reddito

Pil: in 10 anni abbiamo perso 2.800 euro a cittadino. Siamo sotto la media dell’Unione Europea e dell’Area Euro

Pil: in 10 anni abbiamo perso 2.800 euro a cittadino. Siamo sotto la media dell’Unione Europea e dell’Area Euro

Dal 2007 al 2016 gli italiani hanno perduto il 9,8% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.800 euro a cittadino. Dopo essere diminuito da 28.700 a 25.900 euro, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (29.700 euro) sia dei Paesi dell’Unione europea a 28 (27.000 euro).

Negli ultimi dieci anni, peggio di noi in Europa hanno fatto solo Cipro (-12,3%) e Grecia (-24,7%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare meno negativo (-2,9% in Spagna e -1,7% in Portogallo) o addirittura in aumento: +0,6% in Francia, +1,6% nel Regno Unito, +7,8% in Germania e addirittura +31,4% in Irlanda. È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

 

Va comunque osservato come nell’ultimo anno (2015-2016) sia stato registrato un aumento del nostro reddito pro capite (+1,2%, pari a 300 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+1,0%, pari a 300 euro), dalla Germania (+0,9%, pari a 300 euro), dalla Francia (+0,6%, pari a 200 euro) e dalla Grecia (+0,6%, pari a 100 euro).

In termini assoluti nel 2016 il reddito pro capite degli italiani (25.900 euro) appare ancora superiore a quello degli spagnoli (23.800 euro), dei greci (17.100 euro) e dei portoghesi (16.900 euro) ma resta comunque di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (83.700 euro), Irlanda (53.600 euro), Danimarca (45.700 euro), Svezia (42.700 euro), Olanda (39.500 euro), Austria (36.100 euro), Germania e Finlandia (entrambe con 34.600 euro), Belgio (34.400 euro), Francia (31.700 euro) e Regno Unito (31.400 euro).

«I recenti, timidi segnali di ripresa non devono illuderci» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «La carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la perdurante crisi dei nostri consumi interni».

Redditi, uno su quattro sotto i 10mila euro

Redditi, uno su quattro sotto i 10mila euro

Enrico Marro – Corriere della Sera

«La distribuzione del carico fiscale e contributivo tra i lavoratori e le famiglie», illustrata nel Focus diffuso ieri dall’Istat, mostra un Paese dove il prelievo sul lavoro è eccessivo, in alcuni casi supera lo stipendio netto, ma pieno di incongruenze, spiegabili solo con un alto livello di evasione. Risultato: la progressività insita nel sistema penalizza molto chi non evade, in particolare coloro che hanno un reddito medio-alto. I dati sono del 2012. Data la crisi, la situazione dei redditi non ha subito cambiamenti di rilievo, mentre sul carico fiscale il governo Renzi è intervenuto prima con il bonus di 80 euro al mese e il taglio dell’Irap e poi con gli sgravi sulle assunzioni a tempo indeterminato.

Il costo medio del lavoro dipendente al lordo delle imposte e dei contributi sociali è stato di 30.953 euro nel 2012, ma al lavoratore sono entrati in tasca solo 16.498 euro netti (1.375 euro al mese), il 53,3%. Il resto, cioè il 46,7%, è andato in imposte e contributi, di cui il 25,6% a carico dei datori di lavoro e il 21,1% dei lavoratori. Il cuneo fiscale e contributivo cresce all’aumentare del reddito e quindi in genere con l’età, il titolo di studio, l’anzianità di servizio. Tra i dirigenti era del 52,2%. Passiamo ora dai dipendenti ai lavoratori autonomi. Il loro reddito lordo è stato in media di 23.432 euro, cioè circa 7.500 euro in meno di quello dei dipendenti, ma il netto praticamente lo stesso: 16.237 euro. Per gli autonomi, infatti, il cuneo fiscale e contributivo rappresentava in media il 30,7%.

L’incidenza delle imposte dirette sui redditi lordi al netto dei contributi sociali, continua l’Istat, è stata del 21,3% per i dipendenti, del 17,5% per i pensionati e del 17,1% (Irap inclusa) per gli autonomi e, tra questi ultimi, del 14,7% per gli artigiani e del 15,5% per i commercianti. «Il minor carico fiscale delle famiglie con reddito da lavoro autonomo — si legge nel Focus — particolarmente visibile nella classe di reddito fino a 15 mila euro, è da attribuire agli effetti di alcuni provvedimenti in materia di tassazione dei redditi degli autonomi e alla revisione al ribasso dei parametri degli studi di settore».

I dati che appaiono più distanti dalla realtà riguardano la distribuzione dei redditi lordi. Il 25,8% si colloca sotto i 10 mila euro (meno di 833 euro lordi al mese), il 54% tra 10 mila e 30 mila, il 17,6% tra 30 mila e 70 mila e solo il 2,4% oltre i 70 mila. Confermate le differenze tra lavoratori. I dipendenti con un reddito fino a 15 mila sono il 39%. Superano il 55%, invece, tra gli autonomi. Nel 2012 l’aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è stata del 19,4%: meno nel Mezzogiorno (16,3%), più nel Nord-Est (19,9%), nel Centro (20,1%) e Nord-Ovest (21%). «Data la progressività del sistema, l’aliquota media d’imposta cresce più che proporzionalmente all’aumentare del reddito». In particolare, «per i redditi superiori a 55 mila euro l’aliquota media applicata al reddito da lavoro dipendente risulta di 8 punti superiore alla componente da lavoro autonomo».

Sempre ieri, la Svimez ha diffuso uno studio sulla crisi e i redditi delle famiglie: sono mediamente scesi del 24,8% nel periodo 2007-12 nel Sud mentre al Nord sono cresciuti dell’1,7%. Infine, l’Ocse certifica che nel 2013 il Pil procapite in Italia era inferiore del 30% rispetto alla media dei primi 17 Paesi industrializzati mentre lo era del 22,7% nel 2007. Pil procapite che, dice l’Istat, è stato in media di 26.700 euro nel 2013 con forti differenze: 17.200 euro nel Mezzogiorno, 31.700 euro nel Centro-Nord. Al primo posto c’è la provincia di Bolzano con 39.800 euro, ultima la Calabria con 15.500.

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Isee, nella lotteria dei parametri rischiano di perdere tutti

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Come uno studente svogliato, che la sera prima dell’interrogazione prova con scarso successo ad affrontare in volata secoli di storia ignorati per mesi, la Pubblica amministrazione italiana sta arrivando splendidamente impreparata all’appuntamento con il nuovo Isee. Qui, però, in gioco non c’è un voto in pagella, ma la possibilità di gestire decentemente l’edilizia popolare nelle città con le periferie infiammate oppure l’assistenza ad anziani e famiglie nei territori schiacciati dalla crisi. Non è certo la prima volta che una riforma arriva con l’affanno all’appuntamento dell’attuazione, ma in questo caso inciampare nell’applicazione pratica delle regole approvate ormai 12 mesi fa sarebbe un peccato grave. L’Isee di seconda generazione ha qualche problema, a partire dall’effetto collaterale dell’Imu che aumenta il valore imponibile della casa di proprietà e si riflette anche sull’indicatore, ma se ben attuata offrirebbe più opportunità che incognite.

Il sistema dei controlli automatici promette di spazzare via la pletora delle autodichiarazioni fantasiose che finora hanno permesso a molti di agguantare prestazioni e servizi a cui non avrebbero avuto diritto. I parametri, raffinati rispetto al passato, provano a offrire un’attenzione più puntuale ai bisogni effettivi delle famiglie, con tutele maggiori quando i figli sono tanti o c’è un portatore di handicap. Tutto il sistema, insomma, nasce per distribuire in modo più efficace i soldi pubblici per il welfare, che certo non aumentano allo stesso ritmo in cui crescono i bisogni.

Proprio quest’ultimo fattore rende indispensabile un surplus di impegno per evitare inciampi. Un po’ di aiuti che si spostano da chi è povero solo sulla carta verso i soggetti davvero in difficoltà sarebbero un’ottima notizia, ma un anziano che perde un sostegno solo perché la sua casa vale per il Fisco il 60% in più sarebbe intollerabile. Eppure il rischio c’è. A renderlo concreto c’è anche il fatto che la rete per lo scambio di informazioni fra le diverse pubbliche amministrazioni sembra ancora piena di buchi e che di conseguenza molti Comuni dovranno applicare “al buio” i nuovi parametri. In questo modo, il passaggio al nuovo Isee rischia di trasformarsi in una lotteria, il cui risultato dipende dall’incrocio più o meno fortuito fra i nuovi criteri di calcolo e le vecchie soglie di accesso ai servizi: una lotteria di cui non hanno bisogno le famiglie in difficoltà né i Comuni, lasciati in prima fila a gestire un problema più grande di loro.

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.

Il Paese dei prestiti negati

Il Paese dei prestiti negati

Gigi Di Fiore – Il Mattino

Un commerciante suicida per i debiti, un pensionato che rischia di perdere la casa, il Sud nella morsa dell’usura: schegge di conseguenze indirette scatenate dal calo dei prestiti bancari, diminuiti dello 0,8 per cento alle famiglie e del 3,8 per cento alle imprese. Dati dell’ultimo mese, calcolati dalla Banca d’Italia. Sono lontani i tempi in cui non ci restavano che le banche per coronare un sogno. Una casa, un’auto, un viaggio: bastava chiedere un prestito, anche piccolo, per conquistarsi l’oggetto del desiderio. A garanzia, un immobile, la propria busta paga di lavoratore a tempo indeterminato, un parente pronto a metterci la faccia per il sì al denaro chiesto. Capi famiglia, artigiani, commercianti hanno alimentato l’esercito dei piccoli risparmiatori che si rivolgevano alle banche per esigenze improvvise. Fino al 2000, secondo i dati dell’ufficio studi della Banca d’Italia, il mercato del credito alle famiglie era di dimensioni ancora limitate rispetto al resto d’Europa: un terzo del reddito disponibile in un anno. Poi, da allora, 14 anni fa, in coincidenza con il calo dei tassi d’interesse, i prestiti bancari sono aumentati fino all’inversione di tendenza esplosa nel 2008.

La crisi, i redditi in diminuzione, la stretta della tasse sempre più numerose hanno spinto la chiusura dei rubinetti. Negli ultimi tre anni, il tramonto del periodo di vacche grasse è diventato fisiologico. Con storie che si fanno dramma, in una spirale sempre più preoccupante. A Ginosa Marina, in provincia di Taranto, un commerciante di 60 anni si è suicidato. Ha lasciato un piccolo quadernetto, dove ha registrato l’abisso della sua sofferenza. Nelle pagine scritte, quasi un testamento: «Mi sono trovato in grandi difficoltà economiche e avevo urgente bisogno di 1300 euro per coprire un assegno consegnato ad un fornitore. Rischiavo il protesto, mi sono rivolto alla mia banca per un fido. Me l’hanno rifiutato e sono piombato nella disperazione». Una moglie e tre figli, il no della piccola banca locale motivato da una «rilevante esposizione debitoria», ha spiegato l’avvocato Giuseppe Lecce, incaricato dalla famiglia di denunciare la banca per «istigazione al suicidio»: «Dagli estratti conto, abbiamo rilevato addebiti sproporzionati per le transazioni scaturite dall’uso del Pos sui pagamenti con carte di credito. Probabilmente, si trattava di errori e il commerciante lo ha fatto presente, nella richiesta di fido. Non l’hanno ascoltato, addebitandogli invece debiti rilevanti».

Casi limite, certo. Ma spia di situazioni difficili. Al Sud come al Nord. A Santa Vittoria di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, un artigiano di 42 anni ha denunciato la banca per usura. Dopo aver pagato per otto anni le rate di un mutuo decennale a tasso variabile, ha dovuto smettere perché si era trovato in difficoltà per il calo di guadagni nella sua attività. Stop alla rata di 800 euro, per poi rivolgersi ad un avvocato attraverso l’associazione antiusura Federitalia a Parma. E arriva una scoperta, attraverso il calcolo dell’associazione: i tassi applicati avrebbero sforato quelli regolari, diventando usurai.

Lo stop ai prestiti si concentra soprattutto sui mutui per l’acquisto della prima casa. Non è un caso, quindi, che il ministero del Tesoro abbia sentito il bisogno, nelle ultime ore, di firmare un protocollo d’intesa con l’Abi, l’associazione delle banche italiane. Prevede un fondo di garanzia, con dotazione di 650 milioni di euro, che dovrebbe consentire lo sblocco di una ventina di miliardi per l’acquisto della prima casa non di lusso. Spiegano Abi e ministero del Tesoro: «Si tratta di un’importante strumento di accesso al credito per la casa a favore dei cittadini, oltre che un immediato impulso alla crescita attraverso il rilancio del settore immobiliare». Beneficiati principali dovrebbero essere le giovani coppie, o un genitore separa-to con figli minorenni. Basterà? Di certo, i rubinetti a secco o totalmente chiusi del prestito bancario toccano le famiglie, come le piccole imprese. Colpa delle crisi, colpa di un sistema finanziario stritolato dalle sofferenze di crediti concessi a grossi gruppi imprenditoriali. Se i soldi vanno ai più grandi, che riescono a offrire più garanzie ma poi non pagano nei tempi fissati, a farne le spese sono i più piccoli e le famiglie. Un paradosso.

Per ristrutturazioni aziendali, o tamponare crisi, occorrono soldi. E le banche ne hanno sborsati cosi tanti che, negli ultimi mesi i 12 primi istituti creditizi italiani si incontrano con sempre maggiore frequenza per trovare soluzioni alle «sofferenze» scaturite da grossi gruppi imprenditoriali in difficoltà: 170 miliardi di euro. I nomi sono circolati da tempo, con Sorgenia, Risanamento e Tassara in cima alla lista. E scrive la Banca d’Italia, riferendosi agli ultimi mesi del 2014: «I criteri di offerta dei prestiti alle imprese sono divenuti lievemente espansivi, beneficiando del miglioramento delle attese riguardo l’attività economica in generale». Più sotto, però, il ma che complica la situazione di chi deve fare i conti con le bollette della luce, il fitto, il mutuo: «I criteri di offerta dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni hanno registrato un ulteriore allentamento».

I piccoli alle prese con la finanza che stritola. Giuseppe è stato a lungo in cassa integrazione alla Fiat di Pomigliano. Racconta: «Se non mi avessero aiutato i suoceri, avrei perso la casa che avevo comprato con un mutuo. Provate voi a onorare una rata di prestito, sottoscritta quando avevo un contratto di lavoro, con 700 euro al mese di cassa integrazione». La stretta alimenta il mercato delle società finanziarie private, che pretendono minori garanzie per concedere prestiti. Molte sono boarder line, strutture improvvisate, che si pubblicizzano con volantini e offrono interessi da favola e prestiti che poi si rivelano usurai. Ci sono però società finanziarie consolidate, con strutture nazionali, che finanziano acquisti di auto, computer, elettrodomestici vari. Nomi ricorrenti: Findomestic, Compass, Agos. Hanno gioco facile se, negli ultimi tre anni, secondo Unimpresa, il valore dei prestiti alle famiglie si è ridotto di 14 miliardi di euro. E per le imprese la contrazione è arrivata, sempre negli ultimi tre anni, alla somma di 70 miliardi di euro. I calcoli, dal luglio 2011 al luglio 2014, sono presto fatti: ai privati sono stati concessi dalle banche 83,1 miliardi di prestiti in meno, che significano il meno 5,49 per cento. Un’impresa fornisce la sua lettura di queste cifre: «La causa sono le sofferenze bancarie, l’insolvenza, il ritardo dei pagamenti. L’effetto diventa però la ripercussione negativa sull’economia reale».

