ne sono di buoni e cattivi. Le alleanze cavourriane, ad esempio, furono un bene, il trasformismo successivo un pantano. La parte virtuosa (allora come oggi) consiste nel trovare forze diverse che convergono nel rendere possibile quel che è necessario. La parte viziosa (sempre presente) s’incarna nel tentativo di rappresentare sentimenti e interessi fra loro inconciliabili. Dove va inquadrato Renzi? Non è un trastullo, perché dalla risposta dipende anche la possibile durata del governo in carica e, conseguentemente, della legislatura. Nata male e (fin qui) sopravvissuta malamente.

Comparve sulla scena nazionale come trasformatore della sinistra, talché qui applaudimmo. Non tutto quello che si diceva alla Leopolda era convincente, ma lì si trovava la rottura con gli ideologismi di una sinistra irrimediabilmente compromessa con una tara genetica: il comunismo. Lì c’era l’embrione della sinistra moderna, pragmatica, occidentale. Il primo sintomo negativo fu l’ossequio al centralismo democratico, secondo cui: fai la battaglia nel tuo partito, ma se la perdi ti allineai alle tesi dei vincitori. Sembra lealtà, ma è stalinismo. È l’idea che il partito conti più della collettività, che la fedeltà valga più della libertà. Non è un caso che oggi Renzi pretenda che a quel principio si attengano i suoi oppositori, ora in minoranza come lo fu lui.

Il primo atto qualificante del suo governo, e fin qui anche il più ricordato, il più citato, il più rivendicato, quindi, in buona sostanza, l’unico significativo, è stato la retrocessione fiscale di 80 euro mensili a un congruo gruppo di contribuenti (tutti fra i protetti). Un gesto in perfetto stile Carlo Donat Cattin. Prima sindacalista, poi capo della corrente democristiana Forze Nuove.(Considerandolo un errore grave, trovo curiosa la polemica sugli effetti, perché se hai la febbre a 40 e prendi la tachipirina, non pretendi che cali dopo pochi minuti, ma va anche detto che questo era ciò che si aspettavano al governo).

Come il vecchio ministro democristiano del lavoro, Renzi non teme di sfidare il sindacato di sinistra, la Cgil, ma lo scavalca a sinistra. Da qui le chiusure a Camusso e la corrispondenza d’amorosi sensi con Maurizio Landini. Amore ora infranto. La dottrina di Donat Cattin, certo non l’unico a sostenerla, accompagnato da tanti keynesiani capaci di far rivoltare nella tomba il grande di Cambridge, la sua idea che la politica possa togliere allo Stato per dare agli elettori, consumare oggi per lasciare al domani il compito di pagare, è alla radice del processo che ha trasformato una poderosa macchina produttiva in un trabiccolo indebitatissimo, con il motore ancora vivo e la carrozzeria miseramente sfasciata.

Chi scalò il Pd da destra s’è poi prodotto in uno scavalcamento a sinistra di Pier Luigi Bersani e compagni. E questo è trasformismo. Chi alla Leopolda evocò casi di malagiustizia, ricordando che un procedimento in corso non significa colpevolezza e non può comportare ostracismo, poi plaudì l’idea che i manager inquisiti dovessero essere allontanati, salvo affermare che un manager inquisito deve restare al suo posto, dopo avere stabilito che al loro posto rimangono i sottosegretari in quelle condizioni, mentre vanno in galera i parlamentari per i quali si chiede l’arresto, anche se solo indagati e non ricorrendo neanche uno dei motivi per cui un qualsiasi cittadino dovrebbe poter essere privato della libertà. Trasformismo. Anche confusionario.

Poi, però, annuncia la fine dello statuto dei lavoratori e da una spallata all’articolo 18. Trasformatore. Quali dei due? Lasciando da parte preferenze e tifoserie, puntiamo alla prova dei fatti. Renzi, come Berlusconi, dice di essere un bipolarista. Bene. Vuole una legge elettorale che stabilisca chi vince. Bene. La vuole subito, e questo è male. Male perché non ha senso: se si vota subito si vota anche per il Senato e quella legge non potrà mai funzionare. Ma lui dice: si vota nel 2018. Bene, facciamo finta. E come ci arriviamo, al 2018? Posto che la maggioranza di governo già oggi si regge con parlamentari eletti da elettori di destra, ci arriviamo con un connubio che tenga assieme i riformisti, che porti il Nazareno sui temi economici, come qui sostenuto fin dall’inizio. Questo è da trasformatori. Se si nega tale passaggio, enunciando riforme che poi non potranno farsi, degradandosi in vessilli vuoti, allora si è trasformisti. Il tempo costa e ne abbiamo già buttato parecchio. I video con Marta e Giuseppe sono solo propaganda. Ci vuole pure quella, come il sale sulla bistecca. Di solo sale, però, si crepa in fretta.

Troppa paura di quella borsetta

Troppa paura di quella borsetta

Danilo Taino – Corriere della Sera

Il Regno Unito è sugli scudi. Giustamente, dopo la conclusione della bella e democratica battaglia di Scozia. Una parte dell’Italia, però, continua a parlare della Gran Bretagna e della sua storia recente attraverso stereotipi. Due giorni fa, la leader della Cgil Susanna Camusso ha accusato Matteo Renzi di pensare alla Thatcher quando parla di riforma del mercato del lavoro. Il presidente del Consiglio ha garantito di non avere in mente la ex primo ministro britannico. Ancora una volta, la Iron Lady è tratteggiata come un simbolo dell’ingiustizia sociale, come un disastro accaduto a una Nazione. Non è proprio cosi.

Negli Anni Settanta (Margaret Thatcher fu eletta la prima volta nel 1979) la Gran Bretagna non era solo un Paese noioso. Era in ginocchio e spaccata. Perso l’impero, niente sembrava più funzionare, nell’economia e tra la gente Nonostante la società ribollisse di creatività, a cominciare dalla musica, tutto si riduceva a scontri: destra-sinistra, sindacati-imprenditori, protestanti-cattolici, ragazzi-ragazze, ricchi-poveri. Thatcher fu lo choc che cambiò il Paese: liberò energie, mise in retromarcia il declino. Quando arrivò al potere, il 50% delle famiglie non possedeva un’auto. Solo poco più del 30% aveva un telefono. Nel 1981, i britannici fecero 19 milioni di viaggi all’estero. Oggi, l’83% ha un’automobile, più del 99% delle famiglie ha un telefono fisso o dispone di cellulari, i viaggi all’estero sono triplicati.

È vero che in trent’anni questi indici sono migliorati in tutta Europa: ma è ancora più vero che ciò in buona misura è avvenuto grazie alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni – delle quali Thatcher fu pioniera nel mondo – che hanno creato competizione e innovazione, dai telefoni agli aerei. Rispetto al 1981, la spesa dei britannici per le comunicazioni è cresciuta del 500%, per il turismo del 400%, per abiti e scarpe del 400%. Nel 1979, l’83% della classe operaia visitava regolarmente un pub dove giocava a biliardo o a freccette e c’erano 3,7 milioni di pescatori. Oggi, più del 20% di uomini e donne va regolarmente in palestra. Nel 1976, il 44% dei maschi fumava, quota oggi ridotta di oltre il 50%. Ancora più importante, dal punto di vista della mobilità sociale introdotta in una società prima bloccata: nel 1977, si contavano 754 mila studenti universitari a tempo pieno o part-time; oggi sono 2,4 milioni e nessuno può seriamente dire che la laurea in Gran Bretagna sia riservata alle élite, come invece era prima.

Questi dati – in buona parte messi assieme dallo storico Niall Ferguson per il suo pamphlet Always Right – indicano forse ancora più dei dati sull’economia la trasformazione sociale indotta dalla Iron Lady, la scossa profonda data a un intero Paese che non era solo in declino ma pensava che quello fosse il suo destino, che non ci fosse più nulla da fare. Invece di ripetere stanchi stereotipi, l’Italia di oggi dovrebbe forse prendere nota; reagire si può. Si tende a paragonare Renzi a Tony Blair: ma, nella rinascita, Blair arriva dopo, prima c’è la borsetta di Margaret Thatcher.

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Debiti PA: è San Matteo, manca il miracolo

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

“Se entro la fine dell`estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. Il 13 marzo, sulla comoda poltrona di Porta a Porta, il premier aveva fatto una scommessa con Bruno Vespa: per lui, se avesse perso, niente pellegrinaggio (“so dove mi mandano gli italiani tanto”), ma il rischio assai più rilevante di sentirsi dare del “buffone”. Oggi, come si sa, è proprio San Matteo e quindi andrà verificato intanto se il problema dei debiti commerciali pregressi della P.A. sia stato risolto e, secondariamente, dove dovrà recarsi Matteo Renzi e con che qualifica.

