Matteo Renzi

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Le riforme annunciate adesso non bastano più

Marco Bertoncini – Italia Oggi

L’invito del commissario europeo Katainen (Non basta mettere in agenda le riforme, bisogna applicarle) riecheggia stimoli di molti commentatori. Siccome la fase fabulatoria di Matteo Renzi procede, è invitato a smetterla con frasi a effetto, messaggini, battute. Gli arrivano esortazioni a riflettere sulle priorità.

Nella situazione economica e finanziaria, nella condizione dei conti pubblici, con la salita del debito e del peso fiscale, anche da personaggi favorevoli al riformismo predicato da R. giungono consigli: scelga, presto, quali siano le riforme meglio rispondenti alle esigenze di questi mesi. E tenga presente la condizione di Camera e Senato. Finora Renzi ha peccato (per presunzione?; per ignoranza?) di sottoconsiderazione per tempi, riti, problemi, numeri in Parlamento. Non tiene in sufficiente conto, per esempio, la legge di Stabilità, con relative sessioni di bilancio. Eppure al medesimo strumento legislativo sono state rinviate decine di disposizioni originariamente previste nel decreto- legge sblocca Italia (e non solo in esso), uscito pesantemente ridimensionato rispetto all’originale.

È diffuso, insomma, l’invito a lasciar andare le promesse sulla rivoluzione totale, quasi su una rinnovata «ricostruzione futurista dell’universo», per passare a poche indispensabili riforme, immediatamente attuabili, che producano effetti tanto entro poco tempo quanto in futuro. Non si tratta soltanto di rispondere a quel che (si dice spesso a vanvera) ci è chiesto dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dalla Banca europea ecc. Si tratta di darsi alcuni obiettivi, grandi e strategici, e d’imporli, prima di tutto al Pd, poi alle Camere. Altrimenti, è facile prevedere una nemmeno lenta corrosione del fenomeno Renzi.

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

All’Ecofin di Milano si è trattato estesamente di “riforme strutturali” che i singoli Stati dell’Unione europea, in particolare quelli dell’eurozona, dovrebbero intraprendere perché l’aumento della liquidità, l’abbassamento dei tassi d’interesse e le stesse misure “non convenzionali” che dovrebbero essere adottate tra breve dalla Banca centrale europea abbiano il risultato di rianimare l’economia di un continente all’apparenza sempre più vecchio. Si sono toccati molti temi relativamente all’insieme dei Paesi Ue (mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, rafforzamento della concorrenza), nei riguardi di alcuni (ad esempio, della Francia) si è posto l’accento sul sistema previdenziale. Tuttavia, non sono le pensioni italiane uno dei temi che preoccupano il resto dei nostri partner europei.

Siamo stati, con la Svezia, i primi a effettuare , circa venti anni fa, una riforma strutturale, anche se (su richiesta di categorie molto sindacalizzate) abbiamo previsto un periodo di transizione di diciotto anni (a differenza di quello di tre anni della riforma svedese) e, successivamente, abbiamo più volte rimaneggiato la riforma (anche in barba delle sentenze della Corte Costituzionale). Abbiamo, in breve, messo in atto un sistema che Banca mondiale, Fmi, Ocse e, quindi, anche Ue considerano esemplare (nonostante le disfunzioni, peraltro, temporanee causate dal lungo periodo di transizione).

Ciononostante, pure negli ultimi giorni si sono levate voci perché si rimetta mano alle pensioni in essere al fine di evitare riduzioni di spesa in altri settori (quali i costi della politica e il finanziamento, ancora in atto, ai partiti e alla loro stampa). Queste voci – lo abbiamo detto in altre occasioni – preoccupano l’Ue per due ordini di motivi: a) la certezza del diritto in Italia; b) le implicazioni verso quella “unione europea delle pensioni”, essenziale per fare funzionare il mercato unico e l’unione monetaria.

Tutta la costruzione che stanno faticosamente mettendo in piedi il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze si basa sull’aumento della credibilità internazionale dell’Italia. Spetta ad altri, per il momento, decidere se tale credibilità internazionale sia vera o fittizia. Una nuova riforma della previdenza che sconvolga la certezza dei diritti di chi ha già maturato la pensione, oltre a mettere repentaglio la situazione sociale interna e a colpire – come dimostrato da studi Censis ed Eurostat – i giovani (i quali spesso sono mantenuti agli studi grazie alle pensioni dei nonni) più che gli anziani – è la prova del nove che l’Italia della certezza delle regole se ne impipa ed è pronta – unico Paese al mondo (secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro) a fare una riforma della previdenza l’anno spesso solo per la vanagloria di chi vuole associare a essa il proprio nome. Tutto ciò è segnale di poca serietà. Anche in materia di impegni economico-finanziari e di riforme strutturali.

Inoltre, la proposta dell’Eiopa – European Insurance and Occupational Pensions Authority, acronimo poco conosciuto nella galassia delle sigle europee – sta facendo strada: la si può leggere per esteso, nei suoi dettagli tecnici, scaricando il relativo documento. È un testo importante che merita di essere divulgato e discusso: nel futuro dell’Ue, perché l’unione monetaria riesca a funzionare, devono funzionare, a livello europeo, anche i mercati delle merci, dei servizi e dei fattori di produzione (quindi anche quello del lavoro).

Oggi il buon funzionamento del mercato del lavoro è ostacolato non solo da rigidità interne ai singoli Stati Ue, ma anche dalle difficoltà di mobilità poste da profonde differenze nei sistemi previdenziali. La proposta Eiopa, peraltro ben delineata, consiste nel fare confluire contributi pubblici e privati in Personal pension plans uniformi per tutti i lavoratori europei che potrebbero scegliere se utilizzare questa strada o sistemi previdenziali nazionali. In pochi mesi, si è fatto molto più lavoro di quanto si sarebbe immaginato come dimostra questo volume Bce.

È incomprensibile che in un Governo che vuole fare della trasparenza il proprio vessillo il lavoro Bce non sia stato divulgato (se possibile in traduzione come fatto in altri Paesi Ue) e venga quasi considerato un “testo all’Indice dei libri proibiti”), peraltro abolito da anni. Pare sia chiuso a quattro mandate nei cassetti dell’Inps e del ministero del Lavoro. Dal volume, che merita un dibattito approfondito, si deduce che l’Italia è indietro, soprattutto in materia di “seconda gamba” di un eventuale sistema previdenziale europeo (i fondi pensione occupazionali). Ed è questo il tassello su cui puntare. Perché in materia i sindacati non cominciano ad agitarsi?

L’agenda sbagliata del premier

L’agenda sbagliata del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Dice il nostro premier che il suo governo va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito: quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si giudica giorno per giorno. Sette mesi non sono tanti, ma non sono neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso» all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da troppo tempo?

È il caso di notare, per cominciare, che un successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e trasversali agli schieramenti. Nessun premier ha beneficiato di un’apertura di credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi. Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi!

Dunque le possibilità di Renzi, sulla carta, sono decisamente buone. Nonostante tutte queste condizioni favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio. Come mai? Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro, fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015.

C’è una ragione, tuttavia, che a me pare più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto diventa più difficile, se non impossibile.

Ora il punto è che la luna di miele pare stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos & Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia 10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione anche rispetto a marzo e a maggio.

La fine della luna di miele, un fatto fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi, non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti, produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai più urgenti e vitali riforme economico-sociali.

Il fatto curioso è che questa mancanza di coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali, e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato, il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi.

Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier «non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro economie.

In concreto, tutto ciò significa che aver rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo, perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.