E, a questo scenario da pianto, si aggiungono clausole e interessi applicati dalle banche, che scatenano denunce. Adusbef e Federconsumatori hanno presentato diffide contro 13 banche che, nel concedere mutui, avrebbero inserito «condizioni in grado di determinare un significativo squilibrio di diritti ed obblighi contrattuali, lesivi dei diritti degli utenti». L’elenco comprende gli interessi calcolati per scoperture momentanee dell’utente. Due giorni fa, un pensionato torinese, Vittorio Giari, si è rivolto al programma televisivo «Le Iene», per denunciare il suo caso. Ad una banca torinese aveva chiesto un prestito di 14mila euro, cedendo un quinto della pensione. Ha scoperto di aver restituito addirittura 40mila euro, con un tasso del 29 per cento, oltre il limite del 14,9 per cento fissato dalla legge per non sconfinare in usura. L’inghippo è stato scoperto: il contratto prevedeva anche un’assicurazione obbligatoria, per coprire l’eventuale morte o difficoltà del cliente a restituire il prestito. L’assicurazione è costata 10mila euro, che si è aggiunta alla restituzione con interesse. La banca, portata in tribunale, ha dovuto restituire 7500 euro. Il giudice ha dato ragione al pensionato.

Ma su quali elementi le banche rifiutano prestiti alle famiglie? Influiscono le garanzie e, negli ultimi anni, con l’incremento dei contratti a tempo determinato, gli istituti di credito sono diventati più restii a concedere mutui. Poi, ci si mettono le cosiddette «referenze creditizie». Sono i dati, raccolti da società private o pubbliche costituite da gruppi di banche e finanziarie, sui precedenti dell’utente che chiede un prestito. È l’archivio sui pagamenti in ritardo, i prestiti richiesti, gli eventuali scoperti e tutte le altre informazioni che le banche utilizzano per valutare l’attendibilità di chi chiede denaro e decidere. È il Sic (Sistema informazioni creditizie) a fornire quelle notizie. In Italia, ne esistono quattro: Experian, Consorzio tutela credito, Crif e Assilea. Sono una specie di grande fratello su chiunque si rivolga ad una banca per chiedere denaro. Un sistema invadente, che impone alle banche il segreto sui dati acquisiti. Riguarda finanziamenti inferiori ai 30mila euro. Sono proprio quelli che, inmaggior numero, richiedono le famiglie. L’invadenza nella privacy corre sul filo. Sono le banche e le finanziarie a fornire al Sic i dati personali di chi chiede un prestito. E, bisogna starne attenti, queste informazioni possono essere custodite non oltre sei mesi. Il tempo, di solito, di rispondere si o no alla richiesta. Spiegano all’Aduc, l’associazione per i diritti di utenti e consumatori: «Se il prestito è negato, o il cliente vi rinuncia, le informazioni possono restare in custodia al Sic non oltre 30 giorni. Attenzione, le notizie sui mancati pagamenti, o pagamenti in ritardo, non possono essere conservate oltre 12 mesi dalla regolarizzazione del debito. Sul Sic e i dati personali custoditi, valgono le norme sulla privacy e ci si può rivolgere al Garante per ottenere tutela». Se le richieste di prestiti sono superiori ai 75mila euro, esiste una Centrale rischi pubblica, gestita dalla Banca d’Italia. Riguarda essenzialmente le grosse imprese, i gruppi imprenditoriali di rilievo.

Denuncia Carlo Rienzi, presidente del Codacons: «È un vicolo cieco. La riduzione dei prestiti a famiglie e alle imprese strozza la ripresa. Che fine hanno fatto i miliardi di euro concessi dalla Bce agli istituti di credito, per aumentare i finanziamenti nel nostro Paese?». Domanda lecita, ma la risposta non appare semplice. Salvatore Rossi, attuale direttore generale della Banca d’Italia, ha analizzato l’andamento del credito concesso alle famiglie, partendo dal 2000. Spiega: «Le famiglie italiane hanno assistito alla progressiva riduzione del loro reddito reale, a partire dal 2008. La conseguenza è stato il ridimensionamento dell’acquisto di beni di consumo e la riduzione anche di domande di finanziamento bancario». Secondo quest’analisi, le famiglie a basso reddito sono progressivamente sparite dalla clientela bancaria. Nel 2012, le banche hanno concesso 30 miliardi di mutui e aggiunge ancora il direttore Rossi: «È cresciuta la selettività nell’offerta di credito, condizionando le scelte delle famiglie. Il tasso di sofferenza dei prestiti, così, è aumentato. Nel 2009 era passato dall’l all’1,4 per cento del totale dei prestiti esistenti».

