Matteo Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Riccardo Scarpa – Il Tempo

Quando lo scorso marzo Matteo Renzi si presentò con le famose slides e con il «venghino signori, venghino…» non pochi ebbero la sensazione che palazzo Chigi si fosse improvvisamente trasformato in un supermercato del prendi tre e paghi due. Ma il giovanotto, che da pochi giorni aveva fatto fuori Enrico Letta, riscosse simpatia e forse anche tenerezza. Vuoi vedere che questa volta svoltiamo veramente? Eravamo, e siamo, talmente con il sedere a terra che un po’ tutti diventammo speranzosi in un miracolo improbabile. Quattro riforme in quattro mesi, 80 euro in busta paga, nuova legge elettorale, abolizione delle province, lotta agli sprechi, un simbolico calcio nel deretano dei burocrati europei, gliela faccio vedere io alla signora Merkel. E ieri l’ultima «trovata»: ai cittadini arriverà il 730 precompilato. Tutto facile? No, perché per le detrazioni delle spese mediche bisognerà per forza modificarlo. Quindi rimetterci le mani.

Renzi si presentò a Strasburgo come Telemaco che ha ritrovato il padre Ulisse, pronto con lui a infilzare i Proci che avevano dissipato le sue ricchezze e insidiato la fedele consorte, in questo caso l’Italia. Da presidente di turno della Ue si è ritrovato con la Mogherini commissaria per gli affari esteri, carica del tutto ininfluente nelle decisioni che contano, ma è costantemente sotto gli sguardi severi dell’Europa che decide davvero e che con ipocrita, ma fermissima eleganza, gli ricorda ormai quotidianamente di fare meno chiacchiere e finalmente più fatti. È così che l’annuncite di Renzi è diventata il brand di un governo che promette molto, ma realizza poco.

Quando si scivola nell’annuncite? Quando difetta la coerenza, si fanno fuochi d’artificio. Un giorno Jobs Act, quello dopo riforma del Senato, l’altro ancora riforma della scuola, ma senza un programma di sistema. Tra hashtag, proclami e minacce di ricorso al voto, sono passati sei mesi da quel 22 febbraio in cui nasceva l’esecutivo del segretario Pd e adesso è il momento dei primi bilanci. Il rottamatore ha incassato il decreto Irpef e la riforma del Senato, ma i problemi arrivano quando si parla di numeri: dalla crescita al Jobs Act tutto da definire. E poi i debiti della Pa, il piano scuole e il deficit. Renzi ha azzardato numeri e date. Come quando disse di poter toccare una crescita del 2%. Fondo Monetario, Ocse e agenzie di rating gli hanno fatto sapere che se nel 2015 il pil italiano crescerà dello 0,5 per cento, sarà il grasso che cola che Renzi vorrebbe prosciugare nei bilanci dei vai ministeri con i prossimi tagli, molto lineari, come quelli di Tremonti.

Il Jobs Act, che sta prendendo corpo in queste ore e che dovrà affrontare non poche tempeste, se va bene non sarà operativo prima della metà 2015. La burocrazia, intanto, incaglia i debiti della Pa. Si è scoperto che dei 29 miliardi di euro saldati alle imprese creditrici dello Stato, circa 27 furono erogati dal governo di Enrico Letta. I 68 miliardi promessi sono restati un miraggio. In tema di edilizia scolastica, lo scorso marzo, mese di slides, il presidente del Consiglio aveva annunciato un piano per la scuola da 3,5 miliardi, assicurando che già dall’estate del 2014 sarebbero stati aperti 7 mila cantieri, per un valore di 2,2 miliardi. Per ora, i soldi spendibili ammontano a soli 550 milioni. La cassa in deroga doveva finire, ma è stato necessario rifinanziare gli ammortizzatori, perché i soldi erano già stati spesi. E i sussidi universali? Rinviati a data da destinarsi. Sembra il gioco delle tre carte, anzi una serie di «supercazzole»: spostare i soldi da una parte all’altra in una rincorsa all’emergenza che non conosce fine. Certo, qualcosa è stato fatto. Il ddl Del Rio ha modificato le Province, anche la sforbiciata sul costo dell’energia per le imprese è arrivata, l’addio al bicameralismo perfetto è più vicino, pur se la strada è ancora lunga e impervia, ma i risultati sono lo stesso insoddisfacenti, perché Renzi continua ad annunciare, senza mai sostituire il «faremo» con lo «stiamo facendo». Un po’ come Berlusconi, che pure delle ragioni le aveva, accerchiato com’era in Italia e in Europa. Renzi le ragioni se le costruisce da solo, ma non conclude lo stesso.

Cosicché, tutta l’insorgente delusione che ormai si fa strada negli italiani, è riassumibile nella slide delle auto ministeriali messe in vendita lo scorso febbraio. L’imbonitore Renzi ne voleva vendere 85, ne ha piazzate due o tre. Gli italiani incassano tutto, ma chiedere loro di acquistare dei catorci blindati che bevono due litri di benzina solo con la messa in moto, è davvero troppo.

Magari Renzi facesse la Thatcher

Magari Renzi facesse la Thatcher

Gaetano Pedullà – La Notizia

Che andavamo incontro a un autunno caldo si sapeva. Ma se le avvisaglie sono quelle viste ieri tra Renzi e la Cgil allora prepariamoci a una stagione infuocata. E non è un male, perché questo Paese non può continuare a rinviare all’infinito i grandi problemi che ci inchiodano in una insopportabile condizione di arretratezza. A partire dal lavoro. Qui i sindacati continuano a negare il più elementare principio di realtà. Non vogliono toccato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che vieta il licenziamento, ma l’Italia non ha mai avuto tanti disoccupati come oggi. Dunque se gli effetti delle attuali norme e garanzie sono quelli che vediamo non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di provare strade nuove. Il job Act aumenta la precarietà, dice la Cgil. Ma ormai tutto in questo Paese è precario. Tutto tranne l’ottusità di chi difende dogmi falliti e fallimentari. A costo di spararla grossa, come ha fatto ieri la Camusso accusando Renzi di voler fare la Thatcher. Dal suo punto di vista un insulto. Andasse a vedere la Camusso cos’è oggi l’Inghilterra, dove vive mezzo milioni di italiani andati a cercare così lontano il lavoro che qui non c’è. Con buona pace dell’articolo 18.

La responsabilità flessibile

La responsabilità flessibile

Piero Ignazi – La Repubblica

Un primo ministro in maniche di camicia che, dalla sede del governo, polemizza aspramente con una importante organizzazione degli interessi; e anche, il segretario del partito di sinistra che attacca frontalmente il proprio sindacato di riferimento. La durezza dello scontro è inedita per le forme; quanto ai contenuti nel passato s’era visto anche di peggio, ma si trattava di partiti moderati e conservatori, non di partiti aderenti alla famiglia socialista. Entrambi i contendenti hanno perso la misura, la segretaria della Cgil paragonando il capo del governo alla Thatcher, e Renzi accusando il sindacato di non aver fatto nulla per i più disagiati in questi anni. Ed entrambi i contendenti hanno ragioni e torti.

Le ragioni del capo del governo, e il merito del suo intervento, stanno nella natura “provocatoria” del messaggio, cioè nel provocare il maggiore sindacato italiano a maggiore disponibilità e maggiore inventiva. Senza un cambio di passo anche la Cgil come tutti gli altri sindacati italiani ed europei rischia l’irrilevanza. La parabola dei sindacati americani, un tempo potentissimi, rappresenta un monito per quelli europei. Persino in Scandinavia stanno perdendo terreno tanto in adesioni quanto nella stima e nella considerazione dell’opinione pubblica. Per il semplice fatto che tutti sono stati presi in contropiede dalle trasformazioni economiche post-fordiste. Non hanno avuto la flessibilità di adattarsi ai diversi rapporti di lavoro che proliferano dovunque (e ai nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro). Non hanno saputo reagire per tempo e con efficacia alla miriade di nuove forme di occupazione. E di conseguenza si sono, quasi inevitabilmente, rinserrati nel territorio che meglio conoscevano e più facilmente difendevano.

È però del tutto fuori misura tacciare i sindacati di indifferenza per gli “ultimi”. Chiunque conosca dall’interno quelle organizzazioni sa quanta generosità e dedizione vi circoli. Ma non è questione di cuore o di buona volontà. Si tratta di attuare un cambio di marcia e guardare al mondo del lavoro in un’ottica più ampia, individuando quali innovazioni siano necessarie e quali residui debbano essere abbandonati (e cosa debba essere difeso con le unghie e con i denti). Perché, quando tutto cambia, e la crisi non ha fatto altro che accelerare drammaticamente processi già in atto, le vecchie conquiste rischiano di essere zavorre che impediscono di acciuffare quelle nuove. Se ha ragione il capo del governo ad insistere nell’innovazione — il suo marchio di fabbrica, peraltro — ha ragione anche il sindacato nel chiedere che si tenga conto delle tante protezioni sociali che mancano ai lavoratori a incominciare dal sussidio di disoccupazione o salario di cittadinanza che sia. Il sindacato si poneva come rappresentante di diritti universali perché il proletariato di un tempo si percepiva, ed era visto, come il terzo stato della rivoluzione francese: “tutto” come diceva l’abate Sieyès. Contrariamente a coloro che li hanno inviati ad occuparsi solo dei loro associati (quante ditini alzati a riprovarli per invadenze nel passato), i sindacati devono sentire di nuovo una responsabilità generale per il “mondo del lavoro” includendo, ovviamente, in questo campo anche chi il lavoro non ce l’ha, l’ha perso, non l’ha mai trovato e rischia di non averlo per molto.

Quando Renzi racconta delle vite spezzate dei non-occupati sentirà certo il dovere etico di rimboccarsi ancora di più le maniche per trovare soluzione a quelle disperazioni. Ma è sicuro che la via più efficace sia quella di alzare al calor bianco la polemica con il sindacato più importante? Vero è che il capo del governo non ha mostrato alcuna deferenza nei confronti dei salotti buoni e delle gerarchie confindustriali (del resto è quello che ci si aspetta da un leader di sinistra). Per decenni l’Italia ha adottato una sua modalità di concertazione che ha prodotto risultati importanti. Per perseguire un obiettivo di carattere generale, ma in certa misura contrario agli interessi della sua organizzazione, un leader di grande prestigio ed autorevolezza come Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo del ‘93, si dimise. La concertazione si è ossificata ed ha perso valore. Non per questo deve essere sostituita da duelli rusticani, anzi. La crisi drammatica che viviamo non necessita di capri espiatori (e semmai, ben altri ce ne sarebbero pensando a quanto ancora prosperano i tanti topi nel formaggio, come diceva Paolo Sylos Labini). Necessita semmai di una nuova modalità di relazioni tra governo e rappresentanti di interessi nella quale ciascuno contribuisca alle necessarie innovazioni. Esibizioni gladiatorie dall’una e dall’altra parte rendono tutto più difficile.

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

Il Foglio

In Viale dell’Astronomia, la sede di Confindustria, non si sta preparando alcuna campagna o una qualsiasi iniziativa pubblica e condivisa a sostegno della riforma renziana del mercato del lavoro che invece sta motivando la mobilitazione dei sindacati. A invocare manifestazioni di piazza, e si vedrà con che modalità – magari solo con dei gazebo dai quali distribuire materiale informativo sulle “vertenze e i problemi del lavoro” – sono la Cgil di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni parallelamente alla Fiom di Maurizio Landini. Per quanto le sigle sindacali siano affette dalla “annuncite” quando si tratta di proclamare uno sciopero generale (“ne annunciano a prescindere”, ha detto Renzi) in questi giorni stanno confinando il dibattito pubblico alla sola difesa dell”articolo 18. Con l’idea di far passare un messaggio preciso: come si può con il tasso di disoccupazione al 12,6 per cento fare così a mani basse strage di lavoratori? Quando invece si tratterrebbe di incentivare la flessibilità del mercato e, infine, adottare quella linea tracciata dall’ad di Fiat-Chrysler nel 2011 per favorire la prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali, senza i quali sindacati e Confindustria non avrebbero ragion d’essere.

In verità non sono mancate in questi giorni le prese di posizione confindustriali sul punto più controverso dello Statuto dei lavoratori e sulla necessità di trasformare un mercato del lavoro che ha ingessato imprese e investimenti: dichiarazioni a sostegno sono arrivate dal direttore generale dell’Associazione, Marcella Panucci, e dal presidente di Federmeccanica, una delle strutture principali dell’associazione, Fabio Storchi (“l’articolo 18, come l’insieme delle nostre regole sul mercato del lavoro, non è più ammesso dalla realtà globale in cui le aziende si muovono”). Ma al netto di sparute interviste e dell’apertura di credito piuttosto netta del quotidiano confidustriale di ieri (“Renzi ha rotto gli indugi sull’ultimo tabù della sinistra e sul mondo del lavoro”) non s’ode una voce stentorea o il rumore dei passi di imprenditori marcianti.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri mattina ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua anche giustamente a criticare il “pessimismo che si coglie da tante parti”, a denunciare tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale sintonizzandosi con la platea che si trova innanzi (ieri il problema era il divario digitale esposto a un convegno sulle telecomunicazioni) e a sottolineare come l’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato” e “ne abbiamo controprove quotidiane”, ha detto. Questo forse non basta ora che si prepara una rivoluzione per un paese abituato al consociativismo e che necessita di mettersi in linea non tanto con l’Europa – dove pure il lavoro è al centro delle esortazioni della Banca centrale europea e della Commissione, oltre che del Fondo monetario – quanto rispetto ai concorrenti internazionali, dentro e fuori dall’area Ocse.

Quando nel 2002 la Germania era in recessione e rischiava la procedura di infrazione per deficit eccessivo, gli industriali diedero un contributo decisivo attraverso una campagna pubblica ad ampio spettro per invocare riforme improntante alla flessibilità dell’impiego, quelle che poi il cancelliere socialista Gerhard Schröder affidò alla regia dell’allora capo della Volkswagen Peter Hartz. Da Viale dell’Astronomia si è spesso dato prova di sapere curvare il dibattito con tambureggianti iniziative d’impatto. Alcune discutibili (il “Fate presto” del Sole 24 Ore nel 2011 a governo Berlusconi morente), altre capaci di motivare la mobilitazione degli imprenditori “innamorati dell`Italia” (nel febbraio del 2014). Forse ora varrebbe la pena di fare altrettanto.

Renzi è un vero fenomeno da baraccone, premier superfluo e indispensabile allo stesso tempo

Renzi è un vero fenomeno da baraccone, premier superfluo e indispensabile allo stesso tempo

Ishmael – Italia Oggi

Sostiene Matteo Renzi che, per «recuperare il tempo perduto», servono almeno «mille giorni». Con meno, non ce la si fa. Mille è il minimo, e chi lo nega è un gufo o un rosicone. Dipendesse da lui, dipendesse dalle sue maniche rimboccate, o dai bambini delle scuole elementari che gli rivolgono (povere creature) domande compiacenti e salameleccose suggerite dalla signora maestra o dal signor direttore, il signor premier farebbe anche più in fretta. Ma il mondo è pieno di brutti ceffi: di «benaltristi», per esempio, e di miscredenti, i quali negano che negli 80 euro si siano incarnate insieme la Giustizia Sociale e la Provvidenza Divina – l’una onnipotente, l’altra misericordiosa.

Mezzo parlamento gli si è rivoltato contro? Renzi ha illustrato il suo «programma dei mille giorni» senza entrare nei dettagli e, in buona sostanza, senza illustrare alcunché ma distribuendo, in compenso, potenti sganassoni ai suoi nemici e avversari. Costoro, invece d’incassare in silenzio, hanno risposto leccando gelati, pazziando e fischiando, agitando bandiere. Dispiace dar loro ragione, perché gli avversari del premier sono i soliti, irriducibili nemici della ragione: Movimento 5 Stelle, ex comunisti, post dicì de sinistra, berlusconiani di scuola falchesca.

A costoro vien voglia di dare sempre torto, per partito preso e a prescindere, nella certezza che, come parlano, i politici e gli antipolitici provocano catastrofi. Sempre nel torto, costoro hanno tuttavia ragione a non poterne più dell’esecutivo, il più vanaglorioso e frivolo della storia repubblicana, di fronte al quale si scappella, riconoscendone il primato, persino l’intero corpo di ballo del bunga bunga, da Nicole Minetti e Ruby «Rubacuori» in giù. Eppure anche Renzi non ha torto quando se la prende con tutta questa genia di benaltristi e rosiconi. È il primo leader italiano dai tempi di Craxi a sfidare apertamente i magistrati e la nomenklatura sindacale. Nessun rosicone, gufo o benaltrista aveva mai osato tanto.

Forse Renzi è un millantatore quando assicura che cambierà l’Italia in capo a mille giorni da oggi. Ma gli ex democristiani di sinistra e i post comunisti li ha rottamati davvero, e mica tra mille giorni, ma cinque o sei mesi fa, e definitivamente. Renzi è una specie di fenomeno da baraccone. Riesce a essere un premier superfluo e indispensabile nello stesso tempo. Non so come ce ne sbarazzeremo. E neanche se ce ne sbarazzeremo.

Avvisati i gufi e tutto lo zoo

Avvisati i gufi e tutto lo zoo

Gaetano Pedullà – La Notizia

La situazione è grave ma non seria. Renzi come Flaiano, ieri ci ha detto che si va avanti come se niente fosse. All’orizzonte dei suoi mille giorni c’è ogni bengodi di riforme: dal lavoro alla giustizia, dalla pubblica amministrazione alla scuola. Come fare tutto questo però resta un mistero perché al premier sta sfuggendo di mano il suo partito e, con Forza Italia ormai divisa in correnti contrapposte, pure Berlusconi non può più garantirgli quell’aiuto sottobanco con cui ha retto finora. Il discorso del premier è diventato così un avviso ai naviganti, soprattutto tra quei parlamentari che hanno a cuore più di tutto la loro poltrona. Se si inceppano le riforme si torna alle urne, ha detto il premier, evocando il voto come mai aveva fatto prima. Dopodiché Renzi è andato al Pd e ha azzerato la segreteria, sostituendola praticamente tutta con nomi nuovi. È chiaro quindi che nessuno sta sull’ultima spiaggia quanto il premier, costretto ad avvisare i partiti e blindarsi dentro il suo. Su questa ultima spiaggia però Renzi sa di non essere solo. C’è tutta l’Italia e c’è il bisogno vero di provare a cambiarlo questo Paese. Senza perdere più tempo. I gufi e tutto lo zoo sono avvisati.  

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.

L’Europa per ora soffre di “annuncite”

L’Europa per ora soffre di “annuncite”

Alessandro Leipold – Il Sole 24 Ore

Il governo Renzi è tacciato di soffrire di “annuncite”. La critica non è senza fondamento, ma viene da chiedersi: «Da che pulpito?». Se vi è un protagonista che del male soffre è l’Europa. Ne è un esempio la conclamata “svolta di Milano”. Intendiamoci, dei progressi alla riunione informale vi sono stati, grazie anche all’abile lavorìo ai fianchi operato dal ministro Pier Carlo Padoan.

Tra questi vi è il riconoscimento (seppur tardivo) che l’Europa soffre di carenza di domanda. Ne segue che le riforme strutturali da sole non bastano e che ci vuole un rilancio degli investimenti. Qui la novità maggiore è stata l’ammissione da parte tedesca del ruolo che tocca alla Germania. «Abbiamo bisogno di più investimenti in Europa», ha riconosciuto il ministro Wolfgang Schäuble, aggiungendo: «Anche in Germania».

Altra novità è l’attenzione posta al coordinamento delle riforme strutturali, con la riduzione del carico fiscale sul lavoro individuata come «chiara priorità». È il punto di partenza giusto. Buono anche il metodo: per la prima volta sono state usate in modo concreto le raccomandazioni indirizzate dal Consiglio europeo a ciascuno dei Paesi membri. Da una loro lettura è emerso che la riduzione del cuneo fiscale è consigliata a 11 Paesi della zona euro (compresi tutti i maggiori). Logico indicarla come una priorità collettiva.

Fin qui tutto bene. Sorge poi l’abituale abisso tra il dire e il fare. Non si decide di avviare, come sarebbe d’uopo, un’azione di riduzione fiscale congiunta, con un impatto d’assieme assai superiore a iniziative nazionali sparse. Invece di mettersi d’accordo su un “fare” concreto e tempestivo, ci si limita a elencare una serie di “princìpi”. Princìpi che sulla questione critica del finanziamento della riforma ricorrono alla litania dello «scarso spazio fiscale», insistendo che i costi «dovranno essere adeguatamente compensati» da tagli alla spesa o spostamenti ad altre tasse, «in modo da rispettare gli obiettivi di finanza pubblica del patto di stabilità».

Altro che «sfruttare al meglio la flessibilità insita nelle norme esistenti del patto», come annunciato dal Consiglio di giugno. Le «norme esistenti» permetterebbero deviazioni dagli obiettivi prestabiliti per coprire i costi di riforme strutturali che «innalzano il potenziale di crescita». Gli stessi ministri dell’Eurogruppo hanno sostenuto che ridurre il carico fiscale sul lavoro «ha la potenzialità di sostenere i consumi, stimolare l’offerta di lavoro e l’occupazione, migliorare la competitività e la profittabilità delle imprese… contribuendo al buon funzionamento dell’unione monetaria». Eppure neanche in un caso così esemplare si è ritenuto di poter applicare la clausola di flessibilità. Insistere sulla copertura significa evirare lo stimolo della misura. Per l’Italia, poi, significa tarparne del tutto le ali, riducendola a cosa ben modesta. C’è da chiedersi: se non ora, e per una tale «priorità politica», quando mai sarà applicata la flessibilità prevista dal patto per le riforme strutturali?

Anche sul fronte dell’altra “svolta”, quella sugli investimenti, sorgono dubbi. La disponibilità del ministro Schäuble ad aumentare gli investimenti in Germania è sconfessata dai fatti: alcuni giorni prima, ha annunciato al Bundestag il raggiungimento anticipato degli obiettivi di finanza pubblica, e l’intenzione di tenere ferma la barra, ponendo l’avanzo di bilancio come obiettivo perpetuo. Eppure la banca statale KfW ha stimato che la Germania potrebbe investire 150 miliardi in più senza violare le proprie regole. Ma, si dirà, vi è l’iniziativa europea, il pacchetto Juncker di 300 miliardi di euro. Dopo tanti vertici sul rilancio degli investimenti e dopo una serie ininterrotta di iniziative (Europa 2020 in poi), i ministri hanno però ritenuto necessario un ennesimo studio, dando mandato alla Commissione e alla Bei «di presentare un rapporto sulle misure concrete e su progetti di investimento profittevoli». Il presidente della Bei ha subito ammonito che sarebbe bene non nutrire «attese esuberanti» su quanto potrà fare la Banca. Quest’ultima ha regolarmente schivato simili chiamate nel timore di intaccare il rating triple-A. I ministri torneranno a parlare della questione in ottobre, intanto l’Europa langue. Speriamo che almeno qui applichino un’altra norma di flessibilità del patto di stabilità, quella sugli investimenti, permettendo l’esclusione dei co-finanziamenti nazionali ai progetti europei.

Nello stesso modo in cui l’Europa chiede al governo Renzi di mostrare concretezza nelle riforme, così l’Europa è tenuta a trasformare i propri annunci in azione concreta. Altrimenti entrambi potrebbero risultare afflitti da un male comune. Senza però mezzo gaudio alcuno.