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Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

NOTA

Nonostante il perdurare della crisi economica, i rubinetti delle banche italiane continuano a restare sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi “ImpresaLavoro” su elaborazioni di dati Bankitalia.
Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridotto il loro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione, così ripristinando almeno parzialmente i livelli di credito pre-crisi».

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Rassegna Stampa
Il Tempo
La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

Sandro Iacometti – Libero

La stangata sulla casa è assicurata anche per il 2015. Mentre l’Europa continua a prenderci a sberle ogni giorno (ieri è stato il turno di Draghi e di Juncker, che ha rincarato la dose), inchiodandoci alla prospettiva di una manovra bis, il governo sembra aver deciso che il prossimo anno non solo resterà la Tasi, ma sarà pure più salata. La piacevole prospettiva è emersa nel corso di un vertice tecnico di mercoledì pomeriggio nel corso del quale, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore e da alcune fonti parlamentari, gli esperti governativi si sarebbero scontrati con le difficoltà di portare avanti il progetto frettolosamente, e incautamente, annunciato da Matteo Renzi della local tax.

La grande rivoluzione del fisco locale, tutte le tasse riunite in una sola gabella, sembrava da settimane lì lì per arrivare. All’inizio sembrava dovesse addirittura entrare nella legge di stabilità alla Camera. Poi si è detto che sarebbe stata introdotta al Senato. Un paio di giorni fa il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ci ha spiegato che per la local tax il governo avrebbe usato provvedimenti diversi dalla legge di stabilità, ma comunque entro la fine dell’anno. Infine si è ipotizzato un intervento nei primi mesi del 2015. L’ultima versione, di fronte all’inevitabile complessità di un riordino generale dell’imposizione locale, è che non si esclude uno slittamento al 2016.

Ipotesi catastrofica per le tasche degli italiani. Il prossimo anno, infatti, non resterà tutto così com’è. Il simpatico vizio degli ultimi governi di prevedere clausole, cavilli e gradualità delle misure ha infatti spinto lo scorso anno l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e l’allora premier Enrico Letta ad inserire nella legge sulla Tasi una devastante bomba a tempo. Il tetto massimo dell’aliquota per la prima casa è fissato al 2,5 per mille (poi diventato 3,3 per mille con l’aggiunta della quota da destinare alle detrazioni), ma solo per il 2014. Dal 2015 l’asticella si allinea a quella prevista dalla vecchia Imu, ovvero il 6 per mille. In più, saranno tolte anche le detrazioni. Considerato che pure la legge che ha previsto l’aliquota aggiuntiva, spalmata sulla prima e sugli altri immobili, vale solo per il 2014.

La Cgia di Mestre si è fatta due conti. I Comuni che hanno applicato quest’anno l’aliquota massima del 3,3 per mille hanno incassato mediamente 347 euro per un’abitazione di tipo civile A2. Con il 6 per mille il conto sale a 631 euro, praticamente quasi il doppio. La stessa cosa si verificherà per un’abitazione di tipo economico A3: dai 233 euro di quest’anno si arriva a 424 euro nel 2015. Molto peggio andrà per chi ha pagato con aliquote inferiori al 3,3 per mille. Alla luce del fatto che la media applicata quest’anno è stata del 2,3 per mille, l’eventuale incremento al 6 per mille farebbe schizzare il gettito riferito ad un’abitazione A2 da 242 euro pagati a 631 euro (variazione +160%). Per un A3, invece, si passerebbe da 134 a 424 euro (variazione +2l6,4%).

Per mitigare la batosta il governo sta valutando l’ipotesi di prorogare le detrazioni. Il problema è che nel 2014 sono stati stanziati allo scopo 625 milioni che oggi non ci sono. I Comuni ieri sono stati chiari: «Il governo deve garantirci nel 2015 le stesse risorse». Se non lo farà, gli aumenti sono sicuri. Nell’attesa, martedì si paga di nuovo: Tasi, Imu e qualsiasi altra cosa vi venga in mente.

Oro nero

Oro nero

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Petrolio sotto i 60 dollari: c’è una rivoluzione in corso? No, c’è già stata. Nella storia delle politiche petrolifere si è aperto un nuovo e inedito capitolo: ex uno, plures. Se, infatti, semplicemente aumentando o tagliando l’estrazione del greggio, nei decenni passati pochi produttori stabilivano i prezzi, condizionando i mercati e gli assetti geopolitici del pianeta, oggi non c’è più né il monopolio delle fonti, né un unico canale di trasmissione. La vecchia catena lineare di estrazione, raffinazione e distribuzione è finita schiacciata dalla ruota della modernità e il solo e unico custode del rubinetto mondiale dell’oro nero non è più né unico, né solo, né tantomeno in grado di influire in modo diretto e immediato sull’economia del pianeta. Anzi, il mondo dell’energia in generale, e degli idrocarburi in particolare, si è evoluto in una realta policentrica e poliarchica, stratificata e complessa, con reti interconnesse e interressi incrociati. Le catene di distribuzione dell’energia sono ormai più importanti dei produttori stessi, e proprio in ragione delle novità sono chiamati a svolgere un ruolo strategico, di equilibrio del sistema energetico planetario.

Dal 1973 per ognuna delle sette volte che il prezzo del petrolio è calato oltre il 30 per cento in meno di sei mesi come in questa fase, l’industria manifatturiera statunitense è cresciuta significativamente per almeno un anno e gli indici di Borsa sono saliti in media del 18 per cento in America e del 12 per cento in Europa. Questa volta, per, potrebbe essere diverso, come dimostrano le crescenti tensioni sui mercati dovute a Grecia e Cina. Cosa può fare la differenza?

Innanzitutto, c’è stata la rivoluzione delle rinnovabili: i costi di produzione del fotovoltaico sono calati del 96 per cento in 40 anni, e in Italia, per esempio, il costo del kWh eolico si è ridotto del 58 per cento e quello fotovoltaico del ’78 per cento solo tra il 2009 e il 2014. Inoltre, con il recente accordo sul clima tra Usa e Cina (due nazioni responsabili complessivamente del 40 per cento delle emissioni globali) e la Conferenza sul clima di Parigi del 2015, le emissioni di gas serra dovrebbero calare dal 40 al 70 per cento a livello globale entro il 2050. Nonostante ciò, fino al 2030, il 65 per cento della generazione globale si baserà comunque ancora su fonti fossili. Ma, attenzione, tra le fossili c’è la “novità” dello shale gas americano, che sembra poter reggere la concorrenza dei fossili tradizionali anche con un costo del barile intorno ai 50 dollari, smentendo la teoria dell’Opec che ne riteneva antieconomica l’estrazione sotto i 75 dollari al barile: la produzione americana da “scisto” dovrebbe infatti continuare a crescere, arrivando l`anno prossimo a 9,4 milioni di barili al giorno, un record che in America non si vedeva dal 1972. Quindi mind the fracking, perché la tecnica estrattiva che ha rotto il vecchio oligopolio dei produttori e ha scatenato una guerra ribassista, ha profondamente alterato gli equilibri energetici internazionali.

Con il crollo delle quotazioni, per esempio, piange la Russia, che realizza oltre metà del suo bilancio pubblico dall’esportazione di energia e che ha inoltre, alti costi estrattivi e di trasporto sia economici che politici, come dimostrano la crisi in Ucraina e l’alleanza con la Turchia, acerrimo nemico di Mosca sulla vicenda siriana. Ridono invece i paesi importatori (Corea del sud e Giappone in primis) e con i loro crescenti consumi sorridono gli emergenti (India, Brasile e Cina). L’Arabia Saudita, con le sue immense riserve, ha deciso di non tagliare la produzione, sia per non perdere quote di mercato sia per mettere in difficoltà l’odiato e vicino Iran. E, intanto, gli Stati Uniti cercano di capire quanti danni possa provocare il deprezzamento in corso: con il petrolio sotto i 60 dollari, gli investimenti in shale potrebbero dimezzarsi e la produzione smettere di crescere. In ogni caso, l’unico importatore che subisce contraccolpi è l’Eurozona, che con il deprezzamento degli idrocarburi rischia di alimentare la deflazione. Oltre alle ripercussioni finanziarie, l’Europa paga per la propria incapacità strategica, sia dei singoli paesi sia come continente. Ogni stato membro si è nel tempo singolarmente affidato a fornitori inaffidabili e ballerini (l’Italia, per esempio, a Libia e Algeria), senza così riuscire a programmare nessun investimento a lungo termine. E quando è stato fatto, come nel caso del South Stream, sono sorti problemi.

Sono sempre stato sostenitore di una “unione energetica europea” – ottenibile unendo le rinnovabili italiane, il nucleare francese, l’idroelettrico austriaco, il carbone tedesco – per creare un sistema integrato ed equilibrato dalla grande forza politica e negoziale nella geopolitica mondiale. Oggi, però, nell’inedito scenario che ho cercato di descrivere, le nuove alleanze che possono rivoluzionare i rapporti di forza sono quelle tra i distributori, tra chi gestisce a livello sistemico il mercato. Ora che nessun produttore è più dominus assoluto, infatti, i grandi operatori possono cavalcare la rivoluzione dello shale gas, delle rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’auto elettrica. Uno modo per evitare la restaurazione del potere dei produttori e così smettere di essere, Italia e Ue, totalmente dipendenti da paesi da cui è bene guardarsi le spalle.

Dei tagli non parla più nessuno

Dei tagli non parla più nessuno

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Che fine ha fatto quella «revisione della spesa» di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Carlo Cottarelli, lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. Sull’apposito sito Internet compaiono solo scarne e obsolete informazioni. Nella scorsa primavera, la spending era diventata la regina dei talk show. L’omissione del sostantivo (review, ossia revisione, ristrutturazione) avrebbe dovuto insospettire. Molti politici consideravano infatti i risparmi futuri come un tesoretto a cui attingere per nuove spese. Clamoroso il tentativo di finanziare il pensionamento con le regole pre-Fornero di alcune categorie di insegnanti attraverso, appunto, la spending. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come «sprechi» le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni.

Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro). Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare buone spending reviews. L’ingrediente principale è un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

Colpo grosso in casa Renzi

Colpo grosso in casa Renzi

Antonio Rossitto – Panorama

Da malpagato co.co.co. a riverito manager. L’ascesa lavorativa di Matteo Renzi è stata fulminea come la sua scalata a Palazzo Chigi. E si è portata dietro uno di quei privilegi che, a parole, il presidente del Consiglio aborrisce: dieci anni di generosi contributi previdenziali ottenuti in virtù della sola appartenenza alla vituperata casta. Una storia poco commendevole già ricostruita nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano.

Si puo riassumere così: Renzi rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, l’azienda di famiglia, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi dopo. il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil.

Per dieci anni, quindi, il premier è rimasto sul groppone di un sistema previdenziale che, rivela uno studio dell’Ocse appena pubblicato, pesa per quasi un terzo sul totale delle uscite dello Stato: la peggior percentuale tra i paesi industrializzati. Colpa anche dell’inesauribile arte di azzeccare i garbugli degli italiani. Tra cui si potrebbe annoverare anche quella del capo dell’esecutivo: a beneficiare del suo avanzamento professionale sotto stati infatti solo i versamenti pensionistici al premier. L’entità di questi oneri non è però stata mai definita. Le ripetute interrogazioni dei consiglieri dell’opposizione al Comune di Firenze hanno ricevuto solo risposte evasive. Stessa sorte per la richiesta promossa alla Camera dal Movimento 5 stelle.

Panorama è in grado di ricostruire i dettagli di un accorgimento che ha permesso a Renzi di mettere da parte, alle spalle del più scassato sistema previdenziale del pianeta, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Quasi 200 mila euro accumulati grazie ad appena sette mesi da dirigente della Chil, l’azienda adesso al centro di un’inchiesta della Procura di Genova in cui è indagato per bancarotta fraudolenta Tiziano Renzi, padre del presidente del Consiglio. Le cifre di cui è entrato in possesso Panorama sono sorprendenti. Nella dichiarazione del redditi riferita al 2003, il premier dichiara appena 14.273 euro di imponibile Irpef. A cui si aggiungono 200 azioni privilegiate Fiat, un’Audi comprata l’anno prima e la proprietà di una panetteria di 78 metri quadrati a Rignano sull’Arno.

Nei primi dieci mesi di quell’anno, Renzi è un co.co.co. della Chil. Ma a fine ottobre viene assunto come manager: passa così a un contratto di circa 59 mila euro all’anno partendo da una retribuzione misera che Panorama è riuscito a calcolare sulla base degli oneri previdenziali corrisposti dalla provincia. Già, ma quanto misera? L’importo si può desumere sottraendo al reddito del 2003 (14.273 euro, appunto) la somma degli stipendi da manager di novembre e dicembre: 8.800 euro circa. Il risultato sarebbe di 5.500 euro. È questo, all’incirca, il compenso che Renzi riceve dalla Chil per i servigi resi da gennaio a ottobre: 550 euro al mese. A novembre però, da dirigente, lo stipendio del futuro presidente del Consiglio aumenta di nove volte: arriva a quasi 4.400 euro, contributi, tredicesima e quattordicesima inclusi. Tutte le cifre, calcolate da Panorama, potrebbero essere ancora più precise se il premier, in ossequio alla decantata trasparenza, fornisse i contratti di assunzione della Chil. Un atto reso ancora più necessario dai benefici ottenuti da Renzi: tutti a carico della collettività.

Di questa invidiabile ascesa, la società di famiglia si farà carico solo per sette mesi: fino a giugno del 2004. Poi a pagare è Pantalone. Una volta alla guida della provincia, sospeso lo stipendio, rimangono infatti da versare gli oneri contributivi: gravame che, per legge, pesa sull’ente in cui il politico è eletto. Nel caso di Renzi non si tratta di quisquilie. Il totale è di 20.184 euro all’anno: 7.416 per il fondo dei dirigenti, 5.259 per la pensione integrativa, 3.731 euro per il fondo sanitario e 3.778 euro versati direttamente alla Chil per il Tfr maturato. Cifra che va moltiplicata per il quinquennio in cui Renzi ha guidato l’amministrazione, fino a giugno del 2009. Per le casse provinciali, una spesa di 100.922 euro. A cui va aggiunta una cifra analoga, 98mila euro circa, per gli oneri accumulati da giugno 2009 a marzo 2014, durante il mandato da sindaco di Firenze. Il totale è ragguardevole: quasi 200 mila euro destinati alla serena vecchiaia del primo ministro. Soldi che, una volta raggiunta l’età pensionabile, potrebbero cumularsi a un sostanzioso vitalizio cui avrebbe diritto proseguendo l’attività politica. Unica consolazione per i contribuenti: a marzo del 2014, dopo la nomina a premier, Renzi annuncia le dimissioni dalla Chil.

Non è un magnanimo gesto di ravvedimento, ma l’epilogo di un anno di polemiche cominciate all’inizio del 2013. Quando il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede chiarimenti all’allora primo cittadino di Firenze con un’interrogazione urgente. La stringata risposta dell’ex vicesindaco, Stefania Saccardi, arriva con una nota del 22 marzo 2003: «Il dottor Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2003 presso la Chil». Mentre «dal 27 2003 è stato come dirigente». Non soddisfatto, Torselli presenta un’altra richiesta: «Per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla provincia e ora dal comune per la pensione del sindaco». Sta qui infatti il busillis. Il vicesindaco Saccardi risponde due mesi dopo, il 31 maggio 2013. limitandosi però al parziale calcolo del solo Tfr: che corrisponde a una minima parte di quanto versato per la previdenza dal segretario del Pd. Nella replica all’interrogazione viene chiarito: «Il dottor Matteo Renzi è sempre stato assunto senza alcun tipo di interruzione ed è rientrato in azienda dal 22 al 24 giugno del 2009». Un altro escamotage per garantire continuità dei versamenti pubblici: sono infatti i giorni in cui scade il mandato alla provincia e comincia quello da sindaco. Ma nemmeno in quei tre giorni Renzi mette piede in azienda: «Ha usufruito di tre giorni di ferie» scrive Saccardi. Infine, all’ultimo punto della replica, l’ultima beffa: «Se al momento dell’assegnazione della carica, fosse stato occupato con un rapporto di co.co.co., il dottor Matteo Renzi non avrebbe avuto diritto ai contributi figurativi».

Ecco spiegato il motivo del balzo da co.co.co. a dirigente, prima di essere eletto alla provincia: escamotage che gli ha permesso di passare da una retribuzione di meno di 7mila euro all’anno a un contratto da circa 59mila euro, previdenza, tredicesima e quattordicesima inclusi. Maturando così quasi 200 mila euro di versamenti dal 2004 al 2014, pagati dai contribuenti invece che dall’azienda di famiglia, oltre che dieci anni di anzianità lavorativa. In cambio, dal momento della sua prima elezione, non ha messo piede nemmeno un giorno negli uffici della Chil. Alla società di famiglia è bastato pagare sette mesi di stipendio, circa 30 mila euro, perché lo Stato ne restituisse a Renzi più di sei volte tanto in oneri previdenziali. Come insegna la buona, vecchia, casta. Più facile da rottamare a parole che nei fatti.

Il fisco è al top in Italia

Il fisco è al top in Italia

Tancredi Cerne – Italia Oggi

In Italia scendono le tasse ma il Paese si mantiene quinto al mondo per pressione fiscale. A levare i veli sulla radiografia del sistema tributario della Penisola è stata l’Ocse che ha messo a confronto il sistema di riscossione dei tributi nelle principali economie del Pianeta. In base ai risultati, il peso delle tasse nella Penisola, misurato come rapporto tra entrate fiscali e pil, lo scorso anno è lievemente calato rispetto al 2012 portandosi al 42,6% dal 42,7%. E questo, in controtendenza rispetto a molti Paesi che hanno giocato sulla leva fiscale per aumentare le entrate in momenti di crisi. Come avvenuto in Portogallo, dove il governo, nell’ultimo anno, ha alzato le imposte del 2,2%. O la Turchia, che ha fatto lievitare le tasse dell’1,7%. La modesta contrazione del carico fiscale italiano non ha consentito, tuttavia, alla Penisola di smarcarsi dal triste primato di quinto Paese al mondo per pressione fiscale. Peggio dello Stivale, soltanto la Danimarca, in cima alla classifica dell’Ocse per pressione fiscale con il 48,8% del pil, seguita dalla Francia (45%), dal Belgio (44,6%) e dalla Finlandia (44%). Le cose sembrano andare molto meglio in Germania (36,7%), nel Regno Unito (32,9%) e in Spagna (32,6%). Per non parlare degli Stati Uniti che con il 25,4% di pressione fiscale risultano uno dei Paesi meno tartassati dal Fisco.

Entrando più nel dettaglio, le entrate fiscali italiane, secondo l’analisi dell’Ocse, sarebbero costituite per il 27% da proventi delle imposte sul reddito delle persone fisiche, oltre a un 7% legato alle tasse sui profitti delle aziende, un 30% derivante dai contributi sociali e previdenziali, e un ulteriore 6% generato dalle tasse sugli immobili. A questo si aggiunga un 26% legato alle tasse sui consumi di beni e servizi e un 4% da altri provvedimenti fiscali. Al di là della classifica sulla pressione fiscale, gli esperti di Parigi hanno lanciato un allarme sulla capacità di raccolta dell’imposta sul valore aggiunto da parte delle autorità fiscali della Penisola. «L’Italia ha un tasso di Iva superiore alla media dei Paesi Ocse, ma è tra i meno efficienti in materia di performance del sistema», si legge nel rapporto. «Oggi l’Iva si attesta al 22%, contro una media Ocse del 19,1 per cento. Ma l’indice di efficacia del sistema di raccolta (che misura il divario tra le entrate effettive legate all’Iva e quelle che sarebbero teoricamente generate da un’applicazione del tasso di Iva normale alla totalità dei consumi nazionali) è fermo a 0,38, quasi 0,2 punti sotto la media, per l’effetto combinato di esenzioni e Iva agevolata da un lato, e di evasione e frode dall’altro». Risultato, in Italia i proventi dell’Iva rappresentano solo il 13,8% del totale delle entrate fiscali, contro una media Ocse del 19,5%.

Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Tecnicamente si chiama «Pay gap». È il baratro economico che separa i professionisti under 40 dai loro colleghi più anziani. Il divario dei redditi tra giovani e «maturi» ha ormai toccato quota 50,36%. È questo uno degli aspetti più eclatanti dei Rapporto sulla previdenza privata presentato oggi a Roma dal centro studi dell’Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati). I giovani under 40, che nel 2007 dichiaravano un reddito medio di 23mila euro (lordi) fanno, oggi sono scesi a 21mila mentre gli over 40 si attestano ancora sopra i 43mila. Una gigantesca forbice che allontana mondi simili ma lontanissimi: distanze che si ampliano a dismisura se si analizzano i dati delle singole categorie.

Nel campo giuridico la differenza dei redditi tra giovani e anziani supera il 56% mentre nell’area delle professionì tecniche un architetto con meno di 40 anni dichiara in media 18mila euro (lordi) l’anno, il 34% in meno di un suo collega più anziano. In tal senso la crisi ha avuto un impatto diverso tra le varie professioni: nel mondo dell’avvocatura si è persino ridotto il gap tra giovani e anziani schiacciando tutti verso redditi più bassi. Prima della crisi infatti il reddito medio degli over 40 era di circa 75mila euro l’anno contro i 28mila dei colleghi più giovani, oggi il divario è sceso a 33mila euro. Diversa invece la dinamica nel gruppo delle professioni economiche, qui il divario generazionale si è ampliato: nel 2007 era al 55% mentre oggi è salito al 58%. Quindi dopo 7 anni i giovani commercialisti guadagnano 32mila euro l’anno in meno dei colleghi senior.

Effetti concreti su un mondo che in pochi anni si è trasformato (a volte disgregato) e fa fatica a trovare un equilibrio tra il suo fastoso passato (quando si parlava di caste e privilegi) e il suo magro presente in cui giovani che hanno studiato per anni, si sono specializzati, hanno superato ostacoli e trafile, oggi sembrano destinati (chi più chi meno) a una «vita spericolata» con pochi ammortizzatori sociali, un incerto futuro previdenziale e scarse certezze retributive.

È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

Carlo Lottieri

La scoperta dell’ennesimo e maleodorante incrocio tra politica e malaffare (quella che i giornali hanno ribattezzato come Mafia Capitale) ha spinto vari commentatori a indulgere in un melenso moralismo e, non si rado, perfino nell’esaltazione di quell’etica pubblica che glorificando il ruolo dello Stato potrebbe perfino aggravare i problemi. È del tutto evidente, infatti, che la corruzione è figlia in primo luogo di una presenza abnorme del potere nella vita economica e sociale e che, per questo motivo, la strada maestra per riportare correttezza e serietà nei comportamenti di tutti (a partire da politici, imprenditori e burocrati) consiste nel ridimensionare il ruolo del settore pubblico.
Contro i comportamenti spregiudicati di una parte non piccola del ceto politico sembra che la risposta sia una sola: mettiamo gli “onesti” al posto dei “corrotti”. Il problema è che non vi è alcun modo di sapere davvero, in anticipo, chi si comporterà bene e chi no, e per giunta quanti agitano la bandiera della moralità in politica il più delle volte sono talmente superficiali e giacobini nel formulare le loro condanne (spesso in assenza di prove) da non poterli considerare davvero quali persone integre. Non è immorale soltanto il comportamento di chi pretende una tangente, ma anche quello di chi distrugge l’immagine altrui sulla base di voci, accuse infondate, pregiudizi ideologici e antropologici.
Bisogna anche comprendere che l’Italia non è corrotta “per natura”, così come non sono naturalmente destinati a essere dominati dal racket i paesi africani o quelli comunisti. Tutte queste società sono però vittime dei latrocini semplicemente perché una parte spropositata delle risorse è costantemente mediata o controllata dalla politica. Se costituiamo centri di potere che possono o non possono concedere autorizzazioni, elargire finanziamenti e produrre norme ad hoc, gestire questo o quel settore on assoluto monopolio, non possiamo stupirci se attireranno i soggetti più spregiudicati e senza scrupoli.
Chi legge con attenzione le cronache della Tangentopoli romana avverte subito come tutto ruoti attorno al denaro dei contribuenti. Una massa troppo grande di risorse è gestita da politici e burocrati, e questo permette facili arricchimenti da parte di persone senza scrupoli. Ridurre la spesa pubblica porterebbe, ovviamente, a ridurre anche questa economia illegale e parassitaria.
Più dei corrotti (una quota di persone senza dignità vi è in ogni paese) siamo allora rovinati da quanti sono schierati a difesa di uno Stato onnipotente, che gestisce l’assistenza sociale e l’urbanistica, la sanità e l’energia, i trasporti e la cultura, e che in questo modo tiene costantemente sotto scacco anche quella quota di economia che permane privata. In tale situazione gli imprenditori peggiori possono fare soldi sottraendosi al mercato (dove si deve soddisfare la domanda del pubblico), ma grazie ai favori dell’amico che ha fatto carriera in un partito e del compare che si è incistato in questo o quel Palazzo.
Ci sono, allora, non soltanto serie ragioni economiche perché si operi una massiccia privatizzazione del parastato, con la quale si ridimensionerebbe il mostruoso debito pubblico che grava sul nostro futuro. Quella che è in gioco è la stessa possibilità di avere meno corruzione e una politica un po’ meno indecente.
Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Così Francia e Italia rispondono alle sculacciate di Juncker

Giuseppe Pennisi – Formiche

Commentando l’Ecofin, numerosi editorialisti hanno posto l’accento sull’ampliamento (vero o presunto) del fronte anti-tedesco (specialmente a ragione del caos che da Atene sta contagiando le Borse di mezza Europa). Pochi hanno riportato (e senza grande enfasi) i rimbrotti (sarebbe meglio parlare di sculacciate) di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, all’Italia, inasprite dalla minaccia di “conseguenze spiacevoli” (per noi tutti) se in primavera non passeremo gli esami di riparazioni.

In effetti, tenendo presente che il terzo Paese “rimandato” (il Belgio) è piccolo e (sui mercati finanziari) conta poco, Juncker conosceva in anticipo le misure approvate questa mattina 10 dicembre (in vista degli esami tra quattro mesi circa) dal Consiglio dei Ministri francese della Francia. In effetti, mentre in Italia ci si sollazza su come garantire in Costituzione che Villa Lubin diventi appannaggio della Corte dei Conti in un clima romano che ricorda la Mahagonny di Brecht e Weill (la città dove ormai il crimine è al comando e tutto l’illegale è lecito, anzi incoraggiato), il 36enne Emmanuel Macron ha tessuto la tela con i suoi colleghi e messo a punto un disegno di legge quadro di “Crescita e Attività” approvato il 10 dicembre alle 13 dal Consiglio dei Ministri e per il quale è prevista una “corsia preferenziale” all’assemblea nazionale. Macron ha detto che il provvedimento sarà varato entro febbraio e in marzo la Francia si presenterà a Bruxelles, anche con i primi decreti delegati.

Il provvedimento è di vasta portata. Dato che nel settore manifatturiero la concorrenza (e, quindi, le liberalizzazioni) sono regolate e vigilate a livello europee, la prima delle misure riguarda i servizi. Nel settore dei trasporti locali, le autolinee private sono messe in competizioni tra di loro e con il mitico, e sino ad ora monopolista, chemin de fer. In materia di giustizia civile vengono poste tempistiche serrate per risolvere controversie e, nel settore edilizio-urbanistico, per promuovere anche l’ingresso di “nuovi entranti”. Per favorire gli investimenti, vengono varate misure per incoraggiare i lavoratori ad investire i propri risparmi nelle imprese di cui sono dipendenti, diventandone azionisti (anche a livello di piccole e medie imprese). Altre misure riguardano il social housing, anche al fine di migliorare le periferie. Viene poi modificato il sistema lavoristico: le domeniche in cui i negozi ed i servizi resteranno aperti saranno definite a livello locale da ciascun sindaco, ma non potranno essere meno di cinque e più di dodici l’anno. Vengono modificate le regole di accesso alle professioni (anche a quella, potentissima oltralpe, dei notai) e definito che gli studi professionali possano avere “soci di capitale”.

Un vero programma “rivoluzionario” e liberale, anche se varato da un Governo socialista. Mette l’accento su quelle liberalizzazioni dei servizi e delle professioni che in Francia è sempre stato molto difficile effettuare (e dove neanche in Italia si è brillato). Vedremo quanto andrà effettivamente in porto e se verrà attuato il programma di “denazionalizzazioni” annunciato quasi in parallelo. Si tratta pur sempre di quelle “riforme di struttura” per rilanciare la produttività che Bruxelles si aspetta.

Gli italiani in fuga: 82mila emigranti

Gli italiani in fuga: 82mila emigranti

Il Sole 24 Ore

Nel 2013 gli italiani emigrati all’estero sono stati 82mila, il numero più alto degli ultimi dieci anni, il 20,7% in più rispetto all’anno precedente. È uno dei dati che emerge dall’ultimo report Istat su «Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente». Un rapporto che evidenzia anche come l’Italia attragga meno gli immigrati. Nel 2013 gli arrivi dall’estero sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto all’anno precedente (-12,3%).

Italiani in fuga dal Paese, mai così tanti
Il numero di emigrati italiani è stato nel 2013 pari a 82mila unità, il più alto degli ultimi dieci anni. Migrano soprattutto le persone tra i 20 e i 45 anni. Le principali mete di destinazione dei nostri connazionali sono il Regno Unito (13mila emigrati), la Germania (oltre 11mila), la Svizzera (10mila) e la Francia (8mila). Paesi che accolgono oltre la metà dei flussi in uscita: a lasciare il Belpaese sono soprattutto persone tra i 20 e i 45 anni, e oltre il 30% di loro è in possesso di una laurea. La meta preferita dai laureati (3.300) è sempre la Gran Bretagna.

In pochi tornano in Italia
I connazionali che decidono di tornare in Italia sono in numero molto inferiore a quello degli emigranti: nel 2013 i rientri sono 4mila dalla Germania, quasi 3mila dalla Svizzera e circa 2mila dal Regno Unito e dagli Usa. Il saldo migratorio per gli italiani è negativo per 54mila unità, quasi il 40% in più di quello del 2012 nel quale era risultato pari a -38 mila. Tra il 2007 e il 2013 le emigrazioni complessive sono più che raddoppiate, passando da 51mila a 126mila.

Italia attrae meno immigrati: -12,3%
Non solo. Sempre da quanto emerge dall’ultimo report dell’Istat sulle migrazioni internazionali, l’Italia attrae meno gli immigrati. Nel 2013 gli arrivi dall’estero sono stati 307mila, 43mila in meno rispetto all’anno precedente (-12,3%). Sebbene in calo rispetto agli anni precedenti, l’Italia rimane, tuttavia, meta di consistenti flussi migratori dall’estero. La comunità straniera più rappresentata tra gli immigrati è quella rumena che conta 58 mila iscrizioni. Seguono le comunità del Marocco (20 mila), della Cina (17 mila) e dell’Ucraina (13 mila). Gli italiani di rientro dall’estero sono 28 mila, mille in meno rispetto al 2012.