Sono allarmanti i calcoli dell’ufficio studi della Banca d’Italia: almeno il 3, 6 per cento delle famiglie si è trovato con debiti bancari elevati. Le più vulnerabili, quelle con reddito più basso o inesistente, sono calcolate nell’1,4 per cento. Dice ancora il direttore Rossi: «Le progressive contrazioni del reddito reale e il deterioramento del mercato del lavoro hanno mutato le prospettive delle famiglie e ne hanno ridimensionato la propensione a chiedere finanziamenti». Sul no al prestito influiscono gli ostacoli della vita reale: cassa integrazione, famiglie monoreddito, contratti a tempo parziale. Le banche catalogano i «cattivi pagatori» e, in maniera indiretta, soprattutto al Sud, si alimenta il mercato illecito dell’usura. Secondo l’ultimo studio della Cgia di Mestre, la Campania sarebbe al primo posto in Italia per il ricorso agli usurai. Cresce la richiesta del piccolo prestito, trai mille e cinquemila euro a restituzioni da favola. Ma chi ha bisogno di denaro, anche per spese sanitarie non previste, non ha alternative. Soprattutto se non possiede garanzie da fornire alle banche. Dopo la Campania, ci sarebbero, nel ricorso all’usura, Calabria, Abruzzo, Puglia, Sicilia, Molise.

L’ultimo studio dell’Unioncamere, in collaborazione con Libera contro le mafie, lancia l’allarme. Vi si legge: «Un rapporto usurario nasce dalla necessità stringente di denaro, ma anche da un’offerta che può apparire di facile e rapida soluzione a chi si trova in difficoltà». Tassi d’interesse che schizzano dal 120 al 1500 per cento, accompagnati da metodi spicci per ottenere la restituzione del prestito. Confesercenti denuncia che circa 200mila commercianti hanno dovuto ricorrere all’usura. Al primo posto, anche stavolta, la Campania con 32mila commercianti. Racconta Giovanni, che ha dovuto chiudere un suo piccolo negozio di abbigliamento in provincia di Napoli, rimanendo per ora privo di lavoro: «Ero insolvente con più fornitori, che, sperando di recuperare i loro soldi, non mi facevano fallire. La banca non mi concedeva più prestiti, quando mi hanno presentato un’ingiunzione ho dovuto ricorrere agli usurai. Da lì è stata una spirale inarrestabile, che mi ha portato alla chiusura».

Secondo Eurispes, almeno il 35,7 per cento degli italiani ha chiesto nell’ultimo anno un prestito alle banche. Tra i più bisognosi di aiuti finanziari, i lavoratori con partite Iva (44,2 per cento) e il 35,2 lavoratori subordinati. La stessa analisi spiega la richiesta con la necessità di pagare debiti accumulati nel tempo (il 62,3 per cento) e il bisogno di saldare prestiti ricevuti da altre banche o da finanziarie (il 44,4 per cento). In tutti i casi, nella stretta del denaro che non basta mai e che le banche concedono sempre di meno, bene non siamo di certo messi. Speriamo che passi.

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Il nuovo Isee, il meccanismo con il quale viene misurata la ricchezza delle famiglie e in base al quale vengono assegnati i diritti ad accedere alle prestazioni sociali in misura ridotta o piena, partirà da gennaio 2015. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha precisato che tutto era pronto anche prima ma si è preferito aspettare per evitare problemi. «Abbiamo valutato, su richiesta degli enti locali, non opportuno anticipare», in modo che, spiega, «tutti abbiano il tempo, altrimenti si arriva all’ultimo giorno e i cittadini diventano matti». E fa sapere che nelle prossime settimane arriverà la modulistica.

Il nuovo Isee, introdotto dal governo Letta, ha come obiettivo di combattere i furbi e lo scandalo dei finti poveri stabilendo un rapporto diretto tra il reddito reale disponibile e l’accesso al welfare. Come? L’autocertificazione è stata ristretta a poche voci mentre i dati fiscali più importanti come il reddito complessivo e quelli relativi alle prestazioni ricevute dall’Inps saranno compilati direttamente dalla pubblica amministrazione. Il vecchio Isee, in vigore dal 1998, lasciava ampi margini di discrezionalità a chi lo compilava, giacché tutto era auto-dichiarato ed erano in molti ad approfittarsi della fiducia che veniva accordata. Così si verificava lo scandalo di chi arrivava all’università in Ferrari e godeva di una serie di agevolazioni fiscali. Dal documento che accompagnava il decreto di riforma dell’Isee, quando fu aprovato dal governo Letta, emergeva che l’80% dei nuclei familiari in riferimento al patrimonio mobiliare dichiara di non possedere neanche un conto corrente o un libretto di risparmio. Ora invece verranno incrociate le diverse banche dati fiscali e contributive e si darà maggiore attenzione alle famiglie numerose e alle disabilità. L’Isee terrà conto di tutte le forme di reddito, persino quelle fiscalmente esenti, e darà più peso alla componente patrimoniale.

Il nuovo indicatore della ricchezza considera anche la perdita del lavoro e l’onere dell’affitto. Qualora la perdita di lavoro o la cassa integrazione comporti una riduzione del reddito superiore al 25%, sarà possibile aggiornare il proprio Isee. È stato elevato l’importo massimo del costo dell’affitto che si può portare in detrazione del reddito ai fini del calcolo dell’indicatore della ricchezza familiare: da 5.165 euro è stato portato a 7.000 euro con un incremento di 500 euro per ogni figlio convivente successivo al secondo. Aumentano anche le franchigie per ogni figlio successivo al secondo e ci sarà la possibilità di considerare la situazione dell’anziano non autosufficiente che ha figli che possono aiutarlo e quella di chi non ha nessuno. Per gli immobili, si considera patrimonio solo il valore della casa che supera l’ammontare del mutuo ancora attivo, mentre viene riservato un trattamento particolare alla prima casa.

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Riccardo Scarpa – Il Tempo

Quando lo scorso marzo Matteo Renzi si presentò con le famose slides e con il «venghino signori, venghino…» non pochi ebbero la sensazione che palazzo Chigi si fosse improvvisamente trasformato in un supermercato del prendi tre e paghi due. Ma il giovanotto, che da pochi giorni aveva fatto fuori Enrico Letta, riscosse simpatia e forse anche tenerezza. Vuoi vedere che questa volta svoltiamo veramente? Eravamo, e siamo, talmente con il sedere a terra che un po’ tutti diventammo speranzosi in un miracolo improbabile. Quattro riforme in quattro mesi, 80 euro in busta paga, nuova legge elettorale, abolizione delle province, lotta agli sprechi, un simbolico calcio nel deretano dei burocrati europei, gliela faccio vedere io alla signora Merkel. E ieri l’ultima «trovata»: ai cittadini arriverà il 730 precompilato. Tutto facile? No, perché per le detrazioni delle spese mediche bisognerà per forza modificarlo. Quindi rimetterci le mani.

Renzi si presentò a Strasburgo come Telemaco che ha ritrovato il padre Ulisse, pronto con lui a infilzare i Proci che avevano dissipato le sue ricchezze e insidiato la fedele consorte, in questo caso l’Italia. Da presidente di turno della Ue si è ritrovato con la Mogherini commissaria per gli affari esteri, carica del tutto ininfluente nelle decisioni che contano, ma è costantemente sotto gli sguardi severi dell’Europa che decide davvero e che con ipocrita, ma fermissima eleganza, gli ricorda ormai quotidianamente di fare meno chiacchiere e finalmente più fatti. È così che l’annuncite di Renzi è diventata il brand di un governo che promette molto, ma realizza poco.

Quando si scivola nell’annuncite? Quando difetta la coerenza, si fanno fuochi d’artificio. Un giorno Jobs Act, quello dopo riforma del Senato, l’altro ancora riforma della scuola, ma senza un programma di sistema. Tra hashtag, proclami e minacce di ricorso al voto, sono passati sei mesi da quel 22 febbraio in cui nasceva l’esecutivo del segretario Pd e adesso è il momento dei primi bilanci. Il rottamatore ha incassato il decreto Irpef e la riforma del Senato, ma i problemi arrivano quando si parla di numeri: dalla crescita al Jobs Act tutto da definire. E poi i debiti della Pa, il piano scuole e il deficit. Renzi ha azzardato numeri e date. Come quando disse di poter toccare una crescita del 2%. Fondo Monetario, Ocse e agenzie di rating gli hanno fatto sapere che se nel 2015 il pil italiano crescerà dello 0,5 per cento, sarà il grasso che cola che Renzi vorrebbe prosciugare nei bilanci dei vai ministeri con i prossimi tagli, molto lineari, come quelli di Tremonti.

Il Jobs Act, che sta prendendo corpo in queste ore e che dovrà affrontare non poche tempeste, se va bene non sarà operativo prima della metà 2015. La burocrazia, intanto, incaglia i debiti della Pa. Si è scoperto che dei 29 miliardi di euro saldati alle imprese creditrici dello Stato, circa 27 furono erogati dal governo di Enrico Letta. I 68 miliardi promessi sono restati un miraggio. In tema di edilizia scolastica, lo scorso marzo, mese di slides, il presidente del Consiglio aveva annunciato un piano per la scuola da 3,5 miliardi, assicurando che già dall’estate del 2014 sarebbero stati aperti 7 mila cantieri, per un valore di 2,2 miliardi. Per ora, i soldi spendibili ammontano a soli 550 milioni. La cassa in deroga doveva finire, ma è stato necessario rifinanziare gli ammortizzatori, perché i soldi erano già stati spesi. E i sussidi universali? Rinviati a data da destinarsi. Sembra il gioco delle tre carte, anzi una serie di «supercazzole»: spostare i soldi da una parte all’altra in una rincorsa all’emergenza che non conosce fine. Certo, qualcosa è stato fatto. Il ddl Del Rio ha modificato le Province, anche la sforbiciata sul costo dell’energia per le imprese è arrivata, l’addio al bicameralismo perfetto è più vicino, pur se la strada è ancora lunga e impervia, ma i risultati sono lo stesso insoddisfacenti, perché Renzi continua ad annunciare, senza mai sostituire il «faremo» con lo «stiamo facendo». Un po’ come Berlusconi, che pure delle ragioni le aveva, accerchiato com’era in Italia e in Europa. Renzi le ragioni se le costruisce da solo, ma non conclude lo stesso.

Cosicché, tutta l’insorgente delusione che ormai si fa strada negli italiani, è riassumibile nella slide delle auto ministeriali messe in vendita lo scorso febbraio. L’imbonitore Renzi ne voleva vendere 85, ne ha piazzate due o tre. Gli italiani incassano tutto, ma chiedere loro di acquistare dei catorci blindati che bevono due litri di benzina solo con la messa in moto, è davvero troppo.

I salti del gambero dell’Italia in crisi

I salti del gambero dell’Italia in crisi

Marco Biscella, Rossella Cadeo e Fabio Grattagliano – Il Sole 24 Ore

Si cominciano a contare i mille giorni del governo Renzi, si osserva con apprensione l’evolversi della situazione geopolitica mondiale e si scruta l’orizzonte in cerca dei primi segnali di ripresa. Ma, nonostante tutta questa proiezione in avanti, l’orologio della congiuntura economica in molti casi sembra andare all’indietro, e anche veloce- mente: nel “monopoli” dello sviluppo, dal reddito ai consumi, dal mattone alla produzione, dal risparmio al lavoro, l’Italia non solo risulta inchiodata a performance preoccupanti – conseguenza della crisi che l’ha investita a partire dalla fine del 2008 – ma ha decisamente innescato la retromarcia, e di parecchi anni. Un «indietro tutta» che Il Sole 24 Ore del lunedì in queste due pagine documenta con statistiche ufficiali, dopo aver esplorato – per una decina di indicatori- qual è la situazione attuale e a quale anno occorre riandare per incontrare un valore analogo.

Il record dell’inflazione
Il caso più eclatante è quello relativo al tasso d’inflazione, ambito nel quale l’Italia ha fatto addirittura un balzo (indietro) di 55 anni: dopo anni di crescita moderata, nel luglio 2014 l’Istat ha infatti diffuso il primo segno negativo (-0,1%) così come nel 1959 (-(0,4%). Allora però il Paese – superata la prova del dopoguerra – si avviava, pieno di energia, sulla strada del “miracolo economico”, tra consumi in ripresa, aumento di produttività e occupazione, sviluppo di grandi imprese. Strada interrotta bruscamente dallo shock petrolifero del 1973, quando per una dozzina d’anni il carovita inanellò tassi di crescita a due cifre.

L’edilizia in panne

Non va meglio per l’edilizia, ferma alla fine degli anni 60, periodo di boom economico, sviluppo urbano e infrastrutturale: gli investimenti nel 2014 non arriveranno a 60 miliardi (stime Ance), come nel 1967. Che il mattone sia in sofferenza lo confermano anche i dati sulle compravendite immobiliari, che nel 2013 (stime Nomisma) sono scese quasi a quota 4oomila, meno del volume totale registrato a metà dei favolosi “anni 80”, quando pe- rò ancora non c’erano cellulari e per le notizie si aspettava il telegiornale.

Le auto e la produzione
E anche le auto guardano nello specchietto retrovisore: le immatricolazioni nel 2013 (1,3 milioni) si sono collocate ai livelli del 1979 (1,4 milioni), anno in cui anche importazioni ed esportazioni peraltro segnavano risultati molto più brillanti degli attuali. Più o meno della stessa lunghezza (quasi trent’anni) i salti indietro compiuti dal reddito disponibile pro capite e dalla produzione industriale: il primo indicatore è bloccato a 17.200 euro, più o meno quanto nel 1986 (l’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Confcommercio), mentre il secondo indicatore – secondo l’indice elaborato da Centro Studi Promotor su dati Istat – è pari a 81,2, non lontano dall’8o, indice anche questo attribuibile al 1986.

Redditi e consumi
“Soltanto” di una ventina d’anni, fino al 1997-’98, arretra invece l’orologio che segna lo stato della ricchezza degli italiani, dei consumi privati, dell’occupazione e del turismo. Infatti la ricchezza netta per famiglia è bloccata sui 350mila euro (elaborazioni Banca d`Italia), i consumi privati finali (sempre per nu- cleo) sono scesi sotto i 2.600 euro al mese rilevati qualche anno prima dell’ingresso dell’euro (importo ricavabile dalle statistiche Istat a prezzi concatenati). È vero, infatti, che il consumatore si è evoluto, cosi come si è ampliata ed è migliorata l’offerta, ma è anche vero che le minori entrate, la pressione fiscale e le incertezze sul futuro lo convincono a non riempire troppo il proprio carrello.

L’Italia jobless
Quanto al lavoro – fonte principale d’incertezza in questi anni di crisi – il tasso di disoccupazione veleggia ormai stabilmente da più di un anno oltre il 12% e nel luglio scorso ha toccato un allarmante 12,6%, con livelli mai raggiunti dal 1977, e appena sfiorati nel 1998. Agli italiani, coscienti della recessione in atto, ma fiduciosi (stando agli ultimi sondaggi) di poterne uscire, non resta che attuare tutte le strategie possibili per adeguare le uscite ai sempre più precari redditi: non per nulla anche sulle vacanze sono disposti a tagliare, per esempio riducendo il numero di giorni in albergo o la durata media dei pernottamenti, mai così bassi da inizio secolo.

Insomma,i salti del gambero sono tanti, troppi. E la crisi in cui si dibatte l’Italia rischia di essere peggiore anche della Grande depressione degli anni 30, quando il Pil pro capite risalì la china in otto anni. Oggi, invece, come ha rilevato Nomisma,«nell’ottavo anno (il 2015) il Prodotto interno lordo pro capite reale sarà un buon 10% sotto il valore pre-crisi».

Il calo dei redditi gela i consumi

Il calo dei redditi gela i consumi

Marzio Bartoloni – Il Sole 24 Ore

Il miracolo non c’è stato. I consumi sono praticamente fermi: si spende meno e solo per il necessario con il reddito disponibile che è tornato quello di 30 anni fa. L’effetto Renzi con il bonus da 80 euro che si era sentito in primavera si è affievolito e non ha lasciato il segno. Anche perché gli italiani – che rinunciano sempre di più alle spese extra (dai viaggi al pasto fuori casa fino alla salute e all’abbigliamento) – ne subiscono uno nuovo: l’«effetto Tasi», il tributo che tra i tanti preoccupa di più per l’incertezza che lo contraddistingue.

L’ultimo bollettino di guerra sullo stato di salute dell’economia delle famiglie italiane è contenuto nella nota di aggiornamento del Rapporto consumi diffuso ieri da Confcommercio. Uno stillicidio di numeri negativi. L’anno scorso la spesa delle famiglie ha registrato una flessione del 2,5%, con una contrazione del 7,6% in otto anni, durante i quali il reddito disponibile reale pro capite è sceso del 13,1%, pari a un ammontare di 2.590 euro a testa. Quest’anno secondo la Confcommercio l’andamento sarà praticamente piatto: la chiusura dei consumi dovrebbe attestarsi su un fragile +0,2%, mentre il prossimo anno se si dovessero confermare le previsioni la crescita raggiungerà uno striminzito +0,7% (a fronte di +1% di Pil).

La fotografia attuale dei consumi oltre che a risentire della profonda crisi che ha investito il Paese negli ultimi anni ha radici anche più profone. In poco più di 20 anni i consumi degli italiani sono infattti cresciuti complessivamente soltanto del 12,3% e questa crescita è dovuta esclusivamente alla dinamica positiva dei servizi. Fenomeno che i commercianti indicano come «la terziarizzazione dei consumi», vale a dire che le famiglie sono costrette sempre di più a privilegiare i servizi rispetto ai beni. I primi, infatti, coprono ormai il 53% della spesa totale (dal 41,8% del 1992), mentre i secondi sono precipitati dal 58,2 al 47%. La prova più evidente di questo spostamento riguarda la fruizione a esempio di servizi come la telefonia cellulare o internet che hanno preso il posto di consumi una volta privilegiati come l’abbigliamento o l’alimentazione.

Non solo: secondo la nota di Confcommercio i consumi cosiddetti “obbligati” (dalla casa alla benzina, dall’assicurazione alla sanità) coprono ormai il 41% del totale: per la casa, spesa obbligata per antonomasia, si è passati dal 17,1% al 23,9% del totale. Alla fine quindi la cifra che ogni famiglia ha a disposizione per tutto il resto, e su cui ha pertanto libertà di scelta, si è ridotta: l’indice delle possibilità effettive di consumo è infatti crollato a 10.900 euro dai 14.300 del 1992. Un terremoto che ha cambiato il modo in cui apriamo e chiudiamo il portafogli. Nel 2013 gli italiani hanno rinunciato soprattutto ai pastifuori casa (-4,1%) e in particolare per l’alimentazione domestica (-4,6%), ai viaggi e alle vacanze (-3,8%), alla cura del sé e alla salute (-3,5%). Con un vero tracollo della spesa per l’abbigliamento e le calzature (-6,3%). E anche quest’anno, anche se più affievoliti, resteranno i segni meno.

Il dato di partenza resta quello della difficoltà di arrivare a fine mese: il reddito disponibile delle famiglie italiane è infatti fermo ai livelli di 30 anni fa. Nel 2014 il reddito è pari a 17.400 euro (come il 2013), mentre nel 1986 era a 17.200 euro. Su tutto poi pesa la fiducia dei consumatori schizzata in alto in primavera grazie all’avvento del Governo Renzi e ai suoi annunci culminati nel bonus 80 euro, ma che ora si è affievolita «producendo solo modesti effetti sui comportamenti di spesa tra aprile e luglio», sottolinea l’Uffico studi di Confcommercio. I consumatori sono infatti tornati a guardare al futuro con preoccupazione: troppe le incertezze, a cominciare da quelle relative alle tasse, Tasi in prima fila. Ora se agli annunci non seguiranno «azioni coerenti» questo clima di fiducia «non si consoliderà». Il presidente di Confcommercio Sangalli dà però ancora credito al premier: «La priorità assoluta in Italia resta la riduzione delle tasse. Sono convinto che Renzi ce la farà ad estendere il bonus degli 80 euro». 

La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati.