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Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Nel 2014 le tasse caleranno di 3 miliardi. Potrebbe sembrare una bella notizia quella della Cgia ma se andiamo a guardare nel dettaglio emerge che non solo è come una goccia nel deserto giacché la pressione fiscale resta elevatissima (il 43,3%) ma il taglio irrisorio interessa comunque una fascia di contribuenti circoscritta. La Cgia mette in evidenza che quest’anno la riduzione delle impose sarà pari a 11,8 miliardi di euro a fronte di aumenti per 8,7 miliardi. Queste cifre scaturiscono dal confronto tra le varie misure fiscali che hanno avuto impatto economico nel 2014.

Guardando nel dettaglio emerge che hanno beneficiato del taglio delle tasse soprattutto i redditi bassi mentre il ceto medio ne è rimasto escluso. Anzi è proprio questa fascia che ha subito i maggiori rincari. Tra le riduzioni di imposta avvenute nel 2014, la Cgia segnala il bonus di 80 euro voluto dal governo Renzi (misura pari a 6,6 miliardi di euro), il bonus Letta, che ha incrementato le detrazioni Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (sgravio da 1,5 miliardi di euro), l’eliminazione della maggiorazione Tares (1 miliardo di euro), la riduzione dell’aliquota della cedolare secca (1 miliardo di euro) e la deduzione del 30% dal reddito di impresa dell’Imu applicata sugli immobili strumentali (714 milioni di euro). Per contro, invece, tra i principali aumenti fiscali avvenuti quest’anno la Cgia registra l’introduzione della Tasi (3,8 miliardi di euro di gettito), la crescita della tassazione delle rendite finanziarie (720 milioni di euro di gettito), l’incremento dell’imposta di bollo sul dossier titoli (627 miliardi di euro) e la riduzione della deduzione forfetaria dei redditi derivanti dai contratti di locazione (627 milioni di euro).

Ad essere colpita dal fisco, come emerge chiaramente, è soprattutto la casa. La Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, è una specie di Imu dal momento che colpisce anche la prima casa ed è risultata più alta della vecchia imposta immobiliare non avendo la detrazione fissa di 200 euro e quella per ogni figlio sotto i 26 anni. Secondo i calcoli della Cisl il salasso maggiore l’hanno avuto coloro che hanno un’abitazione principale con rendita catastale bassa, fino a 300-500 euro. Più piccola è la casa, maggiore è la differenza rispetto all’Imu. Per gli immobili con rendita catastale di appena 300 euro, la nuova tassa sui servizi risulta più cara in 11 città, mentre in soli 4 centri urbani era più alta la vecchia imu sulla prima abitazione. Solo in 5 capoluoghi su 20, invece, i due balzelli sulla casa risultano equivalenti.

Secondo la Cgia «la stabilizzazione del bonus Renzi, gli sgravi contributivi per i neoassunti a tempo indeterminato e il taglio dell’Irap dovrebbero avere il sopravvento sugli aumenti di imposta previsti sui fondi pensione, sull’incremento della tassazione sul Tfr, e sull’incremento delle accise sui carburanti che scatterà dal prossimo 1° gennaio». «Era da molto tempo che ciò non accadeva – osserva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – A far pendere l’ago della bilancia a favore dei contribuenti italiani è stato il bonus fiscale introdotto nella primavera scorsa dal Governo Renzi. In linea di massima possiamo affermare che i maggiori benefici economici, come era giusto che fosse, sono andati ai redditi medio bassi, mentre quelli superiori non hanno ancora fruito di nessun sollievo fiscale. Nonostante ciò, il carico fiscale complessivo rimane ancora molto elevato. Purtroppo, la contrazione del Pil continua ad essere superiore alla diminuzione del gettito: pertanto, la pressione fiscale non si abbassa».

E per far fronte al caro imposte in molti pensano di farsi anticipare il Tfr in busta paga. Secondo un’indagine realizzata da Confcommercio-Imprese, un lavoratore su cinque, nelle imprese fino a 49 addetti, è pronto a chiedere il Tfr in busta paga. Un’intenzione che sta maturando soprattutto tra i dipendenti di sesso maschile, giovani, single che vivono nella famiglia d’origine, con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni d’origine, e un’ampia maggioranza (il 60%) conta di utilizzare l’anticipo della liquidazione per consumi e per fronteggiare spese ritenute necessarie mentre il 40% circa vuole depositarlo in banca come fondo per le emergenze. Si tratta di un’operazione che coinvolgerà circa 300 mila imprese e, per molte, non sarà certo indolore visto che comporterà un aggravio della loro capacità finanziaria.

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Da gennaio l’addizionale Irpef regionale potrà salire fino al 3,33%. Un punto in più del 2,33%, già applicato da quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Molise e Basilicata. Il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, che è anche presidente della Conferenza delle Regioni, ha già deciso un aumento dell’aliquota per i redditi sopra 28 mila euro. Riguarda meno di un quarto dei 2,6 milioni di contribuenti piemontesi, si giustifica la Giunta. Il conto più salato sarà per i 127 mila cittadini sopra i 55 mila euro. Per loro l’aliquota salirà di un punto: al 3,32% per lo scaglione tra 55 mila e 75 mila euro, al 3,33% oltre. Per fare un esempio, un torinese con più di 75 mila euro subirà un prelievo Irpef complessivo superiore al 47%, considerando l’Irpef nazionale del 43% e comunale dello 0,8%. Si tratta di aumenti «obbligati», sostiene la Regione, per far fronte al debito salito a quasi 9 miliardi. Ma, spiega Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori al Bilancio della Conferenza delle Regioni, «anche altre Regioni, quelle con i Piani di rientro sanitari (oltre al Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, ndr.), rischiano di aumentare le addizionali, a causa dei tagli alle Regioni: 4 miliardi con l’ultima legge di Stabilità e 1,8 con le precedenti due manovre».

Il prelievo medio pro capite che quest’anno è salito a 377 euro con punte di 548 euro nel Lazio e 442 in Piemonte e Campania, potrebbe salire ancora. Come l’aliquota media, che ora sfiora 1,6% (va tenuto conto che molte Regioni articolano il prelievo sui 5 scaglioni Irpef) con Lazio, Molise, Campania e Calabria oltre il 2% mentre il prelievo medio più basso c’è nelle province autonome di Bolzano e di Trento. L’aumento fino al 3,33% è quasi certo nel Lazio, dove è già previsto dalla manovra approvata l’anno scorso, mentre la Campania fa sapere che sarà confermato il 2,03% in vigore. Già domani potrebbe esserci un nuovo incontro governo-Regioni, dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta. Che anticipa: «Le proposte delle Regioni non vanno nella direzione giusta. Vorrebbero alleggerire i tagli utilizzando i fondi non spesi per il pagamento dei debiti verso le imprese. Sarebbe una soluzione finanziaria mentre secondo noi vanno ridotti gli sprechi».

Le posizioni sono distanti. A sentire le Regioni, 4 miliardi di tagli sono insostenibili, mettono a rischio i servizi, per non ridurre i quali bisogna appunto aumentare l’addizionale. In effetti, secondo i calcoli della Copaff, la commissione del’Economia per il federalismo fiscale presieduta da Luca Antonini, tra il 2008 e il 2013 sono proprio le Regioni ad aver sopportato, in proporzione, i tagli maggiori di spesa: 13 miliardi più 8 sul fondo sanitario. Ma, a sentire il premier Matteo Renzi, tagliare 4 miliardi, su una spesa regionale di 200 miliardi, è possibile intervenendo sugli sprechi e applicando i costi standard. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Glocus, nella sanità si possono risparmiare 22 miliardi in 5 anni. Per Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, la società del ministero dell’Economia per gli acquisti della pubblica amministrazione, «è senza dubbio nel campo dell’energia che ci sono troppi sprechi. In qualche caso si sono ottenuti risparmi fino al 40%. Centralizzando gli acquisti, oltre a eliminare gli sprechi, si rende più difficile la corruzione».

In questo braccio di ferro a rimetterci è il contribuente. Eppure la legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale fissava il principio dell’invarianza della pressione fiscale, quindi se aumentavano le addizionali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Invece, afferma la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013, «non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e locale ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali». Solo nel 1998, ricorda la Corte, quando l’addizionale regionale debuttò con un’ aliquota che allora era dello 0,5%, «furono ridotte della stessa misura le aliquote Irpef». Da allora, spiega Antonini, «c’è stato un continuo scaricabarile tra Stato, Regioni ed enti locali e il principio dell’invarianza di gettito è stato massacrato». Più accademica la Corte: «Le evidenze» dimostrano «una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinato nell’aumento della pressione fiscale complessiva a causa di un perverso effetto combinato: lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli, aumentano le aliquote dei propri tributi». Quando finirà? Il governatore della Campania, Stefano Caldoro, ha suggerito un po’ provocatoriamente: «Lasciamo il governo nazionale, sciogliamo le Regioni e riorganizziamo le funzioni sulla base delle macroaree».

