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Ogni anno di durata dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti di disoccupazione

Ogni anno di durata dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti di disoccupazione

NOTA

La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato in settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo l’FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario è infatti ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.
La lunghezza delle cause fino al secondo grado di giudizio (a livello nazionale la media è di 2 anni e 2 mesi) è stimata da “ImpresaLavoro” sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia e secondo le formule indicate dallo stesso dicastero. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, si sono considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari negli anni 2009-2012: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2013.
L’analisi di “ImpresaLavoro” mostra come ogni anno di lunghezza dei processi di lavoro costi in media ben 4,8 punti di disoccupazione. Il divario tra distretti più e meno virtuosi è ampio a tal punto che si va dai 9 mesi di Torino (con un tasso di disoccupazione dell’11,4%) ai 4 anni e 3 mesi di Messina (con il 21,9% di disoccupazione). A Trento, dove la disoccupazione è più bassa (6,6%) il tempo medio delle cause per lavoro è di 11 mesi, mentre a Napoli (che ha il 25,8% di disoccupazione) è di quasi 3 anni. È importante infine sottolineare che, secondo le ricerche di “ImpresaLavoro”, a incidere in modo così negativo sulla disoccupazione non sarebbe in modo generico la lunghezza dei processi civili nella loro interezza ma bensì, come del resto è comprensibile, in modo specifico proprio quella dei processi per i contenziosi in materia di lavoro.

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Rassegna Stampa:
Metronews
Lavorare costa

Lavorare costa

Ernesto Felli e Giovanni Tria – Il Foglio

Luca Ricolfi ha esposto con un articolo sulla Stampa (8 ottobre) una proposta per determinare un immediato aumento dell’occupazione senza costi per il bilancio dello stato. La proposta si basa sull’idea, fino a questo punto non nuova, che una riduzione sensibile del costo del lavoro, via detassazione fiscale o contributiva, avrebbe un impatto rilevante sulla propensione ad assumere. La parte nuova della proposta sta nel fatto che essa si basa su una ricerca quantitativa sulla reazione positiva delle imprese a un eventuale ribasso del costo del lavoro di nuovi assunti e sulle implicazioni di questa reazione sulla possibilità di finanziare, senza costi per il bilancio dello stato, la detassazione necessaria a provocare le nuove assunzioni.

La proposta, denominata job-Italia, si basa sul fatto che, in base alla ricerca menzionata., un’azienda disposta ad assumere per ipotesi 10 lavoratori addizionali a legislazione vigente ne assumerebbe il doppio qualora la busta paga, cioè la retribuzione netta percepita dal lavoratore, fosse non il 50 per cento del costo aziendale ma l’80 per cento. Secondo la proposta, questo 20 per cento aggiuntivo, rispetto al salario netto in busta paga, sarebbe destinato a pagare l’Irpef del lavoratore e parte dei contributi sociali. Lo stato dovrebbe coprire la parte restante dei contributi sociali affinché il lavoratore non abbia una minore copertura contributiva. I calcoli di Ricolfi sono che l’occupazione aggiuntiva produrrebbe un gettito addizionale di entrate che coprirebbe ampiamente il costo derivante dal minore gettito contributivo. Questo tipo di contratto si dovrebbe applicare, secondo la proposta, solo ai nuovi assunti che risultino addizionali rispetto al numero già occupato nell’impresa, per un periodo massimo di quattro anni e per salari netti tra i 10 e i 20 mila euro. Richiamiamo questo studio,sia perché interessante in sé, sia perché indica un metodo di lavoro. Ovviamente, se uno vuole, si possono avanzare tante possibili obiezioni, come quasi su ogni proposta. Se la reazione positiva delle imprese non fosse cosi ampia un costo vi sarebbe perché la detassazione contributiva opererebbe su assunzioni che si sarebbero in ogni caso verificate.

Forse è da approfondire cosa accadrebbe dopo i quattro anni. Ma è anche vero che qualcosa si deve fare. anche tenendo conto dei vincoli in cui si opera. La vera questione e uscire dai calcoli statici ragionieristici. Nel caso in questione si potrebbe determinare un deficit temporaneo o forse no, ma l’analisi si deve basare su una dinamica attesa. D’altra parte le previsioni ordinarie di bilancio e di crescita cui siamo abituati si rivelano ex post talmente divergenti dagli eventi che non ci sembra che non si possa affrontare il rischio insito in ogni previsione. Se fondata, quando si tratta di varare qualche provvedimento sensato. Ma vi è un aspetto della sua proposta che lo stesso Ricolfi non sottolinea abbastanza e che è importante per rispondere alla domanda sul cosa succede dopo i quattro anni, problema insito in ogni provvedimento temporaneo.

Aprire un’impresa o ampliarla è rischioso, ancora di più lo è con aspettative negative sull’economia. La proposta di Ricolfi è interessante, secondo noi, proprio perché entra nella categoria di provvedimenti tesi a ridurre il rischio e non a sostenere con aiuti l’impresa, Ciò giustifica il provvedimento limitato ai nuovi assunti per distinguerlo da quelli tesi a ridurre in generale il costo del lavoro. In fondo, più aumenta il numero di assunzioni più aumenta progressivamente il rischio per l’impresa che la decisione non si riveli fruttuosa in termini di risultati attesi. Quindi la tendenza è di attestarsi sul livello più basso possibile di occupazione. In questa categoria di provvedimenti, d’altra parte, entra anche l’abolizione dell’articolo 18, la cui ratio è, appunto, ridurre il rischio d’impresa, non ridurre il costo del lavoro o minacciare i diritti sul lavoro.

Il limite della proposta di Ricolfi
È intorno al concetto dinamico di rischio che si deve operare. Negli anni Ottanta, quando ci fu il grande dibattito negli Stati Uniti sul “productivity slowdown”, fu avanzata la proposta di ridurre le tasse sui profitti delle imprese che avessero aumentato la produttività. L’idea era che non si dovesse aiutare l’impresa decotta o in difficoltà a sopravvivere ma spingere le imprese a innovare e ad avere successo. Ma poiché solo ex post si può vedere chi è riuscito ad aumentare la produttività, la soluzione proposta era quella di non abbassare ex ante il rischio d’impresa ma di aumentare ex post il premio al rischio. La proposta di Ricolfi sul lavoro addizionale anche se agisce ex ante rappresenta già il premio a un’azione compiuta, quella di assumere nuovi lavoratori, ma perché non studiare un premio al rischio con una detassazione successiva, sui profitti, collegata al successo dell’impresa, cioè con il passaggio dal contratto job-Italia al contratto ordinario reso possibile, evidentemente, dall’aumento di produttività ottenuto nel frattempo?

Il sindacato non c’è più?

Il sindacato non c’è più?

Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica

No, non è stato solo l’articolo 18. Quello era il pretesto, il tabù da abbattere. Quello che è successo il 29 settembre 2014 alla direzione del Pd, è stato un evento epocale. Per la prima volta nella sua storia, il partito italiano della sinistra ha rotto con il sindacato, con la sua visione del mondo, il suo linguaggio, la sua burocrazia, il suo peso politico, la sua storia. Senza rispetto, senza dire grazie. Anzi, con uno sfogo liberatorio. Non ne possiamo più di voi; siete vecchi, malvestiti, non siete sexy. Nooo! Noi non siamo i vostri figli!

Era già da un po’ che quest’aria circolava. Oggi infatti, insieme al politico della casta, il sindacalista è la persona più disprezzata d’Italia. Quando il presidente del Consiglio – a capo del partito della sinistra; Berlusconi non avrebbe osato tanto – deforma in un messaggio video la voce della segretaria Cgil Susanna Camusso in un piagnucolante falsetto e attacca il sindacato definendolo il principale responsabile di un apartheid sul luogo di lavoro, ha voglia Camusso di prospettare, a mezza bocca, uno sciopero generale. Lei per prima sa che non avrebbe successo. Quando anche il comico liberal Maurizio Crozza scherza su Maurizio Landini (il segretario della irriducibile Fiom) e Camusso e li mostra mentre mobilitano gli iscritti telefonando con i gettoni dalle cabine telefoniche, sembra di sentire una campana a morto: il sindacato, dice lo sketch, è un fantasma del passato; vive ingenuamente in una «bolla spazio temporale sopravvissuta agli anni Settanta»; il futuro delle relazioni di lavoro è piuttosto Flavio Briatore, il boss, quello che in un programma tv su come avere successo negli affari, ti guarda in faccia e ti fa: «Sei fuori». E poi, c’è il popolo che non tollera i fannulloni. Il popolo del blog di Beppe Grillo, il popolo dei melomani che plaude al licenziamento collettivo dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma dopo la rinuncia del Maestro Riccardo Muti a dirigere Aida e Le nozze di Figaro. E poi c’è Sergio Marchionne, nella parte dell’imprenditore coraggioso, che si è trovato contro dei sindacati che volevano mettere becco con lui persino sulle pause per andare a fare la pipì alla catena di montaggio e che è dovuto emigrare in America.

A questo si era giunti, in Italia, nel 2014. Tutti dicevano che erano i sindacati, coi loro stupidi privilegi, a bloccare la speranza. Altro che i minatori gallesi! Altro che i controllori di volo americani! Altro che i ferrovieri inglesi che non volevano rinunciare alla pausa per il tè! No, qui in Italia si è andati oltre. I sindacati hanno distrutto l’Alitalia, difendono i ladri del bagaglio a Malpensa, fanno fuggire gli imprenditori con i loro diktat. Improvvisamente, sono diventati i responsabili di tutto; del precariato, della mancata innovazione, della rigidità del mercato del lavoro, della burocratizzazione della cosa pubblica, dell’assenza del merito, della fuga dei cervelli (94.121 giovani emigrati in un anno), dell’abulia della gioventù, del suicidio degli imprenditori, della crisi. Questa l’aria che tira. Vento forte, non c’è che dire, visto che è arrivato così tumultuosamente anche dentro il partito che era sempre stato l’unico alleato del sindacato.

Vien voglia, allora, di guardarla un po’ più dappresso, questa causa di tutti i mali. Prima di tutto: si dice sindacato o sindacati? Se si sceglie la dizione «sindacati», essi sono in Italia – a seconda delle stime – tra gli 800 e i 1.100; pare sia impossibile avere un censimento sicuro, visto che moltissimi sono sindacati registrati, ma composti di una sola o al massimo due o tre persone, per ottenere qualche beneicio legale. Nella scuola, per esempio, i sindacati sono ben 43, mentre 13 sono quelli dell’Enav, ovvero i controllori di volo. Alitalia e Meridiana schierano 13 sigle (a Ryanair, invece, il sindacato è di fatto vietato. Ehi! Vedi che si può volare senza sindacato!). I magistrati sono organizzati in 5 correnti sindacali, i dirigenti d’azienda hanno sindacati categoriali, provinciali, regionali, così come i prefetti. La Rai, con tredicimila dipendenti, sfoggia Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal, Usigrai, ma dirotta tutte le sue produzioni all’esterno, dove lavorano cooperative o altre entità ovviamente senza sindacato. I disoccupati di Napoli assommano 15 sigle, tutte piuttosto vivaci. In realtà praticamente tutti gli italiani (notai, taxisti, allevatori, guide alpine, vittime del racket) fanno parte di un sindacato alla ricerca di un tavolo di trattativa dove poter far valere le proprie ragioni. La Lega Nord ha fatto il suo sindacato, il Sinpa, sindacato della Lega Nord e la destra ha fatto l’Ugl, diventata nota perché la sua segretaria, Renata Polverini, stava sempre in televisione.

Poi, però, dato che siamo un Paese stravagante, esiste tutta un’altra Italia senza sindacati, ma altrettanto vivace. È l’Italia di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di tutto il lavoro nero, degli usurai, degli immigrati che mandano avanti l’agricoltura e l’edilizia, degli schiavi che raccolgono il pomodoro. Insomma, quello che si dice normalmente il sommerso, che vale circa il 20 per cento del Pil. Ma, in generale, quando si parla del «sindacato » si intendono le tre grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che hanno numeri da lasciare a bocca aperta. Tutte e tre insieme raggiungono quasi dodici milioni di iscritti. Di questi, però, quasi la metà sono pensionati organizzati in una propria federazione. (L’Italia qui è un’anomalia. In Francia e in Germania, per esempio, i pensionati continuano a essere membri del loro sindacato di origine). Dei ventidue milioni di lavoratori in attività, quindi, uno su quattro è iscritto ad una delle tre grandi confederazioni. Non solo, ma all’interno di quel venticinque per cento, in netta maggioranza sono i lavoratori assunti dallo Stato. Per quanto riguarda l’industria, Cgil, Cisl e Uil rappresentano solo le realtà con più di 15 addetti, circa il sessanta per cento del totale. (Ovvero, il 40 per cento dei lavoratori italiani non è mai stato tutelato Redall’articolo 18. Un referendum per estendere la tutela si svolse nel 2003, ma fallì clamorosamente il quorum).

Un altro calcolo interessante è poi quello del numero dei sindacalisti. Secondo Bruno Manghi, il grande sociologo del sindacato, ex dirigente della Cisl, i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil – ovvero le persone che dedicano almeno qualche ora al giorno, tutti i giorni, alle attività della loro federazione, sono circa 700 mila. Il loro lavoro è in parte volontariato, oppure è ricompensato da «permessi retribuiti» o «distacchi». Il fenomeno è particolarmente presente nella pubblica amministrazione, dove i sindacalisti in distacco retribuito erano arrivati ad essere quattromila, prima che fossero falcidiati dai ministri Brunetta e ora Madia. Quindi, quando vedete una manifestazione sindacale di mezzo milione di persone, duecentomila sono pensionati e il resto sono sindacalisti, in genere del pubblico impiego. Numeri impressionanti. Gli iscritti al sindacato in Italia superano di gran lunga i cattolici che vanno a messa la domenica; i sindacalisti a tempo pieno sparsi sul territorio sono sette volte gli effettivi dell’Arma dei carabinieri.

Da istituzione che difende i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato si è progressivamente trasformato in un colossale patronato che funge da centro di assistenza fiscale e pensionistico. I salari, invece, la cui difesa e il cui aumento sono il core business del sindacato, non sono stati molto tutelati. Marco Revelli, storico e da sempre appassionato militante delle battaglie sindacali, nel suo libro Poveri noi (Einaudi) ha riportato un dato quanto meno inaspettato. Una ricerca di Luci Ellis (Banca internazionale dei regolamenti di Basilea) e Kathryn Smith (Fondo Monetario Internazionale) scoprì già nel 2008 che la somma dei salari italiani era diminuita verticalmente. Per l’Italia si stimava un trasferimento tra salari e profitti di 8 punti percentuali (circa 120 miliardi di euro all’anno). Mi dice ora Revelli: «Luciano Gallino aggiorna i dati per l’Italia ipotizzando ora addirittura una quindicina di punti, il che farebbe 250 miliardi». Diversi i fattori: diminuzione della produzione generale; aumento della produttività dovuto al maggior uso di tecnologia, ma soprattutto aumento enorme della forbice tra le retribuzioni del lavoro manuale o impiegatizio, di livello sempre più basso, e quelle che l’alta dirigenza e la proprietà si assegnano. «Una delle più significative sconfitte sindacali è avvenuta alla Fiat. Nel 2012 Marchionne chiese un referendum in cui poneva seccamente la possibilità della chiusura se non fossero stati accettati pesanti cambiamenti (in peggio) dell’orario di lavoro. I dipendenti chiamati al voto si espressero, per poco, per il sì; ma questo non servì a garantire i livelli di produzione promessi e si entrò piuttosto in uno stato di cassa integrazione prolungata e apparentemente senza fine. La vertenza in pratica finì con una perdita di diritti sindacali che si erano acquisiti con anni di lotte e un salario decurtato sensibilmente, dato che la cassa integrazione copre solo l’ottanta per cento della busta paga. Detto in un altro modo, forse più crudo: quello che trent’anni fa era il volano che aveva spinto in alto le richieste sindacali – l’industria dell’automobile – ha perso nove decimi della sua forza numerica ed è composta da migliaia di operai di mezz’età o sulla via della pensione che vivono con meno di mille euro al mese». E di pari passo vennero i call center, i co.co.co, il precariato, le false partite Iva, le false cooperative.

Una massa di lavoro precario che è esplosa oggi in Italia fino a coinvolgere tre milioni di persone. Sono poveri, infelici, indignados, ma soprattutto non sindacalizzati. Nacquero più o meno insieme all’ultima grande manifestazione di forza della Cgil, nel 2002. Tre milioni di persone sfilarono a Roma per «mantenere l’articolo 18» che Silvio Berlusconi voleva eliminare. Non bastando i pullman italiani, la Cgil andò ad affittarli in Slovenia e il sindacato si vantò di aver prodotto tre milioni di spillette e cappellini in una settimana senza ricorrere al lavoro nero. A Sergio Cofferati, il segretario generale, venne pronosticato il ruolo di leader politico. Si parlò di un «ticket Prodi Cofferati», che avrebbe guidato un’Italia socialista. Ma era lo stesso Cofferati a sapere che quei tre milioni erano una specie di illusione ottica, l’ultima raffigurazione di un mondo che non esisteva più. «Quando facevo il sindacalista e c’era un contratto da rinnovare facevamo un’assemblea per turno alla Pirelli Bicocca. Ad ogni assemblea partecipavano settemila operai. Questo vuol dire che il sindacato riusciva a raggiungere in un giorno quattordicimila operai. Ieri, mi hanno portato i dati di adesione al nostro nuovo sindacato che vuol organizzare i precari. Abbiamo raddoppiato gli iscritti! Peccato che da 15 siano passati a trenta!». Giorgio Airaudo è stato il segretario nazionale della Fiom ed è ora parlamentare con Sel. Ha vissuto gli aspetti più drammatici della trasformazione del lavoro e della perdita di forza del sindacato. «Per dire tutta la verità, anche noi non ci rendemmo conto. C’era tutto questo parlare di flessibilità, necessaria per superare la crisi, che ci eravamo illusi che fosse qualcosa di momentaneo. Mi ricordo di quando andai a vedere il call center delle Pagine Gialle, sistemato dentro un’officina vuota di Mirafiori. Era la nuova catena di montaggio, però senza diritti! Noi eravamo abituati ad inserire nelle vertenze concessioni sullo straordinario, in cambio di assunzioni, ma notavamo che agli imprenditori non interessava più. Loro erano alla ricerca di un nuovo modo di produrre – e quando potevano andavano in Serbia o in Romania – e cercavano solo un modello che svalutasse il lavoro, così come ai tempi della lira si svalutava la moneta. Questa è la tendenza di oggi, purtroppo. Lavoro sempre più dequalificato e precario; volatile e licenziabile al primo accenno di crisi. Diventeremo un ex Paese industrializzato, ma forse il primo tra i Paesi sottosviluppati. Credo che dovremo abituarci a considerare il tempo del sindacato forte come un’età dell’oro. Il 13 ottobre, quando John Elkann suonerà la campanella di Wall Street, avrà quotato in borsa una società che in Italia ha lasciato solo piccoli pezzi di produzione».

Dodici anni dopo quella grandiosa manifestazione in nome della dignità del lavoro, il rosario di sconfitte sindacali è lungo. Un quarto delle manifatture è andato perso, il potere d’acquisto è diminuito, le pensioni sono state pesantemente allontanate dal costo della vita e ribassate, il lavoro precario è diventato legge e lo stesso potere politico del sindacato – i grandi accordi di concertazione – sulla politica economica, è un rito del passato. Franco Marini (una vita nella Cisl) non è diventato presidente della Repubblica. Fausto Bertinotti (sindacalista Cgil) si è fatto conoscere per aver fatto cadere il governo Prodi, reo di non aver fatto un legge sulle 35 ore di lavoro. Sergio Cofferati non è diventato il leader del Pd; oggi lo è invece un giovane che ha portato il partito sopra il 40 per cento dei voti, che ha scavalcato i sindacati mettendo lui ottanta euro in busta paga, senza nemmeno un’ora di sciopero. Li ha dati a dieci milioni di garantiti e sindacalizzati, ma è probabile che sia l’ultima volta. Matteo Renzi ha preso l’impegno di difendere «Marta, 28 anni, precaria, che aspetta un bambino» e a cui il sindacato non garantisce le tutele che invece garantisce alle dipendenti pubbliche. Nella stessa riunione, il Pd – dove la Cgil ha scoperto di non avere che pochissimi amici – una direzione euforica ha applaudito il diritto dei «padroni» (e basta chiamarli così!) a licenziare. Non Marta, s’intende. Ma Cofferati e la sua genìa.

Il sindacato è una cosa del passato? Difficile rispondere, perché il quadro non è uniforme. Negli Stati Uniti sembra essere diventato definitivamente un fenomeno residuale, con solo il sette per cento di lavoratori iscritti (dopo la guerra erano il 35 per cento). In Cina è ferocemente represso nei suoi tentativi. Il simbolo del suo sviluppo è piuttosto la gigantesca fabbrica Foxconn, con più di un milione di operai che assemblano telefonini chiusi da reti alle finestre per impedire i suicidi. Il suo contrappeso americano è la catena di grandi magazzini Walmart, anche questa con più di un milione di dipendenti (80 per cento dei prodotti venduti sono made in China) e nessuna rappresentanza sindacale; da cui paghe bassissime, turn over altissimo, licenziamenti facilissimi. Ma non tutto il mondo è così. In Brasile, Lula e Dilma Roussef sono stati portati alla presidenza dal sindacato e il Paese ha vissuto il suo migliore sviluppo economico con grande redistribuzione della ricchezza. La Polonia moderna è nata con la vittoria di un sindacato, Solidarnosc. La Germania è mitica per il potere della sua IG Metal, nel cui grattacielo svettante su Francoforte si decide di che colore saranno le prossime Bmw, di quante settimane di terme a Ischia possono godere gli operai, quanti saranno gli apprendisti da assumere e naturalmente si detta la linea alla politica, anche alla Merkel.

L’Italia oggi è in bilico, ma la tendenza è ad avere un grande futuro dietro le spalle. E dire che la storia è lunga e il sindacato ha radici talmente forti nel popolo italiano da rendere difficile una sua sparizione. In un immaginario tour di turismo sindacale, ecco Torino, la capitale operaia del Novecento, dove una fermata della nuova metropolitana si chiama XVIII dicembre, per ricordare la strage che le bande fasciste di Piero Brandimarte fecero contro la Camera del Lavoro nel 1922. Venti morti ammazzati, un telegramma di plauso da Benito Mussolini. Il sindacalismo italiano era nato da poco più di vent’anni – le leghe dei braccianti e quelle di mutuo soccorso, la gioventù operaia cattolica e i consigli di fabbrica gramsciani, un’idea di lavoro organizzato da contrapporre al padronato che era, davvero, avido e cattivo. Cesura di vent’anni, causa fascismo. Ripresa nel 1945, in cui agli operai e ai contadini nessuno regalava niente. Le fabbriche allora erano caserme, la polizia sparava volentieri. Tour sindacale in Sicilia, alla ricerca delle 44 Case del Popolo distrutte e dei 44 sindacalisti uccisi nel dopoguerra dalla maia, che difendeva feudi e latifondi. Un passaggio nella oggi placida Puglia, a ricercare le orme di Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano.

Fatevi accompagnare dal libro di Luciana Castellina e Milena Agus, Guardati dalla mia fame, e scoprirete gli agrari che mettevano la museruola ai bambini perché non mangiassero l’uva durante la vendemmia e le donne proletarie affamate che entrarono nel palazzo dei signori e uccisero per vendetta, a mani nude altre donne, perché simbolo della ricchezza arrogante. Il sindacato in Italia è nato con sangue, passione e sacriicio. È ancora quello? Secondo lo storico Giovanni De Luna «l’apogeo venne raggiunto negli anni 70. I tre sindacati erano uniti (la destra, che li temeva, li chiamava la Triplice, la Trimurti), i grandi contratti collettivi erano momenti in cui si prendevano decisioni sulla scuola, sulla sanità, sulla casa, sullo sviluppo economico. Un’era che allora prese il nome di pansindacalismo, ma che fu sconfitta, principalmente perché non divenne progetto politico. Oggi viviamo i risultati di quella sconfitta; e il sindacato appare una somma di interessi di corporazioni. Un cambio antropologico piuttosto triste».

Pietro Marcenaro, già senatore del Pd, una vita passata nella Cgil, prima come operaio poi come dirigente, non pensa che il sindacato scomparirà. «Fa parte dell’Italia, è stato costruito da uomini e donne di nobili sentimenti e di grande moralità e la sua massima nobiltà l’ha avuta quando è stato unitario. Ma è ovvio che qualcosa è cambiato. Mi dispiacerebbe che la reazione alla politica di Renzi fosse uno scatto pavloviano di autodifesa. Credo piuttosto che il sindacato debba ripartire dal basso, che i sindacalisti debbano considerarsi soggetti che vogliono tutelare altri, non dirigenti di gruppi che cercano tutele. Ripartire dai più deboli. Il primo pensiero che mi viene in mente è questo. Sono un operaio marocchino, cerco qualcuno che mi difenda. Lo trovo, un sindacato?». La stessa domanda potrebbe fare Marta, che aspetta il bambino. O forse queste domande resteranno senza risposta, perché non ci sono più i sindacalisti di una volta. Il rischio è che anche il nome perda di significato. In California circola un adesivo, di quelli da appiccicare sul paraurti posteriore dell’auto. «Non sai chi è un sindacalista? È quello che ti ha fatto avere il weekend».

Il Paese dei prestiti negati

Il Paese dei prestiti negati

Gigi Di Fiore – Il Mattino

Un commerciante suicida per i debiti, un pensionato che rischia di perdere la casa, il Sud nella morsa dell’usura: schegge di conseguenze indirette scatenate dal calo dei prestiti bancari, diminuiti dello 0,8 per cento alle famiglie e del 3,8 per cento alle imprese. Dati dell’ultimo mese, calcolati dalla Banca d’Italia. Sono lontani i tempi in cui non ci restavano che le banche per coronare un sogno. Una casa, un’auto, un viaggio: bastava chiedere un prestito, anche piccolo, per conquistarsi l’oggetto del desiderio. A garanzia, un immobile, la propria busta paga di lavoratore a tempo indeterminato, un parente pronto a metterci la faccia per il sì al denaro chiesto. Capi famiglia, artigiani, commercianti hanno alimentato l’esercito dei piccoli risparmiatori che si rivolgevano alle banche per esigenze improvvise. Fino al 2000, secondo i dati dell’ufficio studi della Banca d’Italia, il mercato del credito alle famiglie era di dimensioni ancora limitate rispetto al resto d’Europa: un terzo del reddito disponibile in un anno. Poi, da allora, 14 anni fa, in coincidenza con il calo dei tassi d’interesse, i prestiti bancari sono aumentati fino all’inversione di tendenza esplosa nel 2008.

La crisi, i redditi in diminuzione, la stretta della tasse sempre più numerose hanno spinto la chiusura dei rubinetti. Negli ultimi tre anni, il tramonto del periodo di vacche grasse è diventato fisiologico. Con storie che si fanno dramma, in una spirale sempre più preoccupante. A Ginosa Marina, in provincia di Taranto, un commerciante di 60 anni si è suicidato. Ha lasciato un piccolo quadernetto, dove ha registrato l’abisso della sua sofferenza. Nelle pagine scritte, quasi un testamento: «Mi sono trovato in grandi difficoltà economiche e avevo urgente bisogno di 1300 euro per coprire un assegno consegnato ad un fornitore. Rischiavo il protesto, mi sono rivolto alla mia banca per un fido. Me l’hanno rifiutato e sono piombato nella disperazione». Una moglie e tre figli, il no della piccola banca locale motivato da una «rilevante esposizione debitoria», ha spiegato l’avvocato Giuseppe Lecce, incaricato dalla famiglia di denunciare la banca per «istigazione al suicidio»: «Dagli estratti conto, abbiamo rilevato addebiti sproporzionati per le transazioni scaturite dall’uso del Pos sui pagamenti con carte di credito. Probabilmente, si trattava di errori e il commerciante lo ha fatto presente, nella richiesta di fido. Non l’hanno ascoltato, addebitandogli invece debiti rilevanti».

Casi limite, certo. Ma spia di situazioni difficili. Al Sud come al Nord. A Santa Vittoria di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, un artigiano di 42 anni ha denunciato la banca per usura. Dopo aver pagato per otto anni le rate di un mutuo decennale a tasso variabile, ha dovuto smettere perché si era trovato in difficoltà per il calo di guadagni nella sua attività. Stop alla rata di 800 euro, per poi rivolgersi ad un avvocato attraverso l’associazione antiusura Federitalia a Parma. E arriva una scoperta, attraverso il calcolo dell’associazione: i tassi applicati avrebbero sforato quelli regolari, diventando usurai.

Lo stop ai prestiti si concentra soprattutto sui mutui per l’acquisto della prima casa. Non è un caso, quindi, che il ministero del Tesoro abbia sentito il bisogno, nelle ultime ore, di firmare un protocollo d’intesa con l’Abi, l’associazione delle banche italiane. Prevede un fondo di garanzia, con dotazione di 650 milioni di euro, che dovrebbe consentire lo sblocco di una ventina di miliardi per l’acquisto della prima casa non di lusso. Spiegano Abi e ministero del Tesoro: «Si tratta di un’importante strumento di accesso al credito per la casa a favore dei cittadini, oltre che un immediato impulso alla crescita attraverso il rilancio del settore immobiliare». Beneficiati principali dovrebbero essere le giovani coppie, o un genitore separa-to con figli minorenni. Basterà? Di certo, i rubinetti a secco o totalmente chiusi del prestito bancario toccano le famiglie, come le piccole imprese. Colpa delle crisi, colpa di un sistema finanziario stritolato dalle sofferenze di crediti concessi a grossi gruppi imprenditoriali. Se i soldi vanno ai più grandi, che riescono a offrire più garanzie ma poi non pagano nei tempi fissati, a farne le spese sono i più piccoli e le famiglie. Un paradosso.

Per ristrutturazioni aziendali, o tamponare crisi, occorrono soldi. E le banche ne hanno sborsati cosi tanti che, negli ultimi mesi i 12 primi istituti creditizi italiani si incontrano con sempre maggiore frequenza per trovare soluzioni alle «sofferenze» scaturite da grossi gruppi imprenditoriali in difficoltà: 170 miliardi di euro. I nomi sono circolati da tempo, con Sorgenia, Risanamento e Tassara in cima alla lista. E scrive la Banca d’Italia, riferendosi agli ultimi mesi del 2014: «I criteri di offerta dei prestiti alle imprese sono divenuti lievemente espansivi, beneficiando del miglioramento delle attese riguardo l’attività economica in generale». Più sotto, però, il ma che complica la situazione di chi deve fare i conti con le bollette della luce, il fitto, il mutuo: «I criteri di offerta dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni hanno registrato un ulteriore allentamento».

I piccoli alle prese con la finanza che stritola. Giuseppe è stato a lungo in cassa integrazione alla Fiat di Pomigliano. Racconta: «Se non mi avessero aiutato i suoceri, avrei perso la casa che avevo comprato con un mutuo. Provate voi a onorare una rata di prestito, sottoscritta quando avevo un contratto di lavoro, con 700 euro al mese di cassa integrazione». La stretta alimenta il mercato delle società finanziarie private, che pretendono minori garanzie per concedere prestiti. Molte sono boarder line, strutture improvvisate, che si pubblicizzano con volantini e offrono interessi da favola e prestiti che poi si rivelano usurai. Ci sono però società finanziarie consolidate, con strutture nazionali, che finanziano acquisti di auto, computer, elettrodomestici vari. Nomi ricorrenti: Findomestic, Compass, Agos. Hanno gioco facile se, negli ultimi tre anni, secondo Unimpresa, il valore dei prestiti alle famiglie si è ridotto di 14 miliardi di euro. E per le imprese la contrazione è arrivata, sempre negli ultimi tre anni, alla somma di 70 miliardi di euro. I calcoli, dal luglio 2011 al luglio 2014, sono presto fatti: ai privati sono stati concessi dalle banche 83,1 miliardi di prestiti in meno, che significano il meno 5,49 per cento. Un’impresa fornisce la sua lettura di queste cifre: «La causa sono le sofferenze bancarie, l’insolvenza, il ritardo dei pagamenti. L’effetto diventa però la ripercussione negativa sull’economia reale».

E, a questo scenario da pianto, si aggiungono clausole e interessi applicati dalle banche, che scatenano denunce. Adusbef e Federconsumatori hanno presentato diffide contro 13 banche che, nel concedere mutui, avrebbero inserito «condizioni in grado di determinare un significativo squilibrio di diritti ed obblighi contrattuali, lesivi dei diritti degli utenti». L’elenco comprende gli interessi calcolati per scoperture momentanee dell’utente. Due giorni fa, un pensionato torinese, Vittorio Giari, si è rivolto al programma televisivo «Le Iene», per denunciare il suo caso. Ad una banca torinese aveva chiesto un prestito di 14mila euro, cedendo un quinto della pensione. Ha scoperto di aver restituito addirittura 40mila euro, con un tasso del 29 per cento, oltre il limite del 14,9 per cento fissato dalla legge per non sconfinare in usura. L’inghippo è stato scoperto: il contratto prevedeva anche un’assicurazione obbligatoria, per coprire l’eventuale morte o difficoltà del cliente a restituire il prestito. L’assicurazione è costata 10mila euro, che si è aggiunta alla restituzione con interesse. La banca, portata in tribunale, ha dovuto restituire 7500 euro. Il giudice ha dato ragione al pensionato.

Ma su quali elementi le banche rifiutano prestiti alle famiglie? Influiscono le garanzie e, negli ultimi anni, con l’incremento dei contratti a tempo determinato, gli istituti di credito sono diventati più restii a concedere mutui. Poi, ci si mettono le cosiddette «referenze creditizie». Sono i dati, raccolti da società private o pubbliche costituite da gruppi di banche e finanziarie, sui precedenti dell’utente che chiede un prestito. È l’archivio sui pagamenti in ritardo, i prestiti richiesti, gli eventuali scoperti e tutte le altre informazioni che le banche utilizzano per valutare l’attendibilità di chi chiede denaro e decidere. È il Sic (Sistema informazioni creditizie) a fornire quelle notizie. In Italia, ne esistono quattro: Experian, Consorzio tutela credito, Crif e Assilea. Sono una specie di grande fratello su chiunque si rivolga ad una banca per chiedere denaro. Un sistema invadente, che impone alle banche il segreto sui dati acquisiti. Riguarda finanziamenti inferiori ai 30mila euro. Sono proprio quelli che, inmaggior numero, richiedono le famiglie. L’invadenza nella privacy corre sul filo. Sono le banche e le finanziarie a fornire al Sic i dati personali di chi chiede un prestito. E, bisogna starne attenti, queste informazioni possono essere custodite non oltre sei mesi. Il tempo, di solito, di rispondere si o no alla richiesta. Spiegano all’Aduc, l’associazione per i diritti di utenti e consumatori: «Se il prestito è negato, o il cliente vi rinuncia, le informazioni possono restare in custodia al Sic non oltre 30 giorni. Attenzione, le notizie sui mancati pagamenti, o pagamenti in ritardo, non possono essere conservate oltre 12 mesi dalla regolarizzazione del debito. Sul Sic e i dati personali custoditi, valgono le norme sulla privacy e ci si può rivolgere al Garante per ottenere tutela». Se le richieste di prestiti sono superiori ai 75mila euro, esiste una Centrale rischi pubblica, gestita dalla Banca d’Italia. Riguarda essenzialmente le grosse imprese, i gruppi imprenditoriali di rilievo.

Denuncia Carlo Rienzi, presidente del Codacons: «È un vicolo cieco. La riduzione dei prestiti a famiglie e alle imprese strozza la ripresa. Che fine hanno fatto i miliardi di euro concessi dalla Bce agli istituti di credito, per aumentare i finanziamenti nel nostro Paese?». Domanda lecita, ma la risposta non appare semplice. Salvatore Rossi, attuale direttore generale della Banca d’Italia, ha analizzato l’andamento del credito concesso alle famiglie, partendo dal 2000. Spiega: «Le famiglie italiane hanno assistito alla progressiva riduzione del loro reddito reale, a partire dal 2008. La conseguenza è stato il ridimensionamento dell’acquisto di beni di consumo e la riduzione anche di domande di finanziamento bancario». Secondo quest’analisi, le famiglie a basso reddito sono progressivamente sparite dalla clientela bancaria. Nel 2012, le banche hanno concesso 30 miliardi di mutui e aggiunge ancora il direttore Rossi: «È cresciuta la selettività nell’offerta di credito, condizionando le scelte delle famiglie. Il tasso di sofferenza dei prestiti, così, è aumentato. Nel 2009 era passato dall’l all’1,4 per cento del totale dei prestiti esistenti».

Sono allarmanti i calcoli dell’ufficio studi della Banca d’Italia: almeno il 3, 6 per cento delle famiglie si è trovato con debiti bancari elevati. Le più vulnerabili, quelle con reddito più basso o inesistente, sono calcolate nell’1,4 per cento. Dice ancora il direttore Rossi: «Le progressive contrazioni del reddito reale e il deterioramento del mercato del lavoro hanno mutato le prospettive delle famiglie e ne hanno ridimensionato la propensione a chiedere finanziamenti». Sul no al prestito influiscono gli ostacoli della vita reale: cassa integrazione, famiglie monoreddito, contratti a tempo parziale. Le banche catalogano i «cattivi pagatori» e, in maniera indiretta, soprattutto al Sud, si alimenta il mercato illecito dell’usura. Secondo l’ultimo studio della Cgia di Mestre, la Campania sarebbe al primo posto in Italia per il ricorso agli usurai. Cresce la richiesta del piccolo prestito, trai mille e cinquemila euro a restituzioni da favola. Ma chi ha bisogno di denaro, anche per spese sanitarie non previste, non ha alternative. Soprattutto se non possiede garanzie da fornire alle banche. Dopo la Campania, ci sarebbero, nel ricorso all’usura, Calabria, Abruzzo, Puglia, Sicilia, Molise.

L’ultimo studio dell’Unioncamere, in collaborazione con Libera contro le mafie, lancia l’allarme. Vi si legge: «Un rapporto usurario nasce dalla necessità stringente di denaro, ma anche da un’offerta che può apparire di facile e rapida soluzione a chi si trova in difficoltà». Tassi d’interesse che schizzano dal 120 al 1500 per cento, accompagnati da metodi spicci per ottenere la restituzione del prestito. Confesercenti denuncia che circa 200mila commercianti hanno dovuto ricorrere all’usura. Al primo posto, anche stavolta, la Campania con 32mila commercianti. Racconta Giovanni, che ha dovuto chiudere un suo piccolo negozio di abbigliamento in provincia di Napoli, rimanendo per ora privo di lavoro: «Ero insolvente con più fornitori, che, sperando di recuperare i loro soldi, non mi facevano fallire. La banca non mi concedeva più prestiti, quando mi hanno presentato un’ingiunzione ho dovuto ricorrere agli usurai. Da lì è stata una spirale inarrestabile, che mi ha portato alla chiusura».

Secondo Eurispes, almeno il 35,7 per cento degli italiani ha chiesto nell’ultimo anno un prestito alle banche. Tra i più bisognosi di aiuti finanziari, i lavoratori con partite Iva (44,2 per cento) e il 35,2 lavoratori subordinati. La stessa analisi spiega la richiesta con la necessità di pagare debiti accumulati nel tempo (il 62,3 per cento) e il bisogno di saldare prestiti ricevuti da altre banche o da finanziarie (il 44,4 per cento). In tutti i casi, nella stretta del denaro che non basta mai e che le banche concedono sempre di meno, bene non siamo di certo messi. Speriamo che passi.

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Serena Uccello – Il Sole 24 Ore

Nel 2013, i cittadini che hanno beneficiato di un ammortizzatore sociale (Cassa integrazione guadagni, mobilità e indennità di disoccupazione, Aspi e MiniAspi) sono stati quasi 4,6 milioni, con un aumento del 6,5% rispetto al 2012 (280mila unità in più). Se si paragonano, invece, i dati del 2013 con quelli del 2008 (ultimo anno senza la piena crisi), l’aumento è stato di 2,4 milioni di persone (+113,6%), in quanto in quell’anno le persone beneficiarie di ammortizzatori sociali furono 2,1 milioni. A rivelarlo è il terzo Rapporto del Servizio Politiche del Lavoro della Uil, secondo cui nel 2013 sono stati spesi 23,8 miliardi, segnando un aumento del 5% rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi di euro in più).

«Un gran numero di persone – sottolinea Guglielmo Loy, segretario Confederale Uil – circa un terzo dei lavoratori del settore privato, ogni anno conosce l’esperienza, spesso amara e angosciante, in alcuni casi un sollievo per l’aver evitato comunque il licenziamento, di avere una forma di sostegno al reddito». Un sistema di protezione sociale che, tra indennità e contributi figurativi, nell’ultimo anno è costato 23,8 miliardi di euro, (+13,8 miliardi di euro rispetto al 2008). Il tutto finanziato per 9,1miliardi di euro con i contributi di lavoratori e aziende e per 14,7 miliardi di euro a carico della fiscalità generale.L’importo medio, tra sussidi e contribuzione figurativa, per ogni beneficiario di ammortizzatori sociali, è di 5.191 euro pro capite (4.353 euro per la cassa integrazione, 18.589 euro per la mobilità e 4.768 euro per l’Aspi, Mini Aspi e indennità varie di disoccupazione). Nello specifico – spiega Loy – le persone protette dalla cassa integrazione guadagni, tra ordinaria, straordinaria e deroga, sono state 1,5 milioni (in diminuzione del 3,9% rispetto al 2012); mentre aumentano dello 0,9% le persone in mobilità, ordinaria e in deroga (arrivando a 187mila unità complessive); mentre tra Aspi, MiniAspi e Indennità di disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, i benefieiari sono stati 2,8 milioni con un aumento del 13,6% rispetto al 2012 (+341mi-
la).

Tornando ai costi, perla cassa integrazione la spesa è stata di 6,7 miliardi di euro, in aumento del 9,9% rispetto al 2012 (604 milioni di euro); per le indennità di mobilità ordinaria e in deroga il costo è stato di 3,5 miliardi di euro, con un aumento del 19,6% sul 2012 (+568 milioni di euro); perAspi, Mini Aspi e disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, il costo è stato di 13,6 miliardi di euro in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-0,3%). Il capitolo degli ammortizzatori in deroga, finanziati completamente dalla fiscalità generale, nel 2013 e stato, tra cassa integrazione in deroga e mobilità in deroga, di 2 miliardi di euro.

Una dote ridotta

Una dote ridotta

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Rispetto al target di 16 miliardi di tagli indicato nel Def di aprile, sarà una “spending” in formato ridotto quella che troverà posto nella legge di stabilità. A confermarlo è l’obiettivo minimo di 3 miliardi, come effetto sull’indebitamento netto Pa, che si sono dati i ministeri con le loro proposte di riduzione della spesa.

A sostenere il peso maggiore dei tagli sembrano destinati ad essere, ancora una volta, le Regioni e gli enti locali. Dopo aver deciso di azionare la leva del deficit per 11,5 miliardi, rimanendo comunque sotto il tetto del 3%, il Governo per completare la prossima legge di stabilità da 23-24 miliardi dalla fisionomia “espansiva” conta di recuperare almeno 10 miliardi dalla spending. E quasi la metà dei questa dote, ovvero 4-4,5 miliardi, dovrà essere garantita dai Governatori e dai sindaci. Questi ultimi avranno comunque in cambio un allentamento del Patto di stabilità interno per un miliardo. Il risultato dei ministeri, anche se dovesse essere superiore all’obiettivo minimo di 3 miliardi, appare quindi al di sotto delle aspettative, anche alla luce del pressing del premier per rendere operativa sulla maggior parte delle voci di spesa la regola del taglio secco del 3%. Regola che comunque in molti casi è stata recepita, come al ministero dell’Economia dove proprio con questo strumento sono fine nel mirino Agenzia fiscali e Guardia di finanza.

La mappa, ancora non definitiva, confezionata sulla base delle ipotesi di intervento mese a punto dai singoli dicasteri, e sulla quale sono chiamati a operare le scelte finali il premier Matteo Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan, mette comunque in evidenza un atteggiamento non passivo come in passato rispetto alla necessità di scovare sprechi e spesa inefficiente. Non a caso le proposte di intervento arrivate a palazzo Chigi produrrebbe un effetto superiore ai 6 miliardi sul saldo netto da finanziare. Anche se con contributi diversi: molto più alto e con scelte non sempre semplici da parte di ministeri come il Lavoro e l’Istruzione che hanno elaborato un pacchetto di tagli non del tutto soft, e a volte non proprio mirati, come dimostra l’ipotesi di intervento sugli sgravi contributivi per la contrattazione di secondo livello; ridotto al minimo e con proposte di intervento non proprio numerose da parte dei ministeri della Salute e delle Infrastrutture.

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Antonio Angeli – Il Tempo

Hai voglia a dire riforme… le leggi ci sono, ma mancano i decreti attuativi, succede così nell’Italia della crisi: i provvedimenti vengano pure varati da Camera e Senato (che sta sempre là), ma se i ministeri non producono l’adeguato supporto normativo… le riforme restano al palo. Il problema non è certo recente, anzi, è di natura «archeologica»: ieri in una affollata conferenza stampa il coordinatore della Struttura di missione per il dissesto idrogeologico, Erasmo D’Angelis, ha annunciato di aver trovato un «tesoretto» destinato al risanamento del territorio, quattro miliardi di euro «persi» da anni, in alcuni casi da decenni, nei labirinti della burocrazia italiana.

Per far arrivare in porto tutti i provvedimenti dei governi della «grande crisi»: Monti, Letta e Renzi, sono necessari, in base agli ultimi dati, circa 700 decreti attuativi, come confermato in tempi recenti dallo stesso governo Renzi. Le Province, ad esempio, che per tutti sono morte e sepolte, hanno invece proseguito a stare là. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se nulla fosse accaduto. Il problema è semplice (e ampiamente dibattuto): il Parlamento, nella pratica, indica delle «linee guida», ma chi poi porta «nelle case di tutti» le riforme è la struttura ministeriale, cioè la burocrazia. Anzi, le burocrazie che, in Italia, sono proverbialmente in ritardo. In alcuni casi anche di anni.

Nel complesso, in base agli ultimi dati diffusi, ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. A queste si aggiungono le norme necessarie alle riforme del governo Renzi che, nel frattempo, ne sta producendo altre, per un totale complessivo di 700 decreti attuativi mancanti all’appello. Con una curiosità: per attuare la riforma della della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia sono necessari almeno 77 decreti attuativi. E i decreti attuativi provengono, necessariamente, dalla stessa pubblica amministrazione che deve, in qualche modo, mettere in atto la sua stessa riforma. Il governo Renzi ha certificato, nel suo «Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo», aggiornato al 7 agosto scorso, che il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno di ulteriori decreti per essere effettivamente messo in pratica. E questo perché meno della metà delle disposizioni (in tutto il 38%) si applica da sola: cifre alla mano su 40 provvedimenti solo 15 sono «autoapplicativi». In vista del traguardo della nuova legge di Stabilità, poi, mancano ancora all’appello provvedimenti attuativi della legge di bilancio del governo Letta. E per 25 di quei provvedimenti è bello che scaduto il termine entro il quale andavano adottati. Il «Decreto del fare» (quello di Letta, correva l’anno 2013) è rimasto insabbiato per circa la metà dei necessari decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono anche in questo caso scaduti i termini temporali. Un «pasticcio burocratico», che ha radici profonde.

Proprio ieri è stata presentata a Palazzo Chigi la campagna istituzionale «Se l’Italia si Cura, l’Italia è più Sicura» con annesso il nuovo sito web italiasicura.governo.it, tutto legato all’attività delle Strutture di missione della Presidenza del Consiglio contro il dissesto idrogeologico. All’incontro c’erano Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Erasmo D’Angelis, coordinatore della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche. «Finalmente voltiamo pagina – ha spiegato D’Angelis – e lo dobbiamo innanzitutto alle oltre 4.000 vittime di frane e alluvioni negli ultimi 50 anni. Stiamo mettendo fine a ritardi imbarazzanti ed abbiamo recuperato e stiamo riprogrammando la spesa di circa 4 miliardi, 2,3 contro dissesto e 1,6 per disinquinare fiumi e mare, grazie al decreto “Sblocca Italia”. Entro la fine del 2014 apriranno altri 650 cantieri per opere di sicurezza per 800 milioni di euro. Sono soldi che, insieme al ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, al capo della Protezione Civile Franco Gabrielli e ai presidenti delle Regioni, stiamo finalmente trasformando in interventi in tutta Italia». Tutti fondi «insabbiati» da anni in paludi burocratiche. Intanto «abbiamo iniziato a spendere queste risorse che abbiamo trovato», ha detto D’Angelis.

Ma a parecchi tutto questo non va giù: «Il decreto legge Sblocca Italia dà il via libera ai saldi di fine stagione per il territorio e le risorse del nostro Paese – è la denuncia che arriva dal Wwf – Deroghe alla normativa ordinaria di tutela del paesaggio e dell’ambiente, mani sul territorio e sul demanio dei privati e dei concessionari autostradali, depotenziamento delle procedure di valutazione ambientale, tutto sotto la regia del governo centrale che emargina regioni, enti locali e cittadini grazie all’estensione della strategicità a intere categorie di interventi senza alcuna idea sulle priorità». E anche dal Fai, il Fondo Ambiente Italiano, e dal suo presidente, il noto archeologo Andrea Carandini, arrivano dure critiche.

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Filippo Caleri – Il Tempo

La riforma del lavoro c’è. O meglio ci sarà. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso il sì del Senato al Jobs act, la legge delega al governo per cambiare le regole che disciplinano il mercato dell’impiego, ha messo il primo tassello per rendere la disciplina in materia più flessibile. Non è una rivoluzione copernicana ma non appena i decreti delegati saranno emanati sarà possibile di modificare ad esempio le mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (da individuare «sulla base di parametri oggettivi») e mantenendo il livello salariale. Non solo. Arriverà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che significa che le tutele previste dall’articolo 18 saranno meno forti per i neoassunti. Non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge. Ma sicuramente gli imprenditori non avranno più scuse sulla pesantezza del quadro regolamentare quando devono assumere. Intanto ieri è arrivato il plauso dell’Ocse a Renzi. Il via libera del Senato al Jobs Act «è uno sviluppo molto positivo». Se «pienamente implementato», il provvedimento «può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica» ha detto Il segretario generale dell’Ocse, Gurria. Ecco le misure principali.

Neossunti
Per i nuovi assunti ci sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e cioè in relazione all’anzianità. Si va all’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, che viene sostituito dal solo indennizzo certo e crescente con gli anni di servizio.

Licenziamenti
Resta la possibilitò del reintegro per i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare “particolarmente gravi”, le cui fattispecie saranno poi specificate nel decreto delegato. Questo sempre per i neoassunti. Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta per i licenziamenti discriminatori.

Contrati stabili
L’obiettivo del Governo è quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata» rendendolo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Questo comporta un riordino delle tipologie contrattuali, con l’abolizione delle forme «più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto». Per questo si punta a definire un Testo organico semplificato dei contratti e rapporti di lavoro.

Cambiare mansioni
Sì alla revisione delle mansioni del lavoratore nel caso che parta la riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma va basata su «parametri oggettivi», per «la tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita» ma anche “economiche”, con limiti alla modifica dell’inquadramento. Nella revisione delle mansioni anche la contrattazione aziendale e territoriale può individuare “ulteriori ipotesi”.

Il Governo assume
Arrivano 1,5 miliardi aggiuntivi per i nuovi ammortizzatori sociali. L’obiettivo è di estenderli a una platea di lavoraori più larga. In tutto sul piatto ci sono 11-12 miliardi. Con questi maggiori fondi si punta anche sulle politiche attive e su una maggiore tutela della maternità.

Salario minimo
Resta l’obiettivo di introdurre «eventualmente anche in via sperimentale» il compenso orario minimo anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti nazionali.

Ferie da regalare
Confermata la possibilità per il lavoratore che ha ferie in eccesso di cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per assistere figli minori che necessitano di cure.

Solidarietà
Si punta a semplificare e ad estendere il campo di applicazione dei contratti di solidarietù potenziandone l’utilizzo in chiave “espansiva”, per aumentare cioè l’organico riducendo l’orario di lavoro e la retribuzione del personale.

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Il summit europeo di Milano sui temi del lavoro non deve essere sottovalutato o addirittura dileggiato, come taluni hanno fatto. Perché ha segnato l’inizio di un possibile punto importante di svolta delle politiche economiche europee. Jean-Claude Juncker e il suo vice finlandese sono stati richiamati alla realtà e al rispetto dei patti, ossia a dettagliare l’annunciato ma non ancora varato piano di investimenti per il lavoro. Tali investimenti devono essere uno strumento non monetario ma strutturale, ossia fondato sulla creazione di stock di capitali governati dalla mano pubblica europea anziché nazionale che ora è sottoposta a inaudite e assurde limitazioni.

Un cambiamento neokeynesiano? Non è questione di nominalismi, ciascuna forza politica europea e ciascuna cultura nazionale interpreta la situazione con i suoi valori e i suoi strumenti culturali. E la cancelliera Angela Merkel può pure continuare ad attaccare Mario Draghi sulle misure non convenzionali che ha in animo la Bce, l’importante è che la Germania riconosca la gravità della crisi e agisca di conseguenza. Del resto, la crisi da deflazione si sta radicando sempre più e inizia a essere chiaro a tutti, anche ai falchi del Nord, che occorre cambiare linea economica in Europa. La Francia si sta risvegliando dall’immenso torpore in cui era caduta dopo l’eliminazione politica di Jacques Chirac e del gollismo di combattimento che ispirava i suoi fedeli. E Nicolas Sarkozy è stato una meteora che non ha spostato di un etto lo squilibrio dell’asse franco-tedesco, ormai tutto orientato verso la Germania.

Certo, la crisi economica è devastante e da qui il guizzo di orgoglio nazionale con la sfida francese sul superamento del parametro del 3% che l’Italia renziana si è affrettata a rilanciare, ricevendo prima un richiamo duro dalla Merkel e ora, con un cambiamento di toni radicale, un abbraccio caloroso per l’iniziativa parlamentare in corso sui temi del lavoro. Un’apertura di fiducia che non è casuale o solo frutto dell’iniziativa italiana: segnala che la crisi morde anche una Germania che esporta il 57% del Pil in Europa – sì, proprio in Europa – e che sta comprendendo che ora deve cambiare politica. Renzi può approfittarne, purché non fallisca sugli stessi terreni di gioco che si è scelto.

Qui siamo dinanzi alla tipica situazione del cosiddetto bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Mi spiego. Se sono gli investimenti che creano lavoro, bisogna credere sino in fondo in questa battaglia e l’Europa deve fare da volano e da corona. Ma poi ogni Stato deve fare la sua parte. In primo luogo con intermediari e istituzioni finanziarie pubbliche che allarghino il fronte degli investimenti a livello appunto nazionale. Ma se si accettano i parametri nuovi dell’investimento creatore di lavoro come strumenti essenziali anticrisi, non si può contestualmente continuare a sostenere che la liberalizzazione del mercato del lavoro di per sé sola crea occupazione.

A questo assunto, chiunque non abbia interessi di parte, non ci crede più. E i primi a non crederci sono gli imprenditori cui non piace licenziare tanto per farlo, se lo fanno ci sono costretti. Succede quanto capita in guerra. I militari – salvo qualche eccezione – sono gli ultimi a volerla fare perché sanno quanto sia terribile. Lo stesso vale per i licenziamenti: ciò che l’impresa chiede è poter decidere quando e chi assumere e, per converso, chi eventualmente licenziare. Due secoli di lotte sociali in Occidente hanno affermato il principio universale che anche i lavoratori debbono dire la loro su questo tema, allorché si tratta del loro futuro. È scritto nella storia: i sindacati dei lavoratori sono nati per questo, così come quelli dei datori di lavoro.

L’alternativa inevitabile a questo modello di confronto negoziale, se non si vuole sprofondare nel caos della microconflittualità e dello scontro sociale, è trasformare il modello di negoziazione e di confronto in un modello statualistico di regolazione del mercato del lavoro fondato sulla iperlegiferazione, la giurisprudenza, gli avvocati e i magistrati con danni immensi ai fattori di lavoro e di produzione. Non è un caso se l’Italia sino agli anni Settanta ha avuto alti tassi di crescita pur con forti livelli di negoziazione sindacale.

Certo, i dati macroeconomici non vanno ignorati ma vorrà pur dire qualcosa se dopo lo Statuto dei lavoratori l’Italia non ha più avuto una pace sociale vera, un sindacato negoziale associativo prevalente su quello classista e una rappresentanza imprenditoriale fondata sul self help e non invece sull’infausta cultura statualistica come quella dell’accordo del 1974 tra Giovanni Agnelli e Lucio Lama che portò al punto unico di scala mobile con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Renzi e i suoi ministri, in primis quello del Lavoro, devono avere chiaro l’obbiettivo finale: costruire finalmente un sistema di relazioni industriali di modello anglosassone, ossia intersindacale a più livelli di contrattazione non confliggenti e sovrapposti. Per fare ciò occorre una moratoria di tutte le leggi e leggine che uccidono un Paese di piccole imprese con decine di modelli di assunzione che fanno, altresì, dimenticare al sindacato che deve essere in primo luogo un agente contrattuale e non un portatore dell’invadenza statuale. I lavoratori l’hanno già capito.

Coloro che ricorrono al famoso e infausto articolo 18 in caso di licenziamento scelgono non il magistrato (con anni di attesa) ma il risