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La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Come può essere definita una pubblica amministrazione che non è in grado di gestire l’attuazione delle sue riforme organizzative più recenti adottate per favorire la modernizzazione dei propri processi operativi? Probabilmente come una organizzazione già fallita nella sua capacità di restare agganciata alla modernità, come un soggetto sopravvissuto al suo passato quindi una sorta di armadillo o di ippopotamo della peggiore burocrazia, bloccata dai cavilli prodotti dalla sua incapacità di gestire i bisogni dell’oggi.

Il business case, tanto caro a coloro che si formano nei corsi di Mba anglofoni, offerto dall’Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, è, da questo punto di vista, esemplare. Un caso vivente, quindi studiabile nella sua attualità comportamentale, di cosa significhi per una grande economia del pianeta avere una pubblica amministrazione inadeguata. Inventata, addirittura per dl nel giugno del 2012 dal governo emergenziale di Mario Monti, da quando è nata non ha prodotto praticamente nulla, come certificato dalla stessa Corte dei conti. Anche se, in tempi di sempre annunciata spending review, l’Agid costa ai contribuenti: la spesa pubblica corrente per mantenere un organico di 130 persone è di circa 10 mln di euro.

Ma c’è qualcosa di specifico che rende assolutamente paradossale la situazione. Neppure il governo in carica riesce a mandare a regime il Comitato di indirizzo, perché lo statuto dell’Agid non è intellegibile. Figlio di un processo di produzione di leggi e regolamenti sfuggito a ogni controllo di razionalità e di competenza, adesso gli uffici tecnici di Palazzo Chigi non sanno cosa fare con questa frase: «Dai membri del Tavolo permanente per l’innovazione e l’Agenda digitale italiana». Non è chiaro che cosa si intenda e sono possibili tre interpretazioni: a) ci devono essere in tutto due rappresentanti designati dalla Conferenza unificata e dai membri del Tavolo; b) devono essere due rappresentanti più due; c) ci devono essere tutti i membri del Tavolo (una decina). Discussioni di cavilli, si dirà e quindi non così importanti. Ma non essere in grado di mandare a regime una struttura che dovrebbe occuparsi della modernizzazione della Pa certifica, quasi senza ulteriori commenti, la irriformabilità della stessa macchina pubblica. L’immagine della rottamazione che si interrompe perché cioè che andrebbe rottamato lo è già.

La morale è che le riforme della burocrazia italica, anche quando partono con le migliori intenzioni, producono solo dei mostri. Dei pericolosi carrozzoni che affondano la già scarsa competitività e fanno fuggire il miglior capitale umano e gli investitori. Carrozzoni digitali.

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Con una mano dà e con l’altra prende. A pochi giorni dall’appuntamento con il pagamento dell’acconto della Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, coloro che hanno avuto il bonus da 80 euro stanno facendo i conti del bluff. Il bonus se ne andrà in fumo quasi tutto. E una volta pagata la prima rata dell’imposta, nemmeno il tempo di riprendere fiato che ecco arriva la legge di Stabilità. Difficile quindi parlare di rilancio dei consumi quando in tasca di chi ha dovuto spendere gran parte degli 80 euro in tasse. I beneficiari del bonus, lo ricordiamo, non sono in una situazione reddituale privilegiata. Il requisito per accedere alla «paghetta» elargita dal premier Renzi, era di percepire un reddito annuo lordo inferiore ai 25.000 euro. Il bonus è scattato con lo stipendio di maggio. Quindi per fine anno chi è stato «beneficiato» da questo «regalo» avrà percepito circa 640 euro.