Erano tutti meglio di Pittibimbo

Erano tutti meglio di Pittibimbo

Maurizio Belpietro – Libero

Sono trascorsi circa sette mesi da quanto Matteo Renzi ha giurato come presidente del consiglio. Il giorno in cui si presentò al Quirinale dopo aver liquidato Enrico Letta, il debito pubblico era a quota 2.107 miliardi, 61 miliardi in meno di oggi, il tasso di disoccupazione al 12 per cento (ora è al 12,6), il Prodotto interno lordo allo 0,1 per cento in più, mentre adesso allo 0,2 per cento in meno. Tradotto in poche parole, si stava meglio quando si stava peggio, cioè prima che nascesse il governo del cambiamento battezzato dall’ex sindaco di Firenze. A dirla tutta, si stava meglio tre anni fa, cioè prima che il governo legittimamente eletto di Silvio Berlusconi – l’ultimo avallato dagli italiani con un voto – fosse bruscamente mandato a casa da una congiura di Palazzo che lo accusò di essere la sentina di tutti i mali.

Oggi dopo tre governi tre non decisi dagli elettori, abbiamo sì lo spread più basso, ma abbiamo anche un debito e una disoccupazione più alta. Dopo Monti, Letta e Renzi ci troviamo in pratica al punto di partenza, ovvero alla lettera della Bce. Ricordate quando il governatore uscente Trichet e quello entrante Draghi ci scrissero che dovevamo fare la riforma del lavoro, quella delle pensioni e quella della burocrazia? Bene, ora siamo tornati lì, al nodo delle riforme che non sono state fatte nonostante al governo non ci sia più l’odiato Cavaliere ma il giovane e promettente Renzi.

A cambiare le cose non sono riusciti né il professor gonfiato Mario Monti né lo sgonfiato Enrico Letta, mentre Matteo Renzi neppure ci ha provato. Siamo alle parole, ma se le battute e i giochi di prestigio del presidente del Consiglio affascinano un certo numero di italiani, all’estero non funzionano. Non so se avete presente il video diffuso su YouTube del premier che parla in inglese. Renzi si sforza di apparire simpatico e traduce in un inglese alla Alberto Sordi le sue battute in italiano. Purtroppo nessuno ride, perché nessuno tra i presenti è in grado di capire. Ecco, allo stesso modo ora le promesse del capo del governo che tanto piacciono a una parte degli italiani, risultano incomprensibili alla maggior parte degli stranieri, in particolare a quelli che devono giudicarci.

È per questa ragione che ieri il principe dei falchi, ovvero il super commissario all’economia Katainen ha bacchettato l’Italia facendo capire che non è più tempo di parole. Per gli stranieri le riforme non si fanno sulla carta, si fanno e basta. L’Europa aveva accolto con un certo entusiasmo l’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Un po’ come la maggioranza degli italiani, a Bruxelles pensavano che un uomo nuovo al comando avrebbe prodotto il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno, ma mese dopo mese l’apertura di credito delle cancellerie del Vecchio continente si è chiusa e oggi in tanti anche all’estero guardano con un certo scetticismo alle mosse di Matteo Renzi.

Anni fa, quando imperversava Fausto Bertinotti, Giampaolo Pansa coniò con successo una definizione perfetta per il leader di Rifondazione comunista. Per l’augusto nostro collega il presidente della Camera non era altro che il Parolaio rosso, ossia un politico perfetto per la stampa che poteva fare ad ogni suo discorso un titolo ma imperfetto per il Paese, che ad ogni sua parola retrocedeva. Archiviato Bertinotti, il quale ormai piange sul comunismo versato (e anche sul Prodi giubilato), bisognerebbe aggiornare la definizione, perché dopo il Parolaio rosso siamo nelle mani di un parolaio scudocrociato. Tecnicamente Renzi non è un democristiano, perché non ha un pedigree da militante Dc, ma di fatto lui è un erede della vecchia Balena Bianca (altra invenzione di Giampaolo Pansa). Lo ha spiegato lui stesso m una recente intervista al Sole 24 Ore. Renzi non è per i conflitti, ma per il consenso. Non vuole prendere decisioni impopolari, come invece chiede l’Europa, vuole governare tra gli applausi. Renzi è troppo piacione per essere uno statista. In un certo senso, più che l’erede di De Gasperi o di Fanfani (il più citato da Maria Elena Boschi) è l’erede di Francesco Rutelli. Il quale, non dimentichiamolo, è stato uno dei suoi primi sponsor. Insomma, da Cicciobello a Pittibimbo (questa volta il copyright è di Dagospia), restando sempre nel fantastico mondo dei giocattoli.

Promesse finite, il tempo scade

Promesse finite, il tempo scade

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea – che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse – alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito – non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore – che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici – come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.

È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.

Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.

Al Consiglio europeo – a maggior ragione avendolo convocato lui – Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna. Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.

Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.

Una simile strategia – riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità – ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.  

Tagli e ritagli

Tagli e ritagli

Davide Giacalone – Libero

Andò per tagliare e fu tagliato. Mentre la revisione della spesa pubblica è annunciata come sempre più consistente, ma diventa sempre più cieca e inconsistente. Una gara tipo “Miracolo a Milano” al contrario, con un “meno uno” al posto del “più uno”. Gara a rilancio, ma che parte inceppata. Ieri si sarebbe dovuta avviare la consultazione ministero per ministero, in modo da mettere a punto i tagli e passare alle forbici, ma Matteo Renzi ha preferito rinviare tutto e adottare un sistema che replica pari pari il verso antico: relazione di ciascun ministero, con quel che pensa di potere risparmiare. Poi si vedrà. Ciò non capita per caso. E’ la conseguenza degli errori commessi.

Il siluramento di Carlo Cottarelli è un passaggio che non ha nulla di personale, ma sostanza tutta politica. Bisogna studiarlo bene, per capire quello che accadrà. La sua sorte personale non desta preoccupazioni: all’inizio gli fecero un contratto triennale (cosa che qui criticammo, dato che si trattava di una missione a scopo, non a tempo), poi s’è chiesto al Fondo monetario internazionale di riprenderselo, come se fosse stato in aspettativa. Sono tutti pronti a dire che ha svolto un buon lavoro, purché non pretenda di farlo valere e si tolga silente dai piedi. Lo ha chiarito il ministro più politico e rappresentativo, Maria Elena Boschi: “se ne andrà dopo la legge di stabilità e se volesse andarsene prima ce ne faremo una ragione e troveremo altri”. Delle comparse, a quel punto. Qual è il motivo per cui il lavoro di Cottarelli infastidisce? Non perché ci sia un primato della politica, dacché l’incarico glielo diede e confermò il governo, quindi la politica, ma perché individuare il tessuto morto da tagliare significa seppellire interessi reali e immediati, che reagiscono. Mentre annunciare tagli sempre più consistenti genera vago dissenso e spaesato consenso. Tutto macro e niente micro, vale dire tutto fumo e niente arrosto.

Dicono al governo: non abbiamo mai proposto di fare tagli lineari. Falso, lo ha anticipato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al Sole 24 Ore. Ha anche quantificato: 3% per ciascun ministero. Ribattono: ma sarà ciascun ministro a decidere quali, quindi sono tagli mirati. Tanto mirati che il primo colpo, ieri, ha fatto cilecca. Bubbole, comunque, perché al netto del fatto che se il ministro non ne fosse capace ciò vorrebbe dire che s’è messo un incapace su quella sedia, sarà Palazzo Chigi, nel caso, a fare le veci del ministro. E questi sono esattamente tagli lineari, così come li impostò Giulio Tremonti, a sua volta copiando dal ministro dell’economia inglese, a quel tempo, Gordon Brown: si parte dai saldi per indurre la riduzione della spesa. La politica, se esistesse e se ne fosse capace, eserciterebbe il suo potere nello stabilire dove e quanto tagliare, non nel fissare l’entità dei tagli necessari per poi dire: fate vobis et favorite miki.

Ma non basta, perché sappiamo già che in certe amministrazioni non si potrà tagliare. Come nella scuola, sul cui bilancio si abbatterà la valanga delle assunzioni annunciate. Peccato che: a. abbiamo già troppi insegnanti per alunno; b. assumendone 150mila con un turn over di circa 30mila l’anno il primo docente nuovo lo vedremo fra otto anni; c. nel frattempo la riforma non cambierà la didattica, visto che ne mancano i nuovi protagonisti; d. la spesa per la scuola crescerà senza che cresca di un tallero la spesa per dare istruzione ai ragazzi. Si potrebbe rimediare con il digitale, ma anche quello viene continuamente rinviato. Assieme ai tagli lineari, quindi, ci becchiamo anche gli aumenti lineari. A tutto giovamento della burocrazia e del posto improduttivo.

I tagli possono basarsi su maggiori efficienze e minori sprechi, nel qual caso non esiste altra strada che farsi guidare da chi conosce la struttura della spesa, coprendogli le spalle dai pesanti attacchi che arriveranno. L’esatto contrario di quel che hanno fatto con Cottarelli. Oppure, e sono quelli più interessanti e promettenti, possono essere generati da riforme, da cambiamenti profondi dell’agire pubblico. Sono, in questo caso, più che tagli una vera e propria riqualificazione della spesa pubblica, con cui, naturalmente, si può anche ridurla aumentandone la qualità. Questo è il lavoro serio e alto della politica. Il resto è ragionerismo praticato da gente che non conosce la ragioneria. Con i risultati che si videro e si vedono.  

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.

Un uomo al comando

Un uomo al comando

Bruno Vespa – La Nazione

Anche se ha rallentato il ritmo delle scadenze (da “una riforma al mese” al passo dopo passo dei mille giorni), come comunicatore il Matteo Renzi visto l’altra sera a ‘Porta a porta’ resta un ciclone, La ‘concertazione’ fa parte ormai dell’archeologia industriale e sociale. La Cgil proclama uno sciopero? Faccia pure, anzi, visto che non ne ha chiarito la ragione, farò in modo di offrirgliela. L’Associazione magistrati è furibonda? Brrr, che paura! Gli 80 euro non fanno salire i consumi? Vedremo, ma intanto sono un elemento di giustizia sociale. Ci sono grandi resistenze ai tagli? Attenti, raggiungeremo i venti miliardi anche se me ne servirebbero soltanto sette. Lasciare la segreteria del partito per fare meglio il capo del governo? Non ci penso nemmeno per un nanosecondo. Non ci credete, fate i gufi? Non credevate nemmeno agli 80 euro, né alla Mogherini ministro degli Esteri europeo e nemmeno al rimborso dei 50 miliardi di debiti della pubblica amministrazione alle imprese.. (qui il governo è un po’ in ritardo e la trattativa sulla passeggiata al santuario di Monte Senario è aperta). E ancora: 149mila precari della scuola saranno assunti (ieri i primi 15mila), si troveranno i soldi per pagare una parte degli scatti maturati dai militari ma si eviteranno duplicazioni, le conferenze di servizi saranno monocratiche e dovranno decidere in un mese (se davvero sarà così, porterò in braccio Renzi a Monte Senario, visto che questo istituto è il frigorifero di ogni progetto).

Le difficoltà del governo sono oggettive. Mettersi contro le lobby è rischioso, tagliare con ‘testa politica’ è complicato. Cottarelli da tecnico usa l’ascia, Renzi deve usare il bisturi. Eppure questi scogli vengono sommersi dalla straordinaria capacità comunicativa del premier che gioca a fare il Davide contro tutti i Golia che hanno paralizzato il paese. I sondaggi dicono che la popolarità del presidente del Consiglio resta alta, superiore a quella del governo e ai voti (tanti) presi dal Pd alle ultime elezioni. «Lo zoccolo duro del mio partito è del 25 per cento – dice Renzi – Il resto è fatto da persone che abitualmente non votano per noi». Quanto durerà questa luna di miele? È già finita, come insinuano i grandi giornali anglosassoni o ha ancora lunghe prospettive? Lo capiremo da qui alla fine dell’anno. Lo capiremo in parte a Natale, quando vedremo se gli 80 euro e un clima generale di maggiore fiducia porterà la gente alla ripresa dei consumi che per ora restano fermi. E capiremo l’effettivo rilievo delle riforme annunciate. Vedremo se davvero la riforma della giustizia sarà incisiva come lascia intendere Renzi o molto compromissoria come temono altri. Vedremo soprattutto come andrà quella del lavoro. I sondaggi trasmessi l’altra sera a ‘Porta a porta’ coincidevano in modo impressionante su un punto: due terzi degli italiani sono favorevoli alla flessibilità che consenta di licenziare con maggiore facilità in cambio di assunzioni più semplici. Metà del campione si irrigidisce sulla modifica dell ‘articolo 18, ma se la domanda si pone in modo diverso c’è un radicale ammorbidimento. Anche sui ‘mini jobs’ alla tedesca (part time di 15 ore alla settimana con stipendi che partano da 450 euro) c’e un interesse maggioritario. Questo dimostra due cose: i sindacati, in particolare la Cgil, combattono una guerra ideologica di retroguardia; la gente chiede provvedimenti radicali e immediati.

Il governo Monti cominciò il suo declino quando non riuscì a fare per decreto la riforma del lavoro, dopo aver fatto per decreto quella delle pensioni. Il decreto Poletti è soltanto un antipasto. Se il grosso del provvedimento andrà in una legge delega che impiega 18 mesi per andare in porto, la medicina sarà recapitata al malato dopo il suo funerale. Mario Draghi ha sconvolto il sonnolento mondo dei banchieri con provvedimenti choc, mai visti nei 24 anni di vita della Banca centrale europea. Renzi, il migliore interprete della ‘fretta’ nell’agire, prenda esempio da lui.

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Alla fine di settembre scade il mandato di Vittorio Conti, commissario dell’Inps a termine nominato da un già defunto governo Letta. Sei mesi di surplace sono però troppi per il più grande ente previdenziale dell’Unione europea che annualmente movimenta, tra entrate e uscite, flussi finanziari per 763 miliardi. L’Inps merita una strategia e una visione alta in un paese che ha perso il 10% del suo Pil e che registra mensilmente record negativi in serie nella sua disoccupazione. L’Inps non può permettersi di galleggiare o di avere poca ambizione. L’istituto ha il dovere di essere un motore dello sviluppo e della politica economica italiana gestendo e mobilitando al meglio le sue cospicue risorse. Non può permettersi di investire male e neppure di investire solo in Btp.

Archiviata la stagione della parole in libertà della gestione Mastrapasqua, quando si vagheggiava dell’Inps come nuova casa del welfare, adesso il governo Renzi è chiamato a cambiare passo. Non tanto e, soprattutto, non solo in materia di governance dell’ente. Fatto sicuramente importante, ma l’Inps non può più permettersi di essere solo oggetto di dibattito sui ruoli e sulle deleghe di chi lo gestisce. Un paese contestualmente in deflazione e in recessione è obbligato a chiedere molto di più alla strategia del suo più importante intermediario finanziario. Come? Innanzitutto il Premier deve affrontare il capitolo Inps con la stessa determinazione con la quale ha rifiutato di partecipare al congresso della Cgil e alla passerella di Cernobbio. Renzi, nel fare le nuove nomine all’Inps, deve prendere tutti in contropiede puntando a disboscare la foresta pietrificata sindacale che da sempre, di fatto, governa l’istituto. L’Inps deve rendere conto ai sindacati di come opera, ma non essere gestito dai delegati dei sindacati in ogni articolazione della sua organizzazione. Poi, Renzi deve scegliere per l’Inps un profilo tecnico effettivamente qualificato in materia previdenziale e pensionistica anche integrative. Non un ex ministro o un politico trombato ma una figura stimata nella materia in campo internazionale e a livello comunitario. In Italia qualche profilo appropriato ancora c’è, anche se, magari, non ha frequentato la Leopolda. Infine, serve qualcuno in grado di lavorare a stretto contatto con il ministro Padoan, che ne parli lo stesso linguaggio, visto che l’Inps rappresenta la componente più importante del bilancio pubblico.

La nomina del prossimo presidente dell’Inps è uno snodo chiave della strategia di politica economica di Renzi. Scegliendo la persona giusta può dare, contestualmente, tanti positivi segnali nella direzione giusta della rottamazione creativa e aiutare il Pil made in Italy a rimettersi in marcia.