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L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

Stefano Filippi – Il Giornale

Medaglia d’oro e menzione d’onore al prefetto di Genova, che con alta sensibilità e vicinanza alla popolazione colpita dall’alluvione ha concesso ai cittadini, vessati dalle tasse almeno quanto dal maltempo, un rinvio per pagare le cartelle esattoriali di Equitalia. Una dilazione significativa, congrua, adeguata al dramma che la città vive da giorni: 24 ore. Insediatasi il 1° ottobre scorso (ha lasciato Imperia per volontà del ministro Alfano), il prefetto Fiamma Spena non ha voluto mancare l’occasione per manifestare tutta la sua solidarietà ai genovesi. Non poteva trovare modo migliore per presentarsi a loro.

Il decreto porta la data del 12 ottobre, domenica. Tiene conto dell’«emergenza in atto connessa agli eventi alluvionali» e del fatto che «la situazione di Allerta 2 si protrarrà fino alle ore 23.59 di lunedì 13 ottobre»: i tecnici dell’Arpal (Azienda regionale per la protezione dell’ambiente ligure) non saranno abilissimi nel preavvertire la popolazione dei disastri incombenti, ma sono dei fenomeni nelle previsioni. Calcolano al minuto quando le nubi si schiuderanno sul cielo di Genova. Dalla mezzanotte sarà davvero un altro giorno.

E così i contribuenti che il giorno 13 avrebbero dovuto saldare le cartelle esattoriali, esaurita la perturbazione, la mattina del 14 (cioè ieri) non avevano più scuse per non versare il dovuto a Equitalia. La quale, tramite il direttore centrale sicurezza, aveva rivolto al prefetto Spena una «richiesta in tal senso per le vie brevi», cioè senza troppi protocolli. Una telefonata, forse una mail. Ma che bontà d’animo, che attenzione per gli sfollati. Ventiquattr’ore di slittamento. Una beffa per gli alluvionati, come se nel volgere di una giornata tutto possa tornare alla normalità e la gente abbia già voltato pagina, pronta a pagare le tasse. Ventiquattr’ore di proroga, la classica soluzione burocratica che consente di proclamare: «Non è vero che non abbiamo fatto niente per alleggerire i disagi». Genova è ancora sommersa dal fango, la gente impugna ancora i badili per liberare case, strade e negozi, la pazienza sta raggiungendo il limite. Ma la pazienza dei genovesi è sfidata da quest’ultimo schiaffo della burocrazia. Lo Stato è incapace di difendere la popolazione, non ha i soldi per il risanamento idrogeologico, quando riesce a finanziare le opere non riesce a completarle perché i ricorsi, i tribunali, la burocrazia impediscono di dare risposte reali ai cittadini. Il sindaco premia i funzionari comunali che dovevano intervenire e l’hanno fatto nel modo che si è visto. Il premier non si fa vedere tra i carrugi e, al solito, promette. Grillo fa retromarcia e pure lui evita di sporcarsi le mani, a differenza degli «angeli del fango».

Una dilazione di un mese sarebbe stata un segnale di svolta. Uno stato finalmente preoccupato delle condizioni del popolo. E avrebbe anche obbedito al buon senso. Che cosa sarebbe successo se l’Allerta non fosse rientrata? Vista la tempestività con cui (non) vengono diramati gli avvisi, non era un’eventualità così improbabile. Il prefetto avrebbe diramato una seconda ordinanza alle 23:59 e 10 secondi di lunedì notte? Come avrebbe potuto avvertire la cittadinanza? Non era il caso di fissare subito un termine più ampio, in modo che i contribuenti attesi alle forche caudine di Equitalia avessero tutto il tempo di provvedere una volta terminata l’emergenza? No, il rappresentante del governo ha stabilito che il rinvio di un giorno fosse adeguato. E i genovesi, che finora hanno sperimentato l’incapacità dello stato di mettere il territorio in sicurezza, ora sanno che andrà ancora avanti così.

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Quelle uniche 24 ore alla macchina utensile sono costate al generoso imprenditore 400 euro (sì, quattrocento euro), tra apertura e chiusura della posizione, contributi, dichiarazioni e bolli vari. L’episodio rivela quanto ormai sia urgente abbassare le tasse sull’occupazione e sulle aziende che la creano e quanto ogni passo falso del premier Renzi su una materia così verrà considerato una colossale presa in giro.

Questo è il paese dove viviamo: troppe tasse, troppa spesa improduttiva, troppe carte, poca certezza del diritto, poca fiducia. Serve una scossa più che una scommessa. E se il governo riuscirà nell’impresa titanica di far rialzare la testa a un’Italia impaurita e perduta grazie ad una legge di stabilità di 30 miliardi di euro che dà e non toglie, non ci sarà che esserne felici. L’impresa, a dire il vero e leggendo dati economici e prescrizioni contabili europee, sembra quasi disperata, ma una cosa il presidente del consiglio sembra averla capita bene: ogni euro di risorsa trovata nelle pieghe di bilancio, frutto della spending review, della riduzione dell’avanzo primario che farà aumentare il deficit di 11 miliardi o di qualche spremitura del settore dei giochi, deve andare a sostenere il lavoro che c’è ancora e a promuovere quello che manca. Per questo, almeno sulla carta, in attesa di vedere l’andamento delle legge finanziaria in Parlamento e di ascoltare le immancabili raccomandazioni della commissione europea (che non è detto debba per forza bocciare questa manovra italiana, vista la tempistica del passaggio di consegne tra Barroso e Juncker), sembra obbligata la strada intrapresa dall’esecutivo: l’azzeramento dei contributi per tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato, il taglio da 6,5 miliardi di euro dell’imponibile Irap legato al costo del lavoro, la conferma del bonus da 80 euro e la possibilità di utilizzare il Tfr in busta paga, vanno tutte nello stesso verso di rilanciare il fatturato e il bilancio di famiglie e imprese. E c’è da chiedersi che effetti si sarebbero potuti ottenere già dal 2012 con una politica economica del genere, invece di sospendere per un anno l’Imu, tornata più alta e complicata di prima nel 2014. Probabilmente, ci sarebbero più soldi in cascina e nei salvadanai, perché quella misura del governo Letta si è rivelata un terribile boomerang.

La formula meno tasse, più lavoro, più consumi, più crescita, sulla carta può quindi funzionare; nella pratica, date le condizioni oggettive dell’economia e della finanza pubblica e la vigenza delle norme del fiscal compact (che si fa finta siano state sospese, ma così non è), appare per ora un numero da novelli Houdini delle regole di bilancio più che da Keynes del XXI secolo. Può andare a buon fine ma anche avere effetti mortali se il Pil non riprenderà a marciare. Anzi, Renzi potrebbe meritarsi addirittura il Nobel quanto meno del coraggio, con questa manovra da 30 miliardi quasi tutta finanziata con nuova spesa e per l’altra metà coperta da una mostruosa operazione di revisione della stessa. Un premio che Bruxelles e Berlino non hanno però alcuna intenzione di conferire a scatola chiusa all’ex sindaco, perché sanno bene che il nostro paese è attanagliato da decenni di immobilismo, strangolato da un debito monstre, soverchiato da uno stato pachiderma, offeso da 120 miliardi di evasione annua. Troppo per sperare di farcela da soli, così, nel giro di due settimane. Ma sperare è lecito, provarci doveroso. Come auspicabile è augurarsi che la riduzione della spesa, dopo l’addio di Cottarelli, non si riduca in tagli lineari che altro non faranno che contrarre i servizi e magari gli stanziamenti agli agonizzanti enti locali. Per una volta, forse l’ultima, possiamo dimostrare ad altri paesi che stanno peggio ma vincono i veri premi di Stoccolma, che un’altra Italia è possibile e che quei 400 euro possono essere restituiti all’imprenditore, abbassando le tasse e migliorando i servizi.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Tagliamo le imposte, ma per tutti

Carlo Lottieri

La proposta avanzata da Matteo Renzi in tema di fisco, con il progetto di ridurre per tre anni le imposte azzerando i contributi a chi assuma nuovi dipendenti, sta riscuotendo successo: anche in ambienti culturali lontani dalla maggioranza di centro-sinistra oggi al governo. C’è però da chiedersi se non vi sia qualche falla in questa maniera di procedere.
Un punto è chiaro e fuori e discussione: le imposte vanno ridotte. È necessario che lo Stato si ritragga, tagliando le spese, e che in tal modo sia possibile abbassare la pressione fiscale senza sfasciare ancor più i conti pubblici con altro debito. Ma è giustificabile una politica che privilegi, in questo caso, le aziende che decidono di assumere nuovi dipendenti a scapito delle altre?
L’intenzione è positiva, perché non c’è dubbio che rimanere senza lavoro è qualcosa di tragico ed è giusto fare il possibile perché chiunque abbia una vera chance di essere produttivo: di mettersi al servizio dei bisogni degli altri. Nondimeno una simile misura suscita qualche perplessità.
In primo luogo, essa è discriminatoria. L’impresa che ha assunto un anno fa non godrà del beneficio tributario riconosciuto a quanti si sono presi in azienda altri dipendenti dopo l’approvazione della norma: e questo comporta due conseguenze. Una sul piano della giustizia (perché due aziende sono trattate in maniera differente solo perché una ha assunto prima e l’altra dopo) e l’altro sul piano della competitività, dal momento che l’azienda che assume solo all’indomani dell’approvazione della norma può fare prezzi inferiori a quella che aveva assunto in precedenza.
In secondo luogo, questa scelta può modificare il comportamento degli amministratori delle aziende, ad esempio portandoli ad assumere invece che a rinnovare i macchinari, e non è detto che sia una scelta economicamente ragionevole (capace, insomma, di soddisfare al meglio i consumatori). Se vi sono norme che mi inducono ad assumere invece che utilizzare altrimenti le mie risorse, è possibile che io assuma anche quando altre iniziative sarebbero state migliori.
In fondo, tutto si riassume nella pretesa dei governanti di “indirizzare” le scelte delle imprese private. Ma non è in questo modo che cresce un’economia libera. Sarebbe allora molto meglio che la riduzione del prelievo fiscale, se mai si farà, sia fatta senza dividere tra figli e figliastri: senza aiutare chi investe e chi non, chi assume e chi non, chi esporta e chi produce per il mercato interno, e così via.
Un ordine economico di libero mercato non nasce dalla programmazione di politici che orientano le scelte degli individui, ma quale risultante delle decisioni di quanti (imprenditori, dipendenti, consumatori, ecc.) sono in condizione di poter decidere della propria vita e dei propri beni. Ben venga quindi un vero taglio al prelievo fiscale e, assieme a questo, anche un dimagrimento dell’apparato pubblico. Ma se si riuscisse a togliere ogni elemento dirigistico (e con esso l’illusione che la politica possa creare occupazione) sarebbe molto meglio.
L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Con una mano dà e con l’altra prende. A pochi giorni dall’appuntamento con il pagamento dell’acconto della Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, coloro che hanno avuto il bonus da 80 euro stanno facendo i conti del bluff. Il bonus se ne andrà in fumo quasi tutto. E una volta pagata la prima rata dell’imposta, nemmeno il tempo di riprendere fiato che ecco arriva la legge di Stabilità. Difficile quindi parlare di rilancio dei consumi quando in tasca di chi ha dovuto spendere gran parte degli 80 euro in tasse. I beneficiari del bonus, lo ricordiamo, non sono in una situazione reddituale privilegiata. Il requisito per accedere alla «paghetta» elargita dal premier Renzi, era di percepire un reddito annuo lordo inferiore ai 25.000 euro. Il bonus è scattato con lo stipendio di maggio. Quindi per fine anno chi è stato «beneficiato» da questo «regalo» avrà percepito circa 640 euro.

Il costo medio della Tasi, secondo i calcoli del centro studi della Uil, ammonta a una media di circa 148 euro (74 euro da versare con l’acconto). Ma se si prendono a riferimento le sole città capoluogo l’importo sale a 191 euro medi (96 euro per l’acconto), con punte di 429, un conto più salato dell’Imu in un caso su due. Pertanto circa due terzi del bonus di 80 euro viene assorbito dall’imposta. A questi record si è arrivati perché la media dell’aliquota applicata dai 105 capoluoghi di provincia è pari al 2,63 per mille (superiore all’aliquota massima ordinaria), anche se «ammorbidita» dalle varie detrazioni introdotte dai relativi Comuni. Ci sono almeno 100mila combinazioni diverse di detrazioni ma se la fantasia è soddisfatta non lo è il portafoglio. Giacchè anche a fronte delle detrazioni il salasso rimane. Secondo la simulazione a Roma si pagheranno 391 euro medi, a Firenze 346 euro, a Bari 338 euro, a Foggia 326 euro, a Como 321 euro, a Trieste 309 euro, a Milano 300 euro, a Monza 299 euro e a Pisa 287 euro. Se all’imposta sui servizi poi si aggiungono la Tari (la tassa sui rifiuti) e le addizionali comunali, il bonus non basta più. Facciamo un esempio. Nel caso di un’abitazione di tipo economico A3 (che è di minor pregio), a Roma, tra Tasi, Tari e l’addizionale comunale Irpef, si pagano circa 1.100 euro. La Capitale si colloca al primo posto nella classifica delle città più tassate. Seguono Bari, con 1.079 euro, Napoli con 1.000 euro e Genova, con 961 euro.

Spulciando le delibere approvate dai principali Comuni capoluogo di Regione in materia di Tari, Tasi e addizionale comunale Irpef è emerso che, in quasi tutte le città, l’addizionale comunale ha raggiunto l’aliquota massima dello 0,8% (Roma applica addirittura lo 0,9%). Solo quattro amministrazioni hanno applicato una aliquota inferiore: Bologna (0,7%), L’Aquila (0,6), Aosta (0,3%) e Firenze (0,2%). Nel caso della Tasi in 9 casi stato applicato il valore massimo consentito per le abitazioni principali: 3,3%. La Tari, invece, colpisce soprattutto al Sud. Nonostante il servizio di raccolta dei rifiuti erogato nelle grandi città del Mezzogiorno non sia sempre «impeccabile», per un’abitazione di tipo civile A2, una famiglia di 3 persone residente a Cagliari paga quest’anno 653 euro. A Napoli 522 euro e a Palermo 497 euro. Quindi in questi casi tutto il bonus basta solo a coprire la tassa sui rifiuti.

Se è vero che il costo della Tasi sarà complessivamente leggermente più basso della vecchia Imu, è anche vero che la distribuzione della nuova tassa è meno equa: pagherà di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate. Questo vuol dire che sono penalizzati proprio coloro che hanno ricevuto il bonus. L’imposta quindi non è stata concepita con una gradualità tale da favorire i proprietari di immobili di categoria medio bassa. Oltre il danno anche la beffa di vedersi prelevati dal fisco gli 80 euro. Dalle simulazioni fatte dalla Uil emerge che per 1 famiglia su 2 il costo della Tasi sarà maggiore dell’Imu nel 2012. La conclusione è che nel 2014 con la Tasi la pressione fiscale delle famiglie, rispetto al 2013, aumenterà. Gli 80 euro serviranno soltanto ad attenuare la stangata ma non saranno certo soldi che il contribuente potrà destinare ai consumi. Pagate queste imposte, in tasca rimane ben poco o nulla degli 80 euro. In queste condizioni i contribuenti dovranno affrontare l’appuntamento con la legge di Stabilità. Renzi promete che non ci saranno nuove imposte ma aveva anche promesso che il bonus sarebbe servito a rilanciare i consumi.

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Andrea Bassi e Luca Cifoni – Il Messaggero

Il dato, quasi paradossale, lo ha certificato ieri l’Istat. Il bonus da 80 euro, per la metà, ha favorito i redditi medio-alti. Come questo sia stato possibile è semplice da spiegare. In Italia non esiste il reddito familiare. Così se in uno stesso nucleo ci sono due persone che guadagnano meno di 26 mila euro, entrambi hanno diritto al bonus, dal quale, invece, sono stati del tutto esclusi gli incapienti (chi dichiara meno di 8 mila) e le famiglie monoreddito sopra i 26 mila euro. Per mettere una toppa, seppur parziale, alla seconda di queste storture, il governo nella legge di Stabilità destinerà 500 milioni di euro agli sgravi per le famiglie numerose. Allo studio ci sarebbe un doppio meccanismo, legato anche ad una possibile rivisitazione del funzionamento del bonus da 80 euro. La prima possibilità sarebbe quella di far aumentare la soglia di reddito che dà diritto al bonus nel caso di famiglie monoreddito con minori a carico. Con due figli, per esempio, la soglia passerebbe da 26 mila a 30 mila euro, per salire a 40/42 mila euro con tre figli e a 50/55 mila euro con quattro figli. La seconda ipotesi, invece, si baserebbe su un aumento delle detrazioni per i figli a carico, attualmente 950 euro per figlio che salgono a 1.220 euro sotto i tre anni. In questo caso, tuttavia, sarebbe lo stesso bonus da 80 euro a cambiare fisionomia, diventando esso stesso una detrazione invece che, come è nella struttura attuale, un credito d’imposta. In questo modo si avrebbe anche un effetto collaterale di non poco conto, ossia una riduzione nominale della pressione fiscale.

Il meccanismo
La prima misura destinata alle imprese è invece l’azzeramento dei contributi in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato. Viene così riproposto, ma in una forma più potente e generale, il meccanismo già messo in campo alla metà dell’anno scorso dal governo Letta, che però non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. In quel caso l’esenzione dal versamento dei contributi (pari al 33 per cento della retribuzione) riguardava per un periodo di 18 mesi le nuove assunzioni di giovani fino a 29 anni, mentre il beneficio era limitato a 12 mesi nel caso di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. La dote finanziaria era di 794 milioni, su più anni, che avrebbero dovuto garantire 100 mila nuovi posti di lavoro. In realtà l’incentivo ha fatto scattare solo 22 mila ingressi nel mondo del lavoro, ed è stato recentemente definanziato con il decreto sblocca-Italia, per garantire copertura alla Cig in deroga. Lo schema di Renzi, che dovrebbe accompagnare il debutto del nuovo contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act, prevede invece che la decontribuzione, per un periodo di tre anni, riguardi qualsiasi nuova assunzione. Se le risorse messe sul tavolo si aggirano sul miliardo e mezzo in tre anni, allora le assunzioni agevolate dovrebbero riguardare un numero maggiore di persone. Ovviamente la propensione delle imprese ad ampliare il personale sarà condizionata anche dall’andamento del ciclo economico.

Deducibilità piena
Tocca il costo del lavoro, in modo sostanzioso, anche la nuova riduzione dell’Irap annunciata dal presidente del Consiglio. Oggi le retribuzioni dei dipendenti entrano nella base imponibile del tributo: come ha ricordato lo stesso Renzi è una caratteristica che lo rende particolarmente inviso agli imprenditori, perché comporta l’obbligo di un versamento anche quando la crisi azzera gli utili. Dal 2015 questa voce dovrebbe essere interamente dedotta, con un beneficio per le imprese quantificato in 6,5 miliardi (molto più di quanto ipotizzato finora). Resta però da capire come la novità si combinerà con l’attuale deduzione dell’Irap costo del lavoro ai fini Ires, ed eventualmente con il taglio dell’aliquota (dal 3,9 al 3,5 per cento) avviato con il decreto dello scorso aprile.

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Andrea Cuomo – Il Giornale

Un milione di spiate dal valore di 164 milioni di euro e spiccioli. È la delazione fiscale, bellezza. Un modo per far trionfare l’onestà, certo. Ma chissà quanti sassolini dalle scarpe si saranno tolti quegli italiani che hanno scritto al sito evasori.info per denunciare il commerciante, l’artigiano, il professionista poco incline alla ricevuta fiscale. Siamo nell’anno di grazia 2014 e se il ristoratore non ti ha portato lo scontrino, soffiandoti il conto nell’orecchio con piglio da cospiratore, le cose sono due: o lo stronchi su TripAdvisor o gli mandi la finanza elettronica. Comunque ti godi l’acre sapore della vendetta senza nemmeno muoverti da casa.

C’è un mood un po’ da Germania dell’Est nell’elaborazione dei dati di evasori.info fatta dall’agenzia AdnKronos. Quel clima plumbeo che ha ispirato narratori e registi, per cui in appartamenti incistati in falansteri da architettura socialista ciascuno diffidava del vicino di casa che avrebbe potuto spiarlo attraverso il muro di cartongesso per poi raccontare alla Stasi, la polizia segreta, che con la moglie si era lamentato della mancanza dei cetriolini sottaceto giù al supermercato di zona. Ma se ci si libera di quel sapore un po’ ferroso da collaboratori del regime, ci si può congratulare con l’erario, che festeggia 164.860.730 euro di evasione fiscale potenzialmente recuperata grazie alle soffiate «spontanee» dei cittadini arrivate entro le ore 16 dello scorso 10 ottobre. I cittadini superonesti, oppure vendicativi, se la prendono soprattutto con i bar (33,2 per cento delle segnalazioni), con i ristoranti (12,2), con negozi di alimentari, bevande e tabacchi (9,6), con servizi per la persona (9,2) e con gli ambulanti (4,4). In termini di valore, però, le evasioni più ingenti sono quelle degli studi legali e notarili (35,8 per cento dell’ammontare totale), seguiti da medici e dentisti (7,4), ristoranti (5,9), bar (5,2), agenzie immobiliari (5,6) e servizi alla persona (5,2).

La ricerca individua anche le categorie meno inclini alla fattura o allo scontrino, che sono, nell’ordine: i servizi finanziari in provincia di Como, le agenzie immobiliari in provincia di Milano, medici e dentisti in provincia di Roma, i loro colleghi napoletani, rivenditori e meccanici di auto e moto in provincia di Roma, pubblicitari sempre in provincia di Roma, ristoranti in provincia di Milano, servizi immobiliari in provincia di Roma e bar in provincia di Roma. Una lista che mostra una maggiore propensione all’evasione nelle grandi città e al Nord. O forse una maggiore talento per la soffiata. Tra i comportamenti denunciati c’è di tutto: il barista che nella frenesia mattutina finge di dimenticarsi lo scontrino del tuo cappuccino&cornetto. Il dentista che per la lunga cura ortodontica di tuo figlio ti propone un doppio binario: una cifra A senza fattura e una cifra A+B con. Il cameriere che scrive il totale a penna sulla tovaglia di carta e si aspetta ovviamente il pagamento cash. E anche un buona mancia, che c’entra. Siamo mica nella Ddr!

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Attilio Barbieri – Libero

A Cremona è scoppiata la guerra alla tassa rifiuti, la Tari. Sette imprese su dieci non hanno pagato la tassa più odiata dai piccoli imprenditori. Le categorie produttive avevano annunciato lo sciopero fiscale lo scorso mese di luglio, guadagnandosi anche aperture di pagina sui quotidiani nazionali. Ma in fondo in pochi credevano che commercianti e artigiani sarebbero andati fino in fondo. E invece, secondo un sondaggio condotto su un campione rappresentativo delle categorie coinvolte, il 70 per cento ha deciso di non presentare la dichiarazione Tari. Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna, Asvicom: l’appello alla disobbedienza fiscale era partito un po’ da tutte le sigle che rappresentano il variegato universo del terziario commerciale. Ieri il quotidiano di Cremona, La Provincia, ha dato conto del sondaggio condotto in settimana fra gli iscritti. La percentuale di quanti hanno detto no alla Tari, è tale da lasciare pochi dubbi.

Inutile il tentativo dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Gianluca Galimberti, eletto lo scorso giugno dalla coalizione di centrosinistra, di ammorbidire le posizioni dei piccoli imprenditori. Dal tavolo di confronto aperto quest’estate non è uscito nulla di significativo. Le categorie chiedevano di attutire l’effetto della nuova imposta sui rifiuti, ritoccando le tabelle in vigore. Lo «sconto» proposto da Galimberti è stato giudicato insufficiente se non addirittura irrilevante. La partita non è ancora chiusa. Mercoledì prossimo ci sarà un nuovo confronto, ma come hanno anticipato i rappresentanti di commercianti e artigiani «gli scudi restano alzati».

«La nostra posizione», hanno spiegato le associazioni del terziario, «resta quella di un mese fa, non possiamo lasciarci ammazzare da questa gabella iniqua e pensiamo che il Comune debba attutire l’impatto devastante con maggiore convinzione di quella dimostrata finora». In gioco ci sono cifre consistenti. Le attività coinvolte in provincia di Cremona, sono 1.100. «Abbiamo chiesto a Galimberti di conoscere nel dettaglio tutti i numeri: quanto pagavano i nostri associati di Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti e quanto devono versare ora di Tari», spiega a Libero il presidente di Confcormnercio Cremona, Claudio Pugnoli, «ma tenga conto che gli aumenti arrivano anche al 600%. Il Comune ci ha offerto uno sconto di 100mila euro: spalmandolo sugli associati fa poco più di 90 euro a testa. Vogliamo capire, numeri alla mano, quanto possa incidere. Per alcuni di noi il nuovo tributo comporta rincari nell’ordine delle migliaia di euro. Cifre improponibili, che si fa fatica a pagare».

In effetti l’entità della nuova tassa è tale da mettere in ginocchio intere categorie di operatori. Secondo un documentato studio prodotto a inizio anno proprio da Confcommercio, un negozio di fiori o una pizzeria al taglio, per i rifiuti prima pagavano 400 euro, ora ne devono sborsare più di 3mila, con un aumento del 650 per cento. E parliamo di attività che impegnano una superficie di 100 metri quadrati, non certo dei supermercati. Di poco inferiore l’aumento percentuale toccato a ristoranti e trattori, con una superficie di 200 metri quadri: il rincaro si limita (si fa per dire!) al 482%. Ben 4.675 euro contro gli 802 della Tarsu. Pesante anche la sorte che tocca a bar e pasticcerie (sempre con una superficie di 100 metri): anziché 401 euro ne dovranno sborsare 1.661 (+314%). Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre a guardare le tabelle compilate da Confcommercio, si scopre che all’aumentare della superficie, e presumibilmente del giro d’affari, il rincaro percentuale si attenua. Il costo dei rifiuti per un piccolo supermercato così come un negozio di generi alimentari che impegnino 300 metri quadri, sale da 1.204 a 3.478 euro. L’onere cresce del 188 per cento.

Un albergo senza ristorante, con 200 metri di superficie calpestabile, deve versare 840 euro anziché 386, con un aumento che si ferma al 118 per cento. Va un po’ meglio a edicolanti, farmacisti e tabaccai: di Tarsu pagavano 103 euro, di Tari 183 (+77%). Anche se paragonare gli introiti di un’edicola a quelli di una farmacia, con la crisi nera dei giornali, è un paradosso nel paradosso. Resta il fatto che il nuovo tributo anziché essere progressivo è regressivo: decresce percentualmente all’aumentare della superficie e presumibilmente dei ricavi. Un meccanismo che finisce per punire i titolari delle piccole attività. Alla faccia della perequazione di cui si sono riempiti la bocca i governi negli ultimi cinquant’anni. Il caso di Cremona, comunque, non è l’unico. Anche a Siracusa e Nuoro commercianti e artigiani si preparano a restituire le cartelle Tari ai sindaci. Forse lo sciopero fiscale è soltanto all’inizio.

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Cinzia Meoni – Il Giornale

A pochi giorni dalla scadenza, il 16 ottobre, del versamento della prima rata della Tasi (il tributo sui servizi indivisibili, vero e proprio rebus per i contribuenti italiani), la Cgia di Mestre si prende la briga si spulciare tutte le delibere approvata dai capoluoghi di regione italiani su Tasi, Tari (la nuova tassa sui rifiuti) e addizionale Irpef per stabilire che il non proprio invidiabile primato di assoggettare i propri cittadini alle tasse comunali complessivamente più elevate di tutta la Penisola è detenuto da Bologna, Roma e Bari. La classifica, redatta dall’ufficio studi della Cgia calcolando il prelievo subito da una famiglia tipo di 3 persone, mette in luce divergenze abissali tra città e città. Nel caso di un’abitazione di tipo civile A2, ad esempio, a Bologna la stangata ammonta a 1.610 euro, a Genova a 1.488 euro, a Bari a 1.414 euro e Milano, a 1.379 euro. Meglio forse, potendo, trasferirsi ad Aosta dove si pagano in tutto «solo» 551 euro.

Più in dettaglio l’addizionale Irpef quasi dovunque raggiunge l’aliquota massima dello 0,8%. La Tari, invece, colpisce soprattutto a Sud: considerando sempre un’abitazione di tipo civile A2 abitata da tre persone, a Cagliari si pagheranno 653 euro, a Napoli 522 euro mentre a Firenze 217. Per la Tasi infine, solo Aosta, tra i capoluoghi di regione, ha applicato l’aliquota base dell’1 per mille. Ben nove capoluoghi (su 18) hanno deciso direttamente di applicare il valore massimo consentito per le abitazioni principali (3,3 per mille). Veri e propri salassi per i cittadini che, negli ultimi anni, hanno visto crescere esponenzialmente le imposte comunali nonostante servizi non esattamente impeccabili. Tutta colpa, a giudizio di Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, «dei pesantissimi tagli ai trasferimenti che lo Stato centrale ha praticato nei confronti degli enti locali». Negli ultimi cinque anni, come segnala la Cgia, a Roma sono arrivati 667 milioni in meno, a Milano 317,7, a Napoli 199,6, Torino 158,9 e a Genova 110,8.

I contribuenti intanto si preparano ad affrontare il rompicapo della Tasi, l’unica imposta sul valore dell’immobile che si paga a livello locale e forse le tasse più odiate per la poca chiarezza sui termini di pagamento. Per la stragrande maggioranza degli italiani mancano, infatti, pochi giorni alla scadenza prevista per legge per il versamento della prima rata della Tasi (50% del dovuto su base annua). Eppure non tutti i dubbi sono stati risolti. Entro giovedì 16 ottobre dovranno pagare l’acconto sulla Tasi tutti coloro che hanno in proprietà o possiedono a qualunque titolo immobili e aree edificabili nei comuni che hanno deliberato le aliquote entro il 10 settembre (in caso di mancato invio delle deliberazioni entro il termine previsto, il versamento della Tasi è effettuato in un’unica soluzione entro il 16 dicembre 2014, data di scadenza anche per la seconda rata dell’imposta, con l’aliquota minima dell’1 per mille). Il provvedimento riguarda tra l’altro Roma, Milano, Verona, Bari, Firenze e Palermo, ma fortunatamente sul web si può trovare l’elenco completo. Il tributo varia da città a città. La base imponibile è la rendita catastale, rivalutata del 5%, a cui si applicano i moltiplicatori a seconda della tipologia immobile. Le aliquote tuttavia sono stabilite a livello locale entro tetto massimo fissato dalla legge. Il risultato? Iniquo. Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, con la Tasi, prevista dalla Legge di Stabilità 2014, «pagherà un po’ di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate».