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Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Avete presente la leggenda di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi che chiese allo Shah un chicco di grano nella prima casella, 2 nella seconda, 4 nella terza e via raddoppiando? Una misteriosa manina ha ideato un giochino simile, facendo sparire alcune parole chiave per le pensioni più ricche. Nel 2014 il giochino costerà 2 milioni di euro: nel 2024 addirittura 493. In un anno. Per un totale nel decennio di 2 miliardi e 603 milioni di euro. A godere di questo regalo, calcola l’Inps, saranno circa 160 mila persone. Quelle che, pur avendo raggiunto nel dicembre 2011 i quarant’anni di anzianità, hanno potuto scegliere di restare in servizio fino ai 70 o addirittura ai 75 anni. In gran parte docenti universitari, magistrati, alti burocrati dello Stato…

Il regalo agli «eletti» è frutto della cancellazione di quattro righe. La legge 214 del 2011 voluta dal ministro Elsa Fornero, che si riprometteva di «togliere ai ricchi per dare ai poveri», diceva infatti all’articolo 24 che dal primo gennaio 2012 anche i nuovi contributi dei dipendenti che avevano costruito la loro pensione tutta col vecchio sistema retributivo, perché avevano già più di 18 anni di anzianità al momento della riforma Dini del ‘95, dovevano esser calcolati con il sistema contributivo. «In ogni caso per i soggetti di cui al presente comma», aggiungeva però il testo originario suggerito dall’Inps, «il complessivo importo della pensione alla liquidazione non può risultare comunque superiore a quello derivante dall’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore del presente comma».

Arabo, per chi non conosce il linguaggio burocratico. Proviamo a tradurlo senza entrare nei tecnicismi: quelli che potevano andarsene con il vitalizio più alto (40 anni di contributi) ma restavano in servizio potevano sì incrementare ancora la futura pensione (più soldi guadagni più soldi versi di contributi quindi più alta è la rendita: ovvio) ma non sfondare l’unico argine che esisteva per le pensioni costruite col vecchio sistema: l’80 per cento dell’ultimo stipendio. Poteva pure essere una pensione stratosferica, ma l’80 per cento della media delle ultime buste paga non poteva superarlo.

Quelle quattro righe della «clausola di salvaguardia» che doveva mantenere l’argine, però, sparirono. E senza quell’argine, i fortunati di cui dicevamo possono ora aggiungere, restando in servizio con stipendi sempre più alti, di anno in anno, nuovi incrementi: più 2 per cento, più 2 per cento, più 2 per cento… Al punto che qualcuno (facendo «marameo» alla maggioranza dei cittadini italiani chiamati in questi anni a enormi sacrifici) potrà andarsene fra qualche tempo in pensione col 110 o il 115% dell’ultimo stipendio. Per tradurlo in cifre: il signor Tizio Caio che già potrebbe andare in pensione con 33.937 euro al mese potrà riceverne invece, grazie a questa «quota D», 36.318.

Chi le fece sparire, quelle righe, non si sa. E certo non era facile accorgersi del taglio in un testo logorroico di quasi 18 mila parole più tabelle. Un testo cioè lungo quasi il doppio del «Manifesto del partito comunista» di Marx ed Engels, il doppio esatto della Carta Costituzionale, cinque volte di più del discorso di inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per non dire del delirio burocratese. Con l’apparizione ad esempio dei commi 13-quinquies e 13-sexies e 13-septies e 13-octies e 13-novies e perfino 13-decies. Ciascuno dei quali impenetrabile per chiunque non sia vaccinato contro la burocratite acuta.

«Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare», diceva tre secoli fa l’abate Ludovico Muratori. Parole d’oro: la rimozione di quelle poche righe che arginavano abnormi aumenti delle pensioni d’oro, come ha scoperto l’Inps, hanno prodotto l’effetto perverso che il misterioso autore del taglio doveva aver diabolicamente calcolato. Secondo una tabella riservata fornita al governo dai vertici dell’Istituto di previdenza, infatti, tabella che pubblichiamo, 160 mila persone circa potranno godere sia dei vantaggi del vecchio sistema retributivo sia di quelli del «nuovo» sistema contributivo. E tutto ciò, se non sarà immediatamente ripristinata quella clausola di salvaguardia, causerà un buco supplementare nelle pubbliche casse di 2 milioni quest’anno, 11 l’anno prossimo, 44 fra due anni, 93 fra quattro e così via. Fino a una voragine fra nove anni di 493 milioni di euro. Per un totale complessivo, come dicevamo, di oltre due miliardi e mezzo da qui al 2024. Per capirci: una somma dieci volte superiore ai soldi necessari a mettere in sicurezza una volta per tutte Genova dal rischio idrogeologico e dalle continue alluvioni.

Dello stupefacente meccanismo ideato da Sissa Nassir per farsi dare un’enormità dallo Shah di Persia sorrise anche Dante Alighieri che nella Divina Commedia, per spiegare quanto il numero degli angeli crescesse a dismisura, scrisse «L’incendio suo seguiva ogne scintilla / ed eran tante, che ‘l numero loro / più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla». I cittadini italiani, però, tanta voglia di poetare oggi non hanno. E forse sarebbe il caso che il governo prendesse subito sul serio l’allarme dell’Inps. Andando a ripristinare quelle righette vergognosamente fatte sparire.

Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

La tentazione e forte, molto forte. Cosi ogni volta che il sistema industriale italiano scopre una sua fragilità, puntualmente c’è chi chiama in causa lei, la Cassa depositi e prestiti. È capitalizzata, ha una leva finanziaria da molte decine di miliardi, funziona come una banca d’affari, ma non è una banca d’affari. Grazie al serbatoio del risparmio che gli italiani hanno depositato alle Poste può funzionare, con tutte le tutele previste dalla legge naturalmente, come una sorta di Bancomat di ultima istanza. Il livello delle richieste, solo per citarne alcune va da Alitalia, Telecom, Ilva, Acciai Terni Speciali. Qualche anno fa si ipotizzò persino la Parmalat. A rileggere i nomi delle società coinvolte, se cosi fosse stato, sarebbe nata una brutta fotocopia dell’Iri, l’istituto perla ricostruzione industriale che quelle società aveva qualche decina di anni fa, in portafoglio. Per fortuna
non è andata così.

Compito dello Stato forse è più quello di mettere le imprese in condizioni di lavorare meglio, di avere una fiscalità chiara, un quadro normativo semplice e non intermittente, una giustizia veloce, che non comprarne le azioni. Soprattutto quando, in situazioni di emergenza e di crisi, non sono in molti a volerle. La stagione delle privatizzazioni sembra molto lontana, risale a circa vent’anni fa. Certo, la mitologia del mercato ha fatto commettere errori. Ma la strada non può essere quella di incaricare la Cassa depositi di riempire gli spazi lasciati vuoti dalle imprese private. Un ragionamento su quali sono i settori industriali nei quali l’Italia vuole conservare un ruolo spetta al governo e la Cassa può essere utile in questo senso, semmai per affiancare dei progetti, non come tappabuchi. Altrimenti finirebbe, e non sarebbe una vittoria, col far rimpianger l’Iri. Però anche gli imprenditori devono farsi avanti per cercare soluzioni di mercato senza finire sempre per invocare l’intervento della Cdp. Non è un Bancomat: né dello Stato, né dei privati.

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

Alberto Mazzuca – La Gazzetta del Mezzogiorno

Statali in piazza, pensionati in piazza, disoccupati in piazza. Slogan, proteste e manganellate. È solo l’inizio dello scenario che avremo anche il prossimo anno. Sara infatti un 2015 migliore rispetto a questo 201l disastroso (-0,4 % del Pil). Ma sarà anche il quarto anno di recessione consecutiva. Il che significa dover sopportare altri disagi. La correzione al ribasso effettuata dall’Ocse sul Pil italiano (ripresina dello 0,2% nel 2015 e dell’1% nel 2016) ci colloca infatti al penultimo posto nei paesi del G20, davanti solo alla Russia. E ci racconta una storia in parte diversa da quella che il governo ci racconta mettendo tanta carne al fuoco, come se questo paese fosse in grado di correre i cento metri dopo essere stato ingessato per anni.

Non è questione, come sostiene il premier Renzi, di “pigrizia”. Basta leggere la relazione della Banca d”ltalia per vedere che nel 2014 il rapporto tra entrate fiscali e Pil rimane costante al 48,5 % e nel 2015 salirà mentre le spese correnti restano invariate. Viene ridotta di qualcosa solo la spesa in conto capitale. Significa che le misure decise sono troppo timide, che si fa affidamento sull’iniezione di liquidità che faranno la Bce (oltre mille miliardi) e l’Ue (i ridicoli 300 miliardi in tre anni), che si spera in una maggiore apertura di credito da parte del sistema bancario. Quest’anno le banche, dice l’Abi, hanno erogato più di 5 miliardi alle imprese ma l’unica cosa che salta agli occhi è la grande invasione di slot machine e gioco d`azzardo.

Per dare una vera svolta al paese ci vuole ben altro. Ci vuole un patto sociale (e non la guerra), ci vogliono soprattutto scelte precise che non mettano in fuga gli investitori stranieri. Non è l’art. 18 a spaventarli ma la criminalità che ha un impatto sul Pil di almeno l’1% e ha fatto perdere dal 2006 al 2012, in particolare nel Sud, ben 16 miliardi. E se l’Italia è con Grecia e Bulgaria ai primi posti in Europa come corruzione, è al quarto come criminalità organizzata dopo Romania, Bulgaria e Polonia. Eppure l’introduzione del reato di autoriciclaggio per chi reimpiega soldi ottenuti illecitamente va a passo di lumaca. Curioso: gli italiani debbono correre, i criminali hanno un occhio di riguardo.

La stangata delle tasse retroattive

La stangata delle tasse retroattive

Sergio Rame – Il Giornale

Non solo l’affanno di staR dietro a una pressione fiscale che strozza le imprese e frena la ripresa. Ma anche la beffa di nuove imposte che hanno effetto per il passato e acconti maggiorati che hanno titolo di anticipo. Negli ultimi anni – dal governo Monti in poi, tanto per intenderci – l’urgenza di far quadrare i conti pubblici ha aumentato le imposte retroattive. Tasse oggi, ma che si pagano “da ieri”. Il conto è salatissimo: 10 miliardi di euro.

Viene da chiedersi se il governo può prendersi gioco dei contribuenti in modo così spudorato. Ebbene sì. Come spiegano Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente sul Sole 24Ore, lo Statuto del contribuente vieta di introdurre imposte con effetto retroattivo. Ma in Italia c’è sempre un “ma” che rende possibile l’impossibile. Dal momento che lo Statuto del contribuente è regolamentato da una legge ordinaria, può essere benissimo superato da altre leggi o decreti legge. E il gioco è fatto. Tanto che l’ex premier Mario Monti ne ha fatto ampiamente uso. Tra le tante invenzioni del bocconiano ricordiamo i 2,2 miliardi in più di addizionale Irpef per l’anno d’imposta 2011. Niente male se si considera che si è insediato a Palazzo Chigi il 9 novembre del 2011, praticamente a fine anno.

Imparata la lezione da Monti, anche Matteo Renzi non è da meno. Prendiamo la legge di Stabilità che il parlamento sta approvando in queste settimane. Ebbene, tra le pagine della manovra spunta anche l’aumento dall’11,5% al 20% della tassazione sui rendimenti dei fondi pensione con effetti fiscali a partire dal primo gennaio del 2014. Un trucchetto che porterà alle casse dell’erario pubblico la bellezza di 450 milioni di euro in più. E ancora: il governo Renzi ha anche deciso di incrementare il prelievo sui dividendi incassati da fondazioni e trust e di ritoccare (all’insù, ovviamente) l’aliquota base dell’Irap. Quest’ultimo ritocchino, come fa notare il Sole 24Ore, “di fatto cancella lo sconto deciso con il decreto sugli 80 euro”.

Ma non ci sono solo tasse retroattive. L’ingegno della politica è senza limiti. E sempre negli ultimi tre anni ha creato ad hoc acconti maggiorati a titolo di “anticipo”. “Nel 2013, mettendo insieme i maxi-versamenti per le banche e le imprese – continuano Dell’Oste e Parente sul Sole 24Ore – lo Stato ha incassato quasi 3,7 miliardi di competenza degli anni d’imposta successiva”. Eppure nessuno grida allo scandalo. Nel 2014 il trend non è cambiato. Renzi si è affrettato a rastrellare tutti i 600 milioni di euro dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione dei beni d’impresa.

Più ottimisti che pessimisti, ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti

Più ottimisti che pessimisti, ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti

Daniele Marini – La Stampa

Stanchi e provati come dopo un lungo e tortuoso viaggio del quale ancora non si vede chiaramente il traguardo. Durante il tragitto, le condizioni di vita per molti sono peggiorate e l’orizzonte è sempre molto incerto, quasi imperscrutabile. Tuttavia, nello stesso tempo, si guarda al futuro con una qualche speranza, soprattutto con un atteggiamento di attesa disincantata, dopo tante disillusioni e mancate promesse. È il sentimento generale degli italiani che emerge dall’ultima rilevazione dell’indagine LaST (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa). Potrebbe essere diversamente, dopo che sono trascorsi oltre sei anni dall’avvio conclamato della crisi economica? Dopo che, nel frattempo, abbiamo sperimentato in rapida successione quattro esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)? Dopo che la disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati e investito una parte consistente delle giovani generazioni, facendo diventare il lavoro (e con esso il senso del futuro) la preoccupazione maggiore degli italiani?

Evidentemente no, non potrebbe essere altrimenti. E questo anche a dispetto dei piccoli segnali recenti che hanno messo in luce qualche positività. Il numero degli occupati che – per il momento – ha conosciuto un lieve miglioramento. Il novero delle persone che hanno ricominciato a cercare attivamente un’occupazione. Le banche che segnalano una ripresa dei risparmi delle famiglie, ma che rimangono giacenti. Indicatori oggettivamente positivi, ma soggettivamente ancora non in grado di influenzare gli orientamenti. Perché la percezione determina la realtà. E ciò spiega – com’era plausibile ipotizzare – come mai gli 80 euro non sono finiti nei consumi, ma nei risparmi, in attesa di tempi più certi e migliori. Lo si può comprendere meglio se consideriamo come gli italiani percepiscono le loro condizioni economiche. Rispetto a tre anni fa, in generale, una leggera maggioranza (53,4%) ritiene che il proprio bilancio economico familiare sia rimasto sostanzialmente stabile. Fra questi, soltanto meno di un decimo (8,7%) l’ha visto aumentare. Per il 46,6%, invece, il reddito mensile disponibile in famiglia è diminuito.

Dunque, le risorse economiche disponibili per gli italiani quando è andata bene sono rimaste invariate e per una parte assai consistente sono andate peggiorando. Di sicuro, non abbiamo conosciuto alcuna mobilità economica, e quindi sociale, ascendente. I più penalizzati da questa situazione sono le donne, i 50-60enni, chi possiede un basso livello di studio e le persone ai margini del mercato del lavoro (disoccupati, pensionati e casalinghe). Se queste sono le condizioni economiche oggi, rispetto a tre anni fa, quali sono le prospettive? Quando si prevede di uscire da questa crisi? L’incertezza è l’elemento dominante.

Complessivamente, tre interpellati su quattro (75,1%) ritengono si dovrà aspettare almeno un anno e mezzo prima di uscire dalle difficoltà e fra questi ben il 68,2% vede la fine del tunnel oltre l’anno e mezzo. Pochi (10,2%) immaginano si debba aspettare al più solo un anno prima di conoscere prospettive migliori e una quota marginale (2,2%) intravede già segni di ripresa. Se a chi rinvia ad almeno un anno e mezzo l’attesa di un miglioramento aggiungiamo quanti non se la sentono di fare previsioni (12,5%), otteniamo che quasi i nove decimi della popolazione vivono nel day by day, privi di un orizzonte temporale definito: si naviga a vista, in assenza di una direzione precisa.

L’aspetto preoccupante è che questa indeterminatezza sul futuro sembra innervare in misura maggiore le prospettive economiche personali e familiari, più ancora di quelle del territorio in cui si vive, dell’Italia o dell’Europa. A immaginare che nel futuro prossimo la situazione economica conoscerà un miglioramento per il proprio nucleo familiare è in media il 42,1% degli italiani. Analogamente, il 61,1% fra gli intervistati ritiene che ciò accadrà per l’area di residenza, il 62,5% per l’Italia e il 46,3% per l’intera Europa. Dunque, si pensa (o si auspica) che l’economia del Paese possa riprendersi, ma si medita che le proprie condizioni faranno più fatica a risollevarsi. Una conferma indiretta a questa difficoltà a sognare un futuro positivo viene dal recente Prosperity Index 2014 (Legatum Institute) che mette a confronto 142 Paesi sull’idea di sviluppo futuro: l’Italia si colloca al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.

Per provare a offrire una misura di sintesi, abbiamo creato un indicatore di fiducia sul futuro, sommando le prospettive di crescita economica per i diversi ambiti. Ne scaturiscono quattro profili prevalenti. Gli Ottimisti sono un terzo degli interpellati (34,3%) e annoverano chi, per tutte le dimensioni, ipotizza percorsi di miglioramento economico e, in proporzione, comprendono quanti sono oggi più in difficoltà (operai), i sessantenni o hanno avuto una diminuzione di reddito rispetto agli anni precedenti. Quindi, un ottimismo dettato dalla speranza. Il gruppo più cospicuo, però, è quello degli Attendisti (39,2%), quanti oscillano attorno a una condizione di stabilità o di leggero miglioramento. Il terzo gruppo è quello dei Preoccupati (21,7%): comprende ha una visione tendenzialmente pessimista per le condizioni economiche future, idea particolarmente diffusa fra le giovani generazioni e chi ha un titolo di studio elevato. Infine, troviamo i Pessimisti (4,8%), nucleo marginale che prevede un sostanziale declino generalizzato.

Fiducia e senso di un futuro possibile sono il motore dello sviluppo. Ma questi lunghi anni di difficoltà hanno intaccato l’aspettativa di realizzare un miglioramento per sé e per i propri familiari. Come se negli italiani si stesse incrinando la proverbiale capacità di adattamento alle difficoltà. E, in questa lunga traversata, avessero tirato un po’ i remi in barca.

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Paolo Russo – La Stampa

Sindaci liberi di aumentare o tagliare a proprio piacere i tributi locali che oggi come oggi valgono la bellezza di circa 30 miliardi di euro e che da anni sono in continua crescita. «Se local tax deve essere che lo sia fino in fondo» spiega a chiare lettere il sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta, che per Padoan e Renzi sta seguendo la delicata partita sul nuovo tributo unico comunale, destinato a radunare sotto la stessa sigla Tasi, Imu, Tosap (l’imposta sull’occupazione del suolo pubblico) e, forse, la Tari sui rifiuti. Anche se quest’ultima alla fine potrebbe rimanere fuori, sia perché versata anche dagli inquilini e sia perché calcolata sulla base degli effettivi «consumi di immondizia». La local tax segnerebbe invece la fine della Tasi a carico degli affittuari, che in questi mesi si è rilevata una seccatura, più per calcolarla che per gli importi in larga misura modesti.

Della tassa unica il governo ne comincerà a discutere ufficialmente da oggi con l’Anci per arrivare entro la fine della settimana ad un testo definitivo sotto emendamento alla legge di stabilità. Anche se le difficoltà legate ai meccanismi di calcolo del gettito potrebbero alla fine consigliare un «emendamento annuncio», con data di avvio e contorni della riforma, rimandando i dettagli della stessa a qualche altro provvedimento applicativo. I sindaci chiedono tempo per far decantare un po’ la nuova imposta, che dovrebbe diventare operativa nella seconda metà dell’anno prossimo, semplificando la vita ai contribuenti con un pagamento unico. Anche se per il sospirato bollettino precompilato bisognerà aspettare il 2016.

In ogni caso l’esecutivo sembra orientato a lasciare la massima autonomia impositiva ai sindaci, senza indicare forbici entro le quali dovrebbe oscillare l’aliquota e senza nemmeno introdurre dall’alto quelle detrazioni che dovrebbero salvare dal tributo gli immobili di minor pregio. Nei giorni scorsi si era ventilata l’ipotesi di riprodurre il modello Imu, con una detrazione fissa di 200 euro e una di 50 per ciascun figlio, ma ora si preferirebbe anche su questo lasciare mano libera ai comuni, che sulla Tasi sono riusciti a produrre la bellezza di 100mila combinazioni diverse di pagamento. Ma anche la piena libertà concessa ai sindaci di agire sulla leva fiscale potrebbe non far dormire sogni tranquilli ai contribuenti, soprattutto quelli che vivono in paesi e città con i bilanci in dissesto. Fino ad oggi infatti quel po’ di autonomia impositiva lasciata agli enti locali si è trasformata quasi sempre in un salasso capace di riassorbire, anche con gli interessi, i tagli delle tasse decisi a livello nazionale.

La Uil Servizio politiche territoriali evidenza che la Tasi sulla prima casa è risultata più cara della vecchia Imu per una famiglia su tre, mentre la tassa sui rifiuti è passata dai 225 euro medi a famiglia di cinque anni fa ai 320 di quest’anno. Per non parlare dell’addizionale comunale Irpef. Quest’anno sono 978 i comuni che hanno deciso di aumentare l’aliquota, con un aumento medio del 7%, che sale al 24,7% se calcolato sempre nell’ultimo quinquennio. Con la local tax le addizionali Irpef dovrebbero se non altro essere «statalizzate». Il gettito rimarrebbe invariato ma ad incassare sarebbe l’amministrazione centrale. Questo per compensare il mancato gettito dell’Imu su capannoni, alberghi e centri commerciali, circa 4 miliardi e mezzo che oggi vanno allo Stato e che domani sarebbero incassati dai Comuni.

La riforma della fiscalità comunale sarebbe poi accompagnata da una copertura statale degli interessi per i nuovi mutui fino a 3 miliardi di euro, dal tratto di penna su una serie di vincoli e regole su interessi passivi e spese del personale e dall’addio all’obbligo di destinare all’abbattimento del debito pubblico il 10% degli introiti derivanti dalla vendita di immobili. Che soprattutto la local tax sia a rischio di aumenti surrettizi d’imposta Renzi lo sa bene, ma il premier è oramai deciso a togliere alibi ai Comuni lasciando loro massima autonomia, sapendo che saranno poi i cittadini elettori a non fare sconti. Una sfida dove la posta in palio è l’efficienza dell’amministrazione locale, ma anche il portafoglio dei contribuenti.

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Hanno un tasso di occupazione superiore rispetto agli autoctoni, ma frequentemente svolgono attività disagevoli, e sono pronti ad accettare orari “asociali”. Inoltre, nonostante siano disposti ad accettare una retribuzione sotto la media, si dichiarano poco propensi a spostarsi in altre città o ad abbandonare l’Italia per trovare un impiego. E, comunque, anche gli stranieri in Italia – contrariamente a quel che si tende a credere – risentono di un generale peggioramento del quadro generale rispetto a sette anni fa, prima dell’inizio della grande crisi.

A grandi linee è questa la fotografia che emerge dalla ricerca realizzata dalla Fondazione Leone Moressa su «Come è cambiato il lavoro negli anni della crisi» che, sulla base dei dati Istat, ha messo a confronto la situazione lavorativa attuale degli stranieri e degli italiani nel 2013, rapportandola anche ai dati relativi al 2007, ultimo anno positivo prima dell’ingresso nel tunnel della crisi. «La crisi ha inciso profondamente sugli indici occupazionali dei lavoratori nel nostro Paese – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione Leone Moressa -. A rimetterci maggiormente sono stati gli immigrati, in quanto prevalentemente occupati nei settori più esposti alla crisi. Tra gli effetti di questa difficoltà troviamo la crescita dei contratti a tempo determinato e l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Tuttavia, i cittadini stranieri dimostrano una adattabilità maggiore rispetto agli italiani, come conferma la disponibilità a lavorare negli orari più scomodi».

Gli indicatori ci dicono prima di tutto che il tasso di occupazione degli immigrati è molto più alto rispetto a quello degli italiani (57,1 contro 41,8%). Questo fatto però si spiega facilmente se si pensa che si tratta di soggetti mediamente più giovani rispetto alla popolazione autoctona (dove c’è un’elevata componente di pensionati) e che per rinnovare il permesso di soggiorno devono dimostrare di avere un lavoro. Dal 2007 a oggi però la crisi ha colpito più duramente gli immigrati: infatti per loro il tasso di disoccupazione è peggiorato di 9 punti, mentre “soltanto” di 5,6 per gli italiani.E se è vero che oltre un occupato su dieci oggi è straniero (quando nel 2007 erano circa il 6%) è anche vero che dall’inizio della crisi è raddoppiata la percentuale di immigrati assunti con un contratto a tempo determinato (sono il 13% dei lavoratori stranieri, sei punti in più rispetto al 2007, contro il 9,5% degli italiani) ed è ferma al 13% la quota di chi riesce a mantenersi cimentandosi in un’attività autonoma o da collaboratore.

L’obiettivo “permesso di soggiorno” spiega anche la maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare i lavori meno qualificati, ma soprattutto posti con minori tutele, orari disagevoli e retribuzioni sotto la media. Elaborando le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat, la ricerca di Fondazione Moressa mette in luce la forte presenza di stranieri in imprese piccole e medie, ossia in realtà dove non trova applicazione l’articolo 18: tra i dipendenti nel settore privato quelli che possono ricorrere alla protezione dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa sono solo meno di un terzo tra gli stranieri (contro una media complessiva del 55%).

Quanto al maggior grado di adattabilità, lo si evince dalla percentuale di immigrati che accettano di lavorare in orari asociali, nei fine settimana, di sera o di notte: il 53% (contro il 46,6% tra gli italiani), un dato peraltro in aumento su entrambi i segmenti di lavoratori e chiaro sintomo della crisi in atto. Anche sulla busta paga lo straniero è disponibile a fare più di un passo indietro: al mese la media si aggira sui 960 euro contro i 1.250 di un lavoratore italiano, circa un quarto di differenza. Una volta arrivato in Italia, comunque, chi viene da un Paese straniero non sembra trovarsi poi tanto male: pur di avere un impiego, quasi un disoccupato italiano su tre sarebbe disposto a trasferirsi in un’altra città nella penisola (17%) o all’estero (13%). Invece, tra gli stranieri, meno del 20% si muoverebbe di nuovo per un’altra destinazione in Italia (10%) o all’estero (8,5 per cento).

Il lavoro che verrà

Il lavoro che verrà

Ettore Livini – La Repubblica

Banchiere del tempo. No, meglio nanomedico. Oppure, per amor di natura, agricoltore verticale. C’era una volta l’Italia dove i bambini sognavano di fare i calciatori, le ballerine o i pompieri. C’era una volta perché oggi quell’Italia e quel mondo non ci sono più. La rivoluzione digitale sta cambiando i lavori del futuro a ritmi più rapidi di un corso di laurea. Azzeccare quello giusto (nanomedici & C. sono scommesse del think-tank Fastfuture) è impresa da Mago Otelma. «Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo», riassume Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la più importante banca dati dei laureati in Italia, consultata da enti ed imprese. A guidare il cambiamento – più che medici o avvocati – sono algoritmi, formule fisiche e nuvole informatiche. E l’America, locomotiva globale dell’hi-tech, ha deciso di giocare tutte le sue carte sui campioni dello Stem – l’acronimo sta per science, technology, engineering e math – le facoltà tecnico-scientifiche su cui la Casa Bianca ha concentrato i piani di incentivazione allo studio (con 2,6 miliardi di investimenti solo nel 2014) e dove le iscrizioni negli ultimi anni sono cresciute del 48%. Fabbriche di lavoro certo e ben remunerato, promette l’amministrazione Usa. Ma soprattutto il volano educativo grazie a cui gli States contano di mantenere la loro leadership tecnologica nei prossimi decenni.

L’era degli Stem
Le classifiche, in questo caso, rischiano di sviare. Buona parte delle professioni che creeranno più posti da oggi al 2022 – per l’invecchiamento e per la legge dei grandi numeri – sono legate alla salute. In testa alle graduatorie ufficiali del ministero del lavoro Usa ci sono gli infermieri per l’assistenza sanitaria a domicilio. Brillano pure fisioterapisti e consulenti genetici, esplode (+53%) la domanda per psicologi aziendali. E persino per i muratori (+43%), un omaggio alla concretezza della old economy , è previsto un inatteso revival. L’apparenza però inganna. E la scommessa della Casa Bianca guarda a un dato d’insieme ben più significativo: «Il 27% del totale dell’occupazione generata nei prossimi tre anni in America arriverà da discipline legate a scienza, tecnologia, ingegneria o matematica », come calcola una ricerca della Economic Modelling society. Competenze destinate a condizionare in modo pervasivo il lavoro di tutti, dagli infermieri in corsia fino ai carpentieri in cantiere. Il 47% dei posti di lavoro negli States – calcola una ricerca dell’Università di Oxford – è a rischio sostituzione con i computer. Cifra che in Europa (Fondazione Bruegel) sale al 50%. E la Stem-generation sarà il carburante che darà un colpo d’acceleratore decisivo per colmare questo gap. La rivoluzione è già iniziata e il boom delle iscrizioni è solo la punta dell’iceberg: i laureati tecnico-scientifici trovano lavoro in metà tempo rispetto agli studenti di altre discipline e guadagnano da subito in media 65mila dollari l’anno contro i 49mila degli altri corsi per il National Center for education statistics. Il tasso di crescita dell’occupazione nei loro settori è al 17% contro la media nazionale del 9,8%. L’80% dei laureati (dati Pew Research) dice di trovare lavori legati a filo doppio al corso di studi. E uno studente straniero su tre che sceglie di iscriversi a un corso di laurea Usa – grazie ai piani di attrazione di cervelli del governo – finisce inevitabilmente per occuparsi di scienza, tecnologia, ingegneria o matematica.

L’esperienza italiana
L’Italia, su questo fronte, viaggia con il freno a mano tirato ma non fa eccezione. I dati dicono che dalle nostre parti, quanto a professioni con un futuro, vale ancora la regola dell’”usato sicuro”: nel 2013, a cinque anni dalla laurea il 96,7% dei medici (dati Almalaurea) aveva un posto, come il 91,9% degli ingegneri e il 91% dei diplomati in economia. Classici del genere. Scontati come l’elenco delle Cenerentole: nella zona bassa della classifica arrancano geo-biologi e reduci da facoltà letterarie. Soldi e occupazione, visto che piove sempre sul bagnato, vanno a braccetto: un lustro dopo la tesi, un ingegnere guadagna 1.708 euro netti al mese in media, un medico 1.646 mentre chi ha in curriculum un cursus honorum umanista si deve accontentare di mille euro. I piccoli germogli Stem nel nostro Paese – dove resistono le molte baronie a prova di tecnologie e dove la disoccupazione giovanile è al 44% – si stanno però già confermando come promettenti fabbriche di lavoro. «Noi siamo in piena occupazione a un anno dalla laurea – assicura Marco Taisch, delegato del Rettore al Politecnico di Milano per il placement – Succede anche in settori come la computer science che sembravano passati di moda». Lo stesso vale per il Politecnico di Torino e per i corsi ad alto contenuto innovativo che stanno iniziando a spuntare lungo tutta la penisola.

Tra conoscenze e competenze
Il boom degli Stem e l’addio a postini, centralinisti, agricoltori e stenografi – le professioni a rischio estinzione per l’Us Labour of statistics – non significa in assoluto il trionfo dell’hi-tech e dei guru di Silicon Valley. Qualche Cassandra fuori dal coro sostiene che la spinta dell’amministrazione Obama sugli Stem rischia di inondare il mercato del lavoro di troppa offerta da qua a pochi anni. Molti economisti e accademici puntano invece il dito contro l’eccesso di specializzazione cui si sta arrivando. «Il problema – dice persino un neo-keynesiano come il Nobel Ned Phelps – è non aumentare indefinitivamente i laureati in discipline scientifiche». Padroneggiare algoritmi e data-flow non è tutto. Anzi. In un mondo dove le tecnologie nascono e muoiono alla velocità della luce «la tecnica va puntellata con le soft skills umanistiche e figlie di storia, filosofia e letteratura necessarie a sviluppare lo spirito critico e di iniziativa necessari per gestire il cambiamento», aggiunge l’economista. «Oltre alle conoscenze, oggi servono le competenze», ammette anche Cammelli. Capacità di far gruppo, di avere la mente aperta alla formazione continua e al cambiamento. Più che una virtù, una necessità. La generazione Erasmus sa benissimo che il lavoro del futuro, per sfuggire all’etichetta facile di “bamboccioni” un po’ “choosy” (copyright Elsa Fornero), devi inseguirlo all’estero o nelle aree dove si fa davvero innovazione. Londra ha importato un milione di abitanti in dieci anni. Il 50% del business alla Silicon Valley è generato da gente che non è nata e cresciuta lì. Ben 94mila giovani italiani – il doppio dell’anno precedente – ha lasciato nel 2013 il Belpaese per cercare un posto oltrefrontiera. Le università hi-tech si sono già adeguate. Inserendo accanto alle lezioni 100% Stem più tesine e lavori di gruppo per sviluppare i soft skills degli studenti. E potenziando i master dove ormai il 50% dei partecipanti sono persone che già lavorano e devono aggiornare conoscenze scientifiche invecchiate nel giro di una breve stagione. La realtà, oggi, obbliga a un sano esercizio di pragmatismo. Altro che fantasticare di fare i calciatori o i pompieri. L’unico sogno consentito ancora oggi, a non voler davvero tenere i piedi per terra, è quello di fare gli astronauti. Il decollo dei voli orbitali privati – altra disciplina molto Stem – è già una realtà, assicura il dipartimento al lavoro Usa. Il lavoro c’è. Basta cercarlo nello spazio.

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Non è una buona idea per Matteo Renzi entrare in polemica con Jean-Claude Juncker, particolarmente ora che il Presidente della Commissione europea è in difficoltà per antichi (più che  vecchi) trascorsi lussemburghesi. Per molti aspetti, Juncker è un suo alleato: intendono ambedue far uscire l’Europa dal rischio di deflazione. Hanno anche aspetti personali simili: vengono ambedue da origini familiari molto semplici – in Italia pochi sanno che il padre di Juncker era un operaio dell’industria siderurgica. A differenza di Renzi, Juncker è stato uno studente da 30 e lode in tutte le materie e ha esercitato la professione forense con successo prima di entrare, a 26 anni, in politica attiva. Lo stesso Presidente della Commissione europea ha detto che le “tecnostrutture” hanno espresso pareri molto più severi dell’esecutivo sulla bozza di Legge di stabilità dell’Italia.

In questo contesto, ci potrebbe essere qualcuno che “rema contro” per ragioni personali – ad esempio, un alto dirigente dei servizi della Commissione, ritenuto “prodiano di ferro” in quanto molto vicino al Professore di Bologna, amareggiato per non avere ottenuto il supporto politico sperato (e – dice – assicuratogli) per terminare la carriera in Italia alla guida dell’Ufficio parlamentare di Bilancio.

Tuttavia, non è tanto questione di ripicche quanto di sostanza. Tra Roma e Bruxelles ci sono differenze sostanziali di punti di vista. In primo luogo – ed è questo il punto fondamentale – è in corso un “dibattito segreto” (mentre dovrebbe esserlo alla luce del sole) su cosa debba considerarsi “equilibrio strutturale di bilancio”, oppure in altri termini il differenziale tra output potenziale ed effettivo. È il parametro essenziale per valutare il disavanzo di bilancio “accettabile” o meno così come la solidità delle coperture.

Prima della crisi, ossia verso il 2007, Commissione europea, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Ocse e Banca centrale europea pubblicarono lavori differenti secondo cui l’output potenziale si poneva, per l’Italia, su una crescita del Pil dell’1,3% l’anno (rispetto al 2,5% della prima metà degli anni Ottanta), a ragione dell’invecchiamento della popolazione e dell’obsolescenza dell’apparato produttivo. Ora non è chiaro quale è l’output potenziale stimato dalla Commissione europea per l’Italia. In questi anni, al contrario, ci sono stati vari dibattiti sui “moltiplicatori” di spese (e di aumento della pressione fiscale) ma da Bruxelles non si è avuta un’indicazione chiara né sul metodo, né sul merito.

Ad esempio, i dati utilizzati a Bruxelles a supporto delle stime sulla finanza pubblica italiana attribuiscono alle ore di Cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali e per implicazione imponendo politiche meno espansive di quanto, anche a mio avviso, sarebbero auspicabili. Il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze dovrebbero chiedere un chiarimento, e se del caso un dibattito, in proposito.

In secondo luogo, però, ci sono aspetti rispetto ai quali l’Italia pare fare “la politica dello struzzo”, ossia nascondere la testa sotto la sabbia. Queste le principali:

1) Il debito. Viaggia verso il 137% del Pil ed è senza dubbio uno dei maggiori freni alla crescita. Non mancano proposte per ridurlo senza aumentare la già elevata tassazione patrimoniale: il delendo Cnel le ha messe a confronto in una conferenza da cui è stato prodotto un E-Book Astrid, “L’Italia c’è”, e altri gruppi hanno formulato altre proposte. Non si è fatto nulla. E quasi nulla in materia di privatizzazione: l’unica portata a termine è quella dell’Unuci (l’ente per le attività divulgative degli ufficiali in congedo), argomento di grande ilarità a Bruxelles.

2) Forti perplessità poi per la “stabilizzazione” dei precari e l’assunzione di 80.000 insegnanti. Non solo i dati Unesco affermano che siamo, a tutti i livelli della piramide scolastica, il Paese con il rapporto più generoso tra allievi e docenti, ma un’operazione analoga, nel 1972, per stabilizzare gli universitari ha distrutto numerosi atenei italiani. Nessuno ancora sa dove si troveranno i 3 miliardi l’anno necessari.

3) Insidiosa la decontribuzione dei nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato. Date l’entità dello sgravio (riduce di un terzo il costo del lavoro) e la sua temporaneità (solo 2015) è probabile – come ha scritto Tito Boeri – che ci sia un forte effetto di sostituzione sia con posti di lavoro già esistenti che nel corso del tempo. “La manovra – afferma Boeri – può comportare veri e propri caroselli”. Dal punto di vista europeo, viene considerata un “aiuto di Stato” visto che è discriminatoria. Si poteva giungere allo stesso obiettivo con una riforma dell’Irap o un “tax credit”.

4) Il Tfr in busta paga – si pensa a Bruxelles – comporta un aggravio tributario e una riduzione della futura pensione. Quindi le stime di quanti opteranno per questa strada, e del pertinente gettito fiscale (2,5 miliardi), sono illusorie. Al pari di altre stime di aumenti delle entrate.

5) La spesa complessiva di parte corrente aumenta di circa 20 miliardi a ragione non solo dei bonus di 80 euro ma anche di tanti rivoli particolaristici (sussidi a questo e a quello che, secondo le direttive europee, dovrebbero essere oggetto di norme specifiche non della Legge di stabilità).

Queste non sono che alcune divergenze tecniche di fondo tra Roma e Bruxelles. A “La Morte Subite”, la birreria di Bruxelles dove in queste fredde e umide serate di inverno si riuniscono funzionari e dirigenti dell’apparato europeo, ci si chiede se l’Italia non avrebbe fatto meglio a seguire la Francia: presentare una Legge di stabilità con un disavanzo pari al 5% del Pil unitamente a un drastico programma di privatizzazioni per ridurre il debito e insistere.