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dopo tre anni in cui il Fisco sul mattone ha visto crescere a passo di carica il caos delle regole e soprattutto il conto a carico dei cittadini, ogni novità su parametri e aliquote tocca un nervo scoperto. In questo quadro, i nuovi indicatori della «tassa locale» non passeranno certo inosservati, soprattutto nel capitolo dedicato a seconde case e altri immobili, per i quali l’aliquota massima sale fino al 12 per mille invece dell’11,4 attuale. Uno scarto piccolo, rivolto però a proprietari che oggi pagano dal 100 al 200% in più di quello che versavano tre anni fa, mentre il loro immobile perde valore schiacciato dalla crisi e dalle tasse.

Il fatto è che nel Fisco gli errori si pagano, e nel travaglio eterno della Tasi di errori ne sono stati fatti parecchi. Dopo un continuo lavorio sulle norme per mettere una pezza a questo o quel difetto del nuovo tributo, il debutto effettivo della Tasi è stato accompagnato da un fondo statale di 625 milioni. L’aiuto è stato pensato per permettere a molti Comuni di far quadrare i conti e di riservare anche qualche detrazione sulle abitazioni principali, nel tentativo di attenuare il drastico effetto regressivo (aumenti per le case più “povere”, sconti per quelle più ricche) del nuovo sistema. Questo assegno statale, però, ha solo rimandato il problema di un anno, perché ora altri 625 milioni non ci sono (o il Governo non è disposto a metterli) e la leva fiscale potenziale dei Comuni sale.

Non solo: la nuova spending review resta un boccone amaro per i sindaci, e una quota (minoritaria) viene compensata con una maggiore libertà di aliquote. Il caos dellaTasi, poi, si pagherà anche in termini di polemiche sull’abitazione principale: il tributo sui servizi indivisibili ha colpito le case di valore più basso, il nuovo meccanismo, grazie alla detrazione fissa, redistribuisce il carico verso l’alto, ma in questa altalena continua c’è chi perde e chi guadagna e il dibattito è servito.

Come se ne esce? Il Governo punta su «autonomia» e «semplificazione», per costruire una tassa locale che sia comprensibile da chi la paga (certe delibere Tasi con decine di parametri bizantini fanno più male dei modelli di versamento in fatto di consenso da parte dei cittadini) e sia davvero tutta comunale, cancellando il paradosso dell’imposta «municipale» nel nome ma statale a metà nei fatti. È una strada corretta, come saggia è stata la rinuncia all’idea iniziale di accorpare nella tassa locale anche i tributi minori, con una mossa che avrebbe fatto pagare a tutti una quota del miliardo versato ogni anno sui cartelloni pubblicitari o l’occupazione di suolo pubblico. Gli scogli da superare, però, restano parecchi e per non finire incagliati serve che la semplificazione sia vera e l’autonomia effettiva. E serve, va aggiunto, che questa riforma sia l’ultima: perché imporre ai contribuenti un corso accelerato tre volte all’anno per pagare le tasse sulla casa non è un’abitudine civile.

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Rosaria Amato – La Repubblica

Far pagare troppo poco il cliente svilisce la professione legale? Sembra di sì, a giudicare dalle argomentazioni del Consiglio Nazionale Forense, accuratamente riportate dall’Antitrust nel provvedimento che condanna l’organo professionale al pagamento di quasi un milione di euro. Completamente diversa la visione dell’Authority presieduta da Giovanni Pitruzzella: il tariffario imposto dal Cnf limita l’autonomia degli avvocati e restringe la concorrenza. Stessa lontananza di vedute per quanto riguarda la pubblicità su Internet: per il Cnf pubblicizzare tariffe convenienti su un sito «comporta in re ipsa lo svilimento della prestazione professionale da contratto d’opera intellettuale a questione di puro prezzo». Più banalmente, per l’Antitrust il singolare divieto importo dal Consiglio agli iscritti all’Ordine è “anticompetitivo” e potrebbe precludere agli avvocati l’uso di «un importante canale di diffusione dell’informazione». In generale, le due disposizioni sanzionate limitano direttamente e indirettamente «l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento sul mercato».

«Questa impostazione è tipica dell’Ordine forense, ed era tipica di tutte le professioni fino a qualche anno fa» rileva Silvio Boccalatte, avvocato, autore del capitolo sulle professioni dell’Indice delle liberalizzazioni, pubblicato ogni anno dall’Istituto Bruno Leoni. «Adesso però alcuni ordini, per esempio quello dei commercialisti, degli ingegneri, stanno cercando di far evolvere il loro quadro normativo verso una configurazione più moderna di prestazione professionale». La prossima edizione dell’Indice verrà presentata il 27 novembre. I nodi al pettine non sono molto diversi da quelli dello scorso anno, quando con valutazione 28 su 100 l’Italia è risultata il Paese meno concorrenziale d’Europa. Tanto poco concorrenziale che non c’è ancora traccia della nuova lenzuolata di liberalizzazioni annunciata oltre un mese fa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, in occasione della Giornata Europea della Concorrenza. La pubblicazione del disegno di legge, che dovrebbe recepire gran parte della segnalazione dell’Antitrust di luglio, era stata indicata come imminente, ma adesso fonti ben informate ipotizzano come periodo perlomeno gennaio, quando la legge di stabilità sarà finalmente alle spalle. E sui contenuti, bocche stracucite, per evitare le pressioni delle numerose lobby che temono moltissimo eventuali nuove limitazioni al loro campo di azione.

Le indicazioni di luglio dell’Antitrust sono estremamente ampie: vanno da provvedimenti che rendano meno care benzina e assicurazioni a misure che favoriscano il passaggio da una banca all’altra e una maggiore concorrenza nei servizi locali. Anche all’Istituto Bruno Leoni avrebbero qualche indicazione da dare al governo: «La sostanziale totale liberalizzazione delle forme di organizzazione professionale – suggerisce Boccalatte – e la assoluta totale liberalizzazione delle forme delle prestazioni professionali alla clientela, nel rispetto della concorrenza e nell’ottica della correttezza. E concretezza: basta con cose folli tipo le sanzioni contro “l’accaparramento della clientela”».

Certo, non sono solo gli ordini professionali a essere carenti sotto il profilo della libera concorrenza: «A mio avviso bisognerebbe ancora intervenire sulle rigidità del mercato del lavoro – dice Serena Sileoni, tra gli autori dell’Indice delle liberalizzazioni – e sicuramente tra le urgenze ci sono i servizi postali, sia il servizio universale che tutto il resto, e il trasporto ferroviario. Però non bastano le leggi: il provvedimento odierno dell’Antitrust dimostra che le restrizioni all’esercizio concorrenziale delle professioni possono dipendere soprattutto dalle barriere erette dagli ordini».

La terza recessione del Paese malato

La terza recessione del Paese malato

Tito Boeri – La Repubblica

Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini cileno-re di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla. Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti imprenditoriali.

Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.

Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.

C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’ efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.

Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portandola fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.

Possiamo evitare la terza recessione?

Possiamo evitare la terza recessione?

Stefano Lepri – La Stampa

Per noi in Italia sono davvero brutte notizie, queste sul prodotto lordo del terzo trimestre. Anche nel resto del mondo pare deludente che le economie dell’area euro avanzino a fatica. Ma perché cambi qualcosa anche in Germania devono convincersi che così non va: mentre quel magro +0,1% registrato dal Pil tedesco basta al vicecancelliere Sigmar Gabriel per scorgere un «rafforzamento». Una vera e propria recessione, la terza, è per ora evitata (tranne in Italia). Ma le cifre di luglio-settembre diramate dall’Istat consentono scarso ottimismo. II quarto trimestre, ora a metà, potrebbe rivelarsi ancora più debole, e il primo trimestre 2015 solo di poco migliore. Il sussulto positivo della Francia (+0,3) ha cause che difficilmente si ripeteranno. In Germania l’umore delle imprese fino alla fine di ottobre ha continuato a peggiorare.

Che fare? Delle due azioni suggerite dalle organizzazioni internazionali come Fmi e Orse, una – nuove misure monetarie della Bee – si fa attendere, l’altra – più investimenti pubblici – al momento non è in vista. Al G-20 che comincia oggi in Australia, dove Renzi insisterà per discutere di crescita, l’Europa sarà guardata come la palla al piede dell’economia mondiale. Ma quando il ministro del tesoro Usa Jack Lew invita ad evitare un «decennio perduto», a Berlino ritengono che esageri (mentre in Italia l’abbiamo già perduto per conto nostro, la crescita si era fermata assai prima della crisi). Nell’immediato la speranza è affidata alla Banca centrale europea. Come da anni fanno Federal Reserve, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, potrebbe compiere acquisti massicci sui mercati per far salire le quotazioni e scendere i tassi di interesse. Solo in caso estremo si tratterebbe di titoli di Stato, perché la Bundesbank si oppone.

Ancora ieri il governatore della Banca di Francia Christian Noyer affermava che solo «un nuovo shock negativo» o un rialzo dei tassi di interesse che parta dagli Usa potrebbero spingere all’azione. Gli analisti finanziari prevedono che si arriverà a un acquisto di soli titoli privati nel corso del primo trimestre 2015. Troppo tardi? Nel caso dell’Italia, poi, l’ulteriore calo dei tassi di interesse così ottenuto avrebbe risultati limitati, se è vero ciò che dicono i banchieri: i soldi non vengono prestati perché le imprese non ne chiedono o G chiedono solo per restare a galla. Sarebbero favorite solo le imprese grandi, in grado di finanziarsi direttamente sul mercato senza passare per le banche.

Gli ottimisti puntano sul recupero nei Paesi euro che più hanno sofferto dell’austerità: cresce il Pil della Grecia, cresce la Spagna. La cura funziona? Se non altro la Spagna è diventata più competitiva, ha fatto riforme efficaci; se ne indica l’esempio all’Italia. Ma il prezzo politico sembra alto: negli ultimi sondaggi di opinione (si vota tra un anno) è in testa o al secondo posto il movimento di estrema sinistra «Podemos», si profila un Parlamento senza maggioranze omogenee. In Spagna il peso del recupero di competitività è stato sopportato in gran parte dai precari, non dai lavoratori a posto fisso: questo spiega il radicalizzarsi di una protesta soprattutto giovanile. La riforma del mercato del lavoro in Italia è bene dunque miri in un’altra direzione, a ridurre il precariato.

Per offrire subito lavoro e ridare fiducia alle imprese la soluzione da molte parti reputata migliore sarebbe un piano di investimenti pubblici a carico delle istituzioni europee e non degli Stati già troppo indebitati come il nostro. A parole esiste l’impegno per i 300 miliardi del piano Juncker, al quale ieri il ministero dell’Economia italiano ha contribuito con progetti per 40. Ma è dubbio che esista la volontà politica collettiva per far andare il piano Juncker oltre le chiacchiere. No a nuovi debiti anche europei, dicono molti Paesi ancora terrorizzati dal rischio di crack dell’Italia nel 2011. Quando giorni fa la direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde ha ipotizzato che nel mondo del dopo-crisi sia irrealistico l’obiettivo del «Fiscal Compact» europeo di far tornare il debito degli Stati al 60% del Pil, dalla Germania è partita una salva di proteste. L’eredità peggiore della crisi è la paura.

Tante misure per così poco

Tante misure per così poco

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo.

La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap.

Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato.

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Foglio

È sbagliato considerare chissà quale retromarcia i ritocchi annunciati al Jobs Act, compresa la possibilità di reintegra (peraltro demandata ai decreti D’attuazione) per circostanziati licenziamenti disciplinari. Chi lo dice guarda al dito anziché alla luna. Il primo soddisfa le temporanee vanità di minoranze e partitini che giustificano così la propria presenza. La luna è l’introduzione anche in Italia della regola aurea di ogni paese civile: non esiste lavoro senza giusto profitto, e non esiste l’abbonamento a vita al posto fisso, mentre in una vita è lecito e spesso utile cambiare più lavori. La riforma introduce il diritto dell’imprenditore a licenziare, dietro indennizzo, per motivi economici: è così ovunque, anche nell’Europa del Welfare state, ma per l’Italia pare una rivoluzione.

Gli stranieri, imprese e istituzioni come Banca centrale europea e Ocse, dicono che qui è più facile separarsi dalla moglie che da un dipendente. Basta guardare ai 118 milioni di ore di cassa integrazione, in gran parte straordinaria, erogati in dieci mesi per mantenere posti fasulli, spesso con aziende decotte o chiuse. L’equiparazione tra “lavoro” e “posto” non esiste nelle economie ad alta occupazione, ma resta un dogma per la Cgil dello sciopero surreale del 5 dicembre, e per la Fiom che ha cavalcato quello “sociale” di ieri. Nel quale sono echeggiate minacce per Matteo Renzi, proprio nelle ore in cui alcuni suoi collaboratori venivano costretti sotto scorta. In Italia per impedire le riforme del lavoro si è ucciso: non dimentichiamolo ora che si ha il coraggio di cambiare.

Un passo avanti e due indietro

Un passo avanti e due indietro

Gaetano Pedullà – La Notizia

Un passo avanti e due indietro, anche il Job Act si avvia a diventare legge. Doveva essere una rivoluzione, sarà invece una riforma zoppa. Per renderla meno indigesta a sinistra Pd e sindacati, torna infatti il reintegro in caso di licenziamento disciplinare senza giusta causa. Quali saranno queste giuste cause lo vedremo nei decreti delegati, ma dall’entusiasmo con cui si è ricompattata la minoranza Dem c’è da scommettere che le maglie saranno larghe. Renzi incassa così la sua riforma e, come effetto collaterale, un maggiore isolamento della Camusso, ormai mollata da Cisl e Uil. Alla politica e al sindacato che fa politica sfugge però che mentre ci si accapiglia per definire nuove regole (in questo caso del lavoro), c’è un’Italia vasta che delle regole (tutte) se ne sbatte. Le occupazioni abusive degli alloggi popolari a Milano e Roma – dove ieri c’è quasi scappato il morto – sono una prassi. Così come la violenza nelle periferie. E la rivolta degli abitanti di Tor Sapienza, nella Capitale, con i residenti che si fanno giustizia da soli per i furti degli immigrati, è il certificato di morte di uno Stato che continua a mettere e togliere regole. Senza la forza però di applicarle.

Ponte di fuga

Ponte di fuga

Il Foglio

Convocare uno sciopero generale nel bel mezzo di un ponte festivo può essere una furbata, come molti hanno pensato della “pensata” di Susanna Camusso, ma se si guarda un po” più a fondo sembra invece una sorta di fuga, di rinuncia preventiva a un rapporto reale con l’insieme dei lavoratori. Nelle fabbriche e negli uffici ognuno considererà la sua convenienza di approfittare delle feste, indipendentemente dalla proclamazione della Cgil, che si troverà come al solito a dialogare solo con una frangia minoritaria ed estremista convogliata nei cortei di protesta da formazioni politiche antagonistiche.

È difficile capire quale logica possa aver spinto la più numerosa organizzazione sindacale italiana a infilarsi in questo vicolo cieco. Susanna Camusso, che aveva inaugurato il suo mandato con l’intenzione di recuperare gli spazi negoziali, cioè tipicamente sindacali, dai quali la Cgil si era allontanata seguendo di fatto la linea protestataria della Fiom, ha poi finito per concludere la sua esperienza in una sorta di gara a chi le spara più grosse con Maurizio Landini. Se il tema sul quale si intende raccogliere la protesta sociale, la pretesa abolizione dell’articolo 18, suscitasse davvero un interesse di massa, sarebbe un boomerang rinunciare a propagandare le proprie ragioni in uno sciopero vero, promosso con iniziative nei luoghi di lavoro, in grado di coinvolgere e motivare un’area assai più ampia di quella delle “avanguardie” politicizzate. Questo alla Cgil, che organizza lotte da un secolo, lo sanno tutti benissimo.

L’avere scelto la strada apparentemente più facile e in realta più rinunciataria giustifica il sospetto che l’iniziativa di sciopero non sia pensata come strumento di pressione per ottenere risultati. Se questo fosse il vero obiettivo si sarebbe cercata davvero una qualche intesa con le altre confederazioni e una data che non consentisse alibi a eventuali insuccessi, o il sospetto che le fabbriche, se si svuo- teranno, si sarebbero svuotate a prescindere. Invece si insiste sullo sciopero, anche sapendo che sara un fallimento come tutti quelli precedenti indetti dalla sola Cgil perché in questo modo si da sfogo all’orgoglio ferito di una sindacalista in declino, e questo è piuttosto penoso.