La Cgia, sempre attenta alle scadenze mediatiche, ieri ha fornito alcuni numeri: “Nel biennio 2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014 (ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7 miliardi. La promessa non è stata mantenuta”. I numeri degli artigiani di Mestre, però, non coincidono con quelli del Tesoro: i soldi stanziati dai due governi precedenti – come ha riportato, sempre ieri, uno studio di Confartigianato – sono più o meno 47 miliardi e mezzo, esattamente l’indebitamento ulteriore che Mario Monti contratto a più riprese con la Commissione europea: “All’appello mancano 21,4 miliardi di euro che gli imprenditori aspettano di riscuotere – ha spiegato il presidente Giorgio Merletti -. Allo scorso 21 luglio erano stati pagati alle aziende 26,139 miliardi, pari al 55% dei 47,519 stanziati con lo Sblocca-debiti e la Legge di Stabilità 2014”. In realtà, e sempre a stare ai dati presenti sul sito del Tesoro (sempre aggiornati al 21 luglio), ai 26 miliardi che risultano pagati direttamente dalle amministrazioni coinvolte vanno aggiunti oltre sei miliardi di crediti certificati online dalle aziende e scontabili in banca secondo un decreto del governo Renzi che coinvolge anche Cassa depositi e prestiti come garante.

A quanto risulta al Fatto Quotidiano, infine, a inizio settembre il totale dei debiti commerciali complessivamente saldato dallo Stato ammontava a circa 43 miliardi, cioè quasi l’intero margine di nuovo debito concesso dalla Ue all’Italia a questo fine. Se questi dati saranno confermati, bisognerà ammettere che c’è stata una discreta accelerazione nei pagamenti durante l’ultimo anno. La cosa va peraltro di pari passo con un complessivo miglioramento dei tempi di pagamento delle fatture grazie a un lavoro impostato già dal governo Letta: i tempi di attesa medi per essere saldati – dice lo studio già citato di Confartigianato – si sono ridotti da 104 a 88 giorni (ma al Sud si aspetta fino a 108), un miglioramento anche se “siamo ben lontani dal traguardo di 30 giorni imposto dalla legge”, spiega Merletti. Per Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio della Camera, la situazione non è più drammatica: “Per la fine dell’anno riusciremo a pagare i debiti accumulati a fine 2012 aumentando il debito pubblico. Comunque non farei diventare questo discorso sui debiti delle P.A. oggetto del conflitto politico: abbiamo fatto abbastanza, adesso completiamo l’opera con la Legge di Stabilità”.

Il problema vero, antico come sanno i cultori della materia, è sapere di che cifre si parla, quale sia cioè lo stock dei debiti commerciali dello Stato e dunque quanto bisogna ancora pagare (anche se la formula della certificazione con sconto in banca e garanzia di Cdp porta la questione fuori dal perimetro dei conti pubblici, almeno per un po’). I tempi in cui volavano i 90 o addirittura i 120 miliardi sono finiti, ma anche le analisi più recenti basate sui dati di Banca d’Italia concordano nel fatto che la cifra è superiore allo stanziamento di 47 miliardi: anche secondo il Tesoro è probabile che la cifra, alla fine del processo, supererà i 60 miliardi complessivi. Insomma, se Renzi non si fosse impiccato come al solito alle sue promesse (“entro il 21 settembre”), stavolta gli si poteva pure concedere il risultato. E invece no: fa di tutto per farsi smentire.

Renzi non paga. Trattiamo

Renzi non paga. Trattiamo

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Matteo Renzi ha perso la scommessa fatta in diretta tv nel salotto di Bruno Vespa, con me casuale testimone: lo Stato non è riuscito a pagare entro il 21 settembre i suoi debiti con imprese e fornitori. Mancano all’appello 35 dei 60 miliardi e poco importa se la colpa è della politica, della burocrazia o di chiunque altro. Tra le tante promesse questa era sicuramente la più importante. Altro che legge elettorale, altro che ridimensionamento del Senato o rivoluzione nella scuola. Trentacinque miliardi sono una montagna di soldi che avrebbero potuto salvare imprese e famiglie dalla morsa della crisi. Azzerare i debiti della pubblica amministrazione era e rimane la più urgente delle riforme. Se la Camusso, la Cgil e i sindacati tutti, invece che rompere i santissimi per boicottare la riforma del lavoro avessero protestato, urlato e scioperato per ottenere il pagamento dei debiti, avrebbero fatto cosa meritoria per i lavoratori e il Paese intero. Perché una cosa è certa: il lavoro lo si difende solo aiutando e proteggendo gli imprenditori, soprattutto quelli medi e piccoli. Cosa questa a cui ha rinunciato anche Confindustria, un carrozzone che negli ultimi anni, sotto la gestione di Montezemolo e della signora Marcegaglia, ha avuto colpe nella conservazione sfascista non di molto inferiori a quelle dei sindacati.

Se i destinatari dei rimborsi – in maggioranza piccole e medie imprese – fossero stati storicamente decisivi per formare il consenso elettorale della sinistra sono certo che l’impegno di Renzi a mantenere la promessa nei tempi indicati sarebbe stato ben altro. Purtroppo per loro non è così. E allora ecco la necessità che il centrodestra, che di quelle categorie è il principale referente politico, aiuti sì Renzi nella sua spallata al sindacato e in generale ai più biechi conservatorismi che ostacolano la ripresa. Ma non gratis. Chi produce beni per venderli (anche) allo Stato – così come poliziotti e carabinieri – non vale meno dei dipendenti meritevoli degli ottanta euro, degli insegnanti. Fare ostruzione sulla nomina dei membri laici della Consulta e del Csm è roba loro. Ci piacerebbe vedere presto deputati e senatori del centrodestra bloccare il Parlamento per sbloccare i 35 miliardi che mancano all’appello. Oppure appoggiare la riforma del lavoro di Renzi se unita a un decreto che sospende il pagamento degli oneri aziendali per i nuovi assunti (costo zero per l’erario). Insomma, fare – assieme a Renzi – cose liberali.

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Stefano Zurlo – Il Giornale

Non siamo in alto mare, ma la riva è ancora lontana. Per arrivare a terra e trasformare l’Italia, almeno su questo lato, in un Paese normale ci vorrebbero altri 35 miliardi di euro. Trentacinque miliardi che le imprese italiane, alle prese con i morsi di una crisi che non vuol passare, aspettano dalla pubblica amministrazione. Niente da fare. Matteo Renzi ha perso la sua scommessa. Qualcosa si è mosso, metà circa dei debiti, a spanne perché pure le cifre sono ballerine e cambiano a seconda di chi le stima, è stata pagata. Ma molto, moltissimo resta da fare. E i tempi della nostra burocrazia sono migliorati ma rimangono lenti. Terribilmente lenti per chi vorrebbe misurarsi con i parametri europei: ci vogliono 165 giorni per saldare il dovuto. Troppi se si tiene a mente che la direttiva dell’Ue indica un periodo che oscilla fra i 30 e i 60 giorni per soddisfare le richieste dei creditori.

È la Cgia di Mestre, l’agguerrita associazione delle piccole imprese venete, a fare due conti e a bacchettare il premier Pinocchio. All’appello mancano almeno 35 miliardi su un totale, quello conteggiato da Bankitalia, di 75 miliardi. Siamo in realtà, considerando anche la porzione di debiti stornata e ceduta agli istituti di credito, a metà, anzi un po’ meno, dell’arduo cammino. Renzi ha illuso gli italiani. La sfida viene lanciata la scorsa primavera quando il premier si presenta nel salotto di Bruno Vespa e azzarda: «Facciamo un contratto serio. Se il 21 settembre, giorno di San Matteo, noi abbiamo sbloccato i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione lei va a Monte Senario a piedi da Firenze». Vespa ridacchia compiaciuto: «Se riuscite a pagare i debiti io vado in pellegrinaggio». San Matteo è arrivato, ma Matteo, fra una promessa e l’altra, non ha fatto il miracolo. Ha accorciato la distanza che separa lo Stato dalle industrie, ma la vergognosa zavorra che frena lo sviluppo è ancora lì. Fra un discorso e un comizio. I fuochi d’artificio non bastano per far guarire il malato Italia. E la Cgia aspetta al varco, sulla linea del calendario, il presidente del consiglio che non ha onorato il contratto stipulato davanti alle telecamere di Porta a porta. «Purtroppo – spiega il leader della Cgia Giuseppe Bortolussi – la promessa non è stata mantenuta».

I numeri sono impietosi: secondo i dati del ministero dell’Economia nel biennio 2013-14 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi. Entro il 21 luglio ne sono stati pagati 26,1. Non basta. A sentire il ministro Pier Carlo Padoan, dopo il 21 luglio la pubblica amministrazione ha versato altri 5-6 miliardi. Dunque, al momento, dovremo essere a quota 31-32. Un totale ragguardevole, ma lontano dalla meta fissata a quota 66,6. Siamo, sempre a spanne, a 35 miliardi di euro dal traguardo fissato appunto a 66,6 perché allo stock di 75 miliardi devono essere sottratti 8,4 miliardi di debiti girati dalle imprese alle banche e dunque fuori dal perimetro del mondo industriale. Certo, Renzi vedrà il bicchiere mezzo pieno, ma alla Cgia notano quel che manca: «Per azzerare complessivamente il debito accumulato con le aziende – prosegue implacabile Bortolussi – la pubblica amministrazione deve pagare, in linea di massima, ancora 35 miliardi». Il traguardo è ancora un miraggio. E Renzi a questo punto dovrebbe fare penitenza. «Se perdo io la scommessa – aveva detto a Vespa nel corso della trasmissione – potete immaginare dove mi manderanno gli italiani. Non sarà a Monte Senario».

Insomma, l’annuncite del premier rischia, col passare del tempo, di trasformarsi in un boomerang. In una somma impresentabile di sconfitte, ritardi, riforme arenate. E il malcostume non è solo un retaggio del passato. «I debiti – attacca Bortolussi – potrebbero aumentare ulteriormente a seguito del perdurare dei ritardi con cui lo Stato paga i fornitori». Siamo intorno ai 165 giorni. Meglio di prima, ma lontanissimi dalle tabelle europee. «Se in questo ambito – è la conclusione – anche le pubbliche amministrazioni di Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia sono più efficienti della nostra, vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto». Altro che Monte Senario.

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Roberta Amoruso – Il Messaggero

L’ultimo giorno d’estate è arrivato. E Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo: non dovrà andare a piedi da Firenze a Monte Senario. Perché il premier Matteo Renzi non ha mantenuto la promessa. Gli ormai famosi 57 miliardi di debiti della pubblica amministrazione non sono stati pagati fino all’ultimo euro entro il giorno di San Matteo, il 21 settembre, come aveva firmato e sottoscritto il premier, seppure soltanto a parole, nella ormai storica puntata di «Porta a Porta» del 13 marzo scorso. Non solo. Per la verità non è una questione di spiccioli. Mancano all’appello ben 26 miliardi a fronte dei 57 miliardi di risorse messi già a disposizione dai governi a fronte di debiti della Pa stimati intorno a 60 miliardi alla data del 31 dicembre 2013.

Certo, sono stati pagati più debiti della Pa di quelli rimasti ancora in sospeso visto che lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere nei giorni scorsi che ai 26 miliardi di euro di debiti certificati e già pagati secondo il sito del Mef andrebbero aggiunti almeno altri 5 miliardi (per arrivare a circa 31 miliardi). Ma la promessa di Monte Senario è diventata ormai un simbolo, soprattutto perché nella stessa puntata nel salotto di Vespa lo stesso Renzi ricordava una frase storica di Walt Disney: «La differenza tra un progetto e un sogno è la data». E dunque le date contano, ricordano da Confartigianato e dalla Cgia di Mestre. Ma non perde l’occasione per un tweet anche Renato Brunetta, capogruppo Fi alla Camera: «Domani è 21 settembre (San Matteo): il Mef aggiornerà il sito? Saranno stati pagati tutti i 68 miliardi di debiti Pa promessi da Matteo Renzi?».

A questo punto sarà difficile mettere sul tavolo una nuova data. Ma fonti vicine al Mef parlano di poche settimane, forse un paio di mesi, per portare a termine un percorso già avviato anche per i restanti 26 miliardi. Una buona fetta di debiti sarebbe infatti già in fase di istruttoria. Un passaggio obbligato, questo, con un tempo di 30 giorni per le verifiche, che scatta non appena le imprese fanno domanda di certificazione dei crediti. Il punto è proprio questo infatti per il Mef. Se arriveranno in fretta tutte le richieste di certificazione, ingorghi permettendo, il saldo dei debiti arriverà. Seppure con un rinvio sulla tabella di marcia. Insomma, le risorse stanziate per gli anticipi di liquidità agli enti locali ci sono (circa 57 miliardi appunto). Ma per usufruire delle garanzie dello Stato c’è tempo fino a ottobre e molte imprese si sarebbero mosse in ritardo, a quanto pare. Di qui lo slittamento. Si spera che nel frattempo non si siano accumulati altri debiti. Ma anche su questo, il meccanismo introdotto con l’obbligo di certificazione elettronica (introdotto dal decreto 66) sembrerebbe mettere al riparo da nuovi accumuli.

Intanto, però, i conti non tornano e oltre 20 miliardi rimangono nel limbo. Secondo il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, mancano all’appello 21,4, vale a dire il 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014, se si considera che al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, stando al sito del Mef. Lo stesso Merletti riconosce gli sforzi fatti negli ultimi due anni «con un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti della Pa (il 3,3% del Pil)». Restano da saldare altri 24-25 miliardi, invece, secondo i conti della Cgia di Mestre che parte dai 56,8 miliardi messi a disposizione dei governi negli ultimi due anni. La cifra è sottostimata, avverte però la Cgia: se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia (75 miliardi di debiti commerciali) si tolgono gli 8,4 miliardi ceduti pro soluto a intermediari finanziari, la Pa deve pagare ancora 35 miliardi».