Il costo medio della Tasi, secondo i calcoli del centro studi della Uil, ammonta a una media di circa 148 euro (74 euro da versare con l’acconto). Ma se si prendono a riferimento le sole città capoluogo l’importo sale a 191 euro medi (96 euro per l’acconto), con punte di 429, un conto più salato dell’Imu in un caso su due. Pertanto circa due terzi del bonus di 80 euro viene assorbito dall’imposta. A questi record si è arrivati perché la media dell’aliquota applicata dai 105 capoluoghi di provincia è pari al 2,63 per mille (superiore all’aliquota massima ordinaria), anche se «ammorbidita» dalle varie detrazioni introdotte dai relativi Comuni. Ci sono almeno 100mila combinazioni diverse di detrazioni ma se la fantasia è soddisfatta non lo è il portafoglio. Giacchè anche a fronte delle detrazioni il salasso rimane. Secondo la simulazione a Roma si pagheranno 391 euro medi, a Firenze 346 euro, a Bari 338 euro, a Foggia 326 euro, a Como 321 euro, a Trieste 309 euro, a Milano 300 euro, a Monza 299 euro e a Pisa 287 euro. Se all’imposta sui servizi poi si aggiungono la Tari (la tassa sui rifiuti) e le addizionali comunali, il bonus non basta più. Facciamo un esempio. Nel caso di un’abitazione di tipo economico A3 (che è di minor pregio), a Roma, tra Tasi, Tari e l’addizionale comunale Irpef, si pagano circa 1.100 euro. La Capitale si colloca al primo posto nella classifica delle città più tassate. Seguono Bari, con 1.079 euro, Napoli con 1.000 euro e Genova, con 961 euro.

Spulciando le delibere approvate dai principali Comuni capoluogo di Regione in materia di Tari, Tasi e addizionale comunale Irpef è emerso che, in quasi tutte le città, l’addizionale comunale ha raggiunto l’aliquota massima dello 0,8% (Roma applica addirittura lo 0,9%). Solo quattro amministrazioni hanno applicato una aliquota inferiore: Bologna (0,7%), L’Aquila (0,6), Aosta (0,3%) e Firenze (0,2%). Nel caso della Tasi in 9 casi stato applicato il valore massimo consentito per le abitazioni principali: 3,3%. La Tari, invece, colpisce soprattutto al Sud. Nonostante il servizio di raccolta dei rifiuti erogato nelle grandi città del Mezzogiorno non sia sempre «impeccabile», per un’abitazione di tipo civile A2, una famiglia di 3 persone residente a Cagliari paga quest’anno 653 euro. A Napoli 522 euro e a Palermo 497 euro. Quindi in questi casi tutto il bonus basta solo a coprire la tassa sui rifiuti.

Se è vero che il costo della Tasi sarà complessivamente leggermente più basso della vecchia Imu, è anche vero che la distribuzione della nuova tassa è meno equa: pagherà di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate. Questo vuol dire che sono penalizzati proprio coloro che hanno ricevuto il bonus. L’imposta quindi non è stata concepita con una gradualità tale da favorire i proprietari di immobili di categoria medio bassa. Oltre il danno anche la beffa di vedersi prelevati dal fisco gli 80 euro. Dalle simulazioni fatte dalla Uil emerge che per 1 famiglia su 2 il costo della Tasi sarà maggiore dell’Imu nel 2012. La conclusione è che nel 2014 con la Tasi la pressione fiscale delle famiglie, rispetto al 2013, aumenterà. Gli 80 euro serviranno soltanto ad attenuare la stangata ma non saranno certo soldi che il contribuente potrà destinare ai consumi. Pagate queste imposte, in tasca rimane ben poco o nulla degli 80 euro. In queste condizioni i contribuenti dovranno affrontare l’appuntamento con la legge di Stabilità. Renzi promete che non ci saranno nuove imposte ma aveva anche promesso che il bonus sarebbe servito a rilanciare i consumi.

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Andrea Bassi e Luca Cifoni – Il Messaggero

Il dato, quasi paradossale, lo ha certificato ieri l’Istat. Il bonus da 80 euro, per la metà, ha favorito i redditi medio-alti. Come questo sia stato possibile è semplice da spiegare. In Italia non esiste il reddito familiare. Così se in uno stesso nucleo ci sono due persone che guadagnano meno di 26 mila euro, entrambi hanno diritto al bonus, dal quale, invece, sono stati del tutto esclusi gli incapienti (chi dichiara meno di 8 mila) e le famiglie monoreddito sopra i 26 mila euro. Per mettere una toppa, seppur parziale, alla seconda di queste storture, il governo nella legge di Stabilità destinerà 500 milioni di euro agli sgravi per le famiglie numerose. Allo studio ci sarebbe un doppio meccanismo, legato anche ad una possibile rivisitazione del funzionamento del bonus da 80 euro. La prima possibilità sarebbe quella di far aumentare la soglia di reddito che dà diritto al bonus nel caso di famiglie monoreddito con minori a carico. Con due figli, per esempio, la soglia passerebbe da 26 mila a 30 mila euro, per salire a 40/42 mila euro con tre figli e a 50/55 mila euro con quattro figli. La seconda ipotesi, invece, si baserebbe su un aumento delle detrazioni per i figli a carico, attualmente 950 euro per figlio che salgono a 1.220 euro sotto i tre anni. In questo caso, tuttavia, sarebbe lo stesso bonus da 80 euro a cambiare fisionomia, diventando esso stesso una detrazione invece che, come è nella struttura attuale, un credito d’imposta. In questo modo si avrebbe anche un effetto collaterale di non poco conto, ossia una riduzione nominale della pressione fiscale.

Il meccanismo
La prima misura destinata alle imprese è invece l’azzeramento dei contributi in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato. Viene così riproposto, ma in una forma più potente e generale, il meccanismo già messo in campo alla metà dell’anno scorso dal governo Letta, che però non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. In quel caso l’esenzione dal versamento dei contributi (pari al 33 per cento della retribuzione) riguardava per un periodo di 18 mesi le nuove assunzioni di giovani fino a 29 anni, mentre il beneficio era limitato a 12 mesi nel caso di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. La dote finanziaria era di 794 milioni, su più anni, che avrebbero dovuto garantire 100 mila nuovi posti di lavoro. In realtà l’incentivo ha fatto scattare solo 22 mila ingressi nel mondo del lavoro, ed è stato recentemente definanziato con il decreto sblocca-Italia, per garantire copertura alla Cig in deroga. Lo schema di Renzi, che dovrebbe accompagnare il debutto del nuovo contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act, prevede invece che la decontribuzione, per un periodo di tre anni, riguardi qualsiasi nuova assunzione. Se le risorse messe sul tavolo si aggirano sul miliardo e mezzo in tre anni, allora le assunzioni agevolate dovrebbero riguardare un numero maggiore di persone. Ovviamente la propensione delle imprese ad ampliare il personale sarà condizionata anche dall’andamento del ciclo economico.

Deducibilità piena
Tocca il costo del lavoro, in modo sostanzioso, anche la nuova riduzione dell’Irap annunciata dal presidente del Consiglio. Oggi le retribuzioni dei dipendenti entrano nella base imponibile del tributo: come ha ricordato lo stesso Renzi è una caratteristica che lo rende particolarmente inviso agli imprenditori, perché comporta l’obbligo di un versamento anche quando la crisi azzera gli utili. Dal 2015 questa voce dovrebbe essere interamente dedotta, con un beneficio per le imprese quantificato in 6,5 miliardi (molto più di quanto ipotizzato finora). Resta però da capire come la novità si combinerà con l’attuale deduzione dell’Irap costo del lavoro ai fini Ires, ed eventualmente con il taglio dell’aliquota (dal 3,9 al 3,5 per cento) avviato con il decreto dello scorso aprile.

Renzi alla conquista delle imprese

Renzi alla conquista delle imprese

Stefano Menichini – Europa

Dalle tartine confindustriali Matteo Renzi si tiene lontano, ma ormai è chiaro chi siano i veri referenti dello sforzo comunicativo nel quale impegna se stesso in persona. Da settimane il premier batte gli stabilimenti industriali, quelli afflitti dalla crisi e quelli salvati da oculate scelte di nicchia, quelli enormi come la Fiat Chrysler e quelli più piccoli in Puglia o nel Bergamasco. Dopo la prova di forza sull’articolo 18, le contestazioni dirette organizzate dalla Fiom hanno preso il posto delle proteste legate a situazioni locali. Ma Renzi non si fa dissuadere, la campagna continua e agli operai si rivolge in maniera indiretta, attraverso i loro datori di lavoro: sono loro, gli imprenditori piccoli, medi e grandi, il target del tour renziano. E del resto sono loro, messa in sicurezza l’operazione 80 euro, i destinatari delle misure della legge di stabilità e del decreto sblocca-Italia. E, di nuovo, sono loro – con artigiani, commercianti, professionisti – il bacino elettorale fin qui irraggiungibile per la sinistra nel quale il Pd sta crescendo negli ultimi mesi secondo le ricerche più aggiornate.

Le anticipazioni sulla legge di stabilità fornite ieri a Bergamo faranno discutere per tre motivi. Perché le cifre sono ingenti, 30 miliardi di euro di manovra ma con ben 18 miliardi di tagli di tasse rispetto allo scorso anno: dove saranno reperite le risorse? Poi perché il testo è in realtà lontano dall’essere completato, ancora oggetto del consueto andirivieni tra palazzo Chigi e ministero dell’economia. Infine, perché le indicazioni di Renzi appaiono decisamente pro-business, orientate a soddisfare antiche e recenti richieste delle imprese (innanzi tutto sul taglio dell’Irap per la parte legata al lavoro) in cambio dello sblocco delle assunzioni, con l’obiettivo di muovere un mercato molto più fermo di quanto il governo sperasse ancora agli inizi dell’estate. Tre anni di totale decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato causeranno uno stress alle casse previdenziali: è lo shock che Renzi ritiene necessario, misure più blande non hanno sortito effetti. Il menu delle misure è condito dalle spezie anti-establishment e anti-burocrazia: imprenditori veri quelli che danno il buon esempio, non quelli che partecipano ai seminari; le opere di manutenzione del territorio che danno più lavoro agli avvocati che ai manovali (come a Genova). È il preannuncio di nuovi tormentoni utili a far passare il messaggio. Il Jobs Act pare già alle spalle, come cosa fatta.

Coraggio, tagli senza illusioni

Coraggio, tagli senza illusioni

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco.

Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini.

Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso.

Imprenditorialità: Italia ultima nella classifica europea elaborata da ImpresaLavoro su dati 2013 del Global Entrepreneurship Monitor (GEM)

Imprenditorialità: Italia ultima nella classifica europea elaborata da ImpresaLavoro su dati 2013 del Global Entrepreneurship Monitor (GEM)

NOTA

L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale. L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a Centro Studi “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” che analizza lo stato dell’imprenditorialità nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.
Ecco di seguito la situazione italiana nel contesto europeo misurata sulla base di alcuni dei 19 indicatori misurati da GEM.
PERCENTUALE NUOVI IMPRENDITORI
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, vale a dire che sono coinvolti nella fondazione di un nuove imprese dei quali saranno proprietari o co-proprietari; i titolari di queste imprese non pagano salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (al 10esimo posto col 5,5%), Portogallo (al 14esimo posto col 4,2%), Gran Bretagna (al 16esimo posto col 3,6%), Grecia (al 17esimo posto col 3,3%), Germania (al 19esimo posto col 3,1%), Spagna (al 20esimo posto col 3,1%) e Francia (al 22esimo posto col 2,7%).
INTENZIONE DI FARE IMPRESA
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni (esclusi gli individui coinvolti in qualsiasi fase di un’attività imprenditoriale) che intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 15esimo posto della classifica europea col 9,8%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Grecia (al 18esimo posto coll’8,8%), Spagna (al 19esimo posto coll’8,4%), Gran Bretagna (al 22esimo posto col 7,2%) e Germania (al 23esimo posto col 6,8%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (all’11esimo posto con 13,2%) nonché Francia e Irlanda (entrambe al 12esimo posto col 12,6%).
OPPORTUNITA’ PERCEPITE
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 19esimo posto della classifica europea col 17%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Gran Bretagna (al quinto posto col 36%), Germania (al nono posto col 31%), Irlanda (al 12esimo posto col 28%) e Francia (al 15esimo posto col 23%) e Portogallo (al 16esimo posto col 20%). Peggio dell’Italia sono riusciti a fare solo Spagna (al 22esimo posto col 16%) e Grecia (al 23esimo posto col 14%).
ASPETTATIVE DI CRESCITA
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nei prossimo 5 anni. Nel 2013 il nostro Paese si colloca al 22esimo posto della classifica europea col 12%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Irlanda (al quinto posto col 35%), Portogallo (al 12esimo posto col 27%), Gran Bretagna (al 13esimo posto col 24%), Germania (al 14esimo posto col 22%), Francia (al 17esimo posto col 21%) e Spagna (al 20esimo posto col 15%). Peggio dell’Italia fa solo la Grecia, collocandosi al 23esimo posto coll’8%.
TASSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che dichiarano che almeno il 25% dei clienti viene da un Paese estero. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato, a pari merito con la Gran Bretagna, al 15esimo posto della classifica europea col 17%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Germania (al 18esimo posto col 15%), Grecia (al 21esimo posto col 13%) e Spagna (al 23esimo posto col 9%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (al quinto posto col 30%) e Francia (al 14esimo posto col 19%).
«L’elaborazione degli indicatori relativi allo stato dell’imprenditoria in Italia ci consegnano un quadro abbastanza chiaro» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo. L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole: questo indice ci dice con chiarezza che per rimettere in moto il paese occorre rimettere in moto il nostro tessuto imprenditoriale».

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Rassegna Stampa:
Libero
Metronews
Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Renato Brunetta – Il Giornale

Chissà perché le stesse agenzie di rating che nell’estate-autunno del 2011 erano tanto loquaci, anche oltre il lecito, visto che presso la procura di Trani è in corso una serissima indagine sui loro comportamenti, oggi tacciono? Lo scorso venerdì né Moody’s né Standard & Poor’s hanno aggiornato il loro giudizio sull’Italia. Non hanno nulla da dire o c’è dietro altro? Per Moody’s l’ultimo rating emesso è del 14 febbraio, proprio il giorno delle dimissioni del governo Letta, poi il calendario non è stato più rispettato: nessun aggiornamento il 13 giugno e nessun aggiornamento neanche il 10 ottobre. Che strano: Moody’s non si pronuncia più sull’Italia da quando c’è il governo Renzi. O in questi mesi il giudizio è cambiato talmente poco da essere irrilevante (il che vuol dire che anche l’azione di questi mesi del governo ha prodotto effetti minimi, addirittura impercettibili), oppure il giudizio è talmente grave che renderlo pubblico destabilizzerebbe non solo l’Italia, ma l’intera area dell’euro. In entrambi i casi siamo davanti a una manipolazione del mercato bella e buona, come fu manipolazione, nel senso diametralmente opposto a quello attuale, appena esposto, quella del 2011. Manipolazione che, in quel caso, portò alla caduta di un governo legittimamente eletto dal popolo, e a comportamenti speculativi i cui effetti devastanti hanno messo in ginocchio l’Europa. Ma di questo ci darà conto il tribunale di Trani. Certo, la coincidenza dell’inizio del silenzio da parte delle agenzie di rating con l’insediamento del governo Renzi desta più di qualche dubbio.

Tempesta perfetta in arrivo?
Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario della Fed. L’acquisto di titoli di Stato italiani è stata una strategia ragionevole: sono titoli meno rischiosi e con un rendimento conveniente. La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed. Con meno soldi in circolazione le scelte dei gestori saranno più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno quelli italiani se per allora il nostro Paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento.Tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015. A ciò si aggiunga che poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Ne deriva che, aumentando l’offerta di titoli sul mercato, diminuirà il prezzo e aumenteranno i rendimenti (le due grandezze sono inversamente proporzionali). Con le conseguenze che tutti conosciamo sugli spread. Se la tempesta perfetta arriva, spazza via tutto. E tutti.

È credibile la finanza pubblica?
Il documento più recente ufficiale del governo è la Nota di aggiornamento al Def, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre, che rappresenta una completa riscrittura del precedente documento di aprile, dimostrazione evidente del fallimento della linea di politica economica fin qui seguita da Matteo Renzi. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dal bonus di 80 euro; errati i presupposti analitici su cui quella politica si è fondata. A dimostrazione di questo assunto basta considerare lo scarto nella previsione di crescita del Pil (dal +0,8% di aprile al -0,3% di settembre): 1,1 punti di Pil di differenza. Scarto che supera di gran lunga tutta l’esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo (basso) implicito nell’ultima previsione di -0,3%. A giustificare un simile scarto previsionale, in corso d’anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: -2,4% nel 2012, -1,9% nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del Pil italiano bisogna risalire al 2010 (+1,3%) e al 2011 (+0,4%), quando il governo del paese era affidato a un’altra maggioranza.

Secondo i dati dell’Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell’eurozona nel 2013 è stato del 4% superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell’obiettivo, e in termini reali la perdita di Pil resta ancora superiore ai 9 punti. Nelle previsioni per il 2015, inoltre, il nuovo Def ipotizza una crescita del Pil pari allo 0,6%. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di Pil passando da -0,3%, nel 2014, a +0,7% nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l’effetto di trascinamento della brusca caduta dell’anno precedente.

Nella logica del documento del governo, infine, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l’impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2% in tre anni. Spiccioli. L’effetto lordo delle riforme, infatti, è compensato dall’onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizza a un livello superiore al 44% del Pil. Ipotesi da scongiurare.

Un sentiero impervio
L’insieme di questi dati, al di là dell’eleganza formale dei ragionamenti del governo, dimostra quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Questi dati rappresentano perfettamente il “circolo vizioso” dell’economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l’economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un’altrettanta limitata “produttività totale dei fattori” allontana il nostro paese dal resto dell’eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti. Il governo stesso si è reso conto di questi pericoli allorquando ricorda “la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri”. Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l’intera azione del governo.

L’attuale quadro dei conti pubblici italiani appare, pertanto, venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il “dire” e il “fare”. Esso è reticente nell’individuare i veri punti che sono all’origine dello shock endogeno che persiste nell’economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. È il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del governo e lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti.

Si rende oggi quanto mai necessario, dunque, un più intenso dialogo intereuropeo al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano, fin troppo scialbo, l’occasione di un rilancio. Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipotesi che l’accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. Al contrario, occorre rafforzare la posizione negoziale dell’Italia per costringere anche gli altri, soprattutto la Germania, a fare la propria parte. Allo stato attuale, però, l’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni del governo appaiono agli occhi degli osservatori spesso fin troppo ottimistiche. L’esecutivo, infine, si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Dopo i governi non eletti, Monti e Letta, con Matteo Renzi l’Italia si trova al suo punto minimo di credibilità economica e democratica. Tutti questi fattori, deflagranti in caso di tempesta sui mercati, rendono l’Italia il paese più debole nel contesto europeo. Continuare a fare finta che non sia così è da irresponsabili.

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Daniele Manca – Corriere economia

Il mondo sta crescendo del 3 per cento all’anno. «Poco» ci viene detto dagli analisti del Fondo monetario internazionale, come pure dagli economisti in genere. Ma. a ben guardare, non siamo molto distanti dalla media alla quale il mondo cresceva agli inizi degli anni Ottanta e Novanta, come notava nei giorni scorsi il «Financial Times». Ma in quegli anni non avevamo ancora i postumi del mal di testa da grande crisi del 2008. E ci accontentavamo. Si sperava solo di crescere di più negli anni a seguire. Il mal di testa sembra impedire a governi, imprese e cittadini di reagire. Soprattutto in Europa. La Cina, che ha contribuito alla crescita mondiale per il 30%. nel 2014, si spera continui a correre a ritmi medi del 7,5% . L’America sta provando seriamente a fare la sua parte. Non è difficile capire di chi sia la colpa se, come riportato da Martin Wolf sempre sull’Ft, il 70% delle economie emergenti cresce nel 2014 a tassi più bassi della media pre-crisi. E se questo circolo di mancata contribuzione da parte dell’Unione europea allo sviluppo, e quindi di crescita meno forte delle economie emergenti, dovesse avvitarsi il futuro potrebbe davvero essere molto triste.

Inutile però sperare che la spinta arrivi da possibili allentamenti di patti o flessibilità più o meno risolutive. Possono aiutare sicuramente ma, fatto 100 la domanda nell’eurozona nel 2008, oggi siamo a quota 95. Gli Stati Uniti sono a 106. Analogo l’andamento del Pil. E allora la Bce può aiutare, Bruxelles anche, ma, se nei singoli Paesi non riparte la domanda interna, c’è poco da sognare. Ci si potrà accusare l’un altro, la Germania perché ha un surplus commerciale troppo alto, Francia e Italia perché in ritardo sulle riforme per aumentare produttività e competitività. Ma è necessario che ognuno faccia la sua parte. Noi la nostra. I cittadini aspettano solo questo. Le attività finanziarie delle famiglie erano a marzo pari a 3.858 miliardi di euro. Pari a quelle del periodo pre-crisi. Il segnale più evidente che stiamo risparmiando. Intimoriti sul futuro. Ma anche che, appena le condizioni dovessero mutare e potessimo tornare a investire, non saremo certo in difficoltà a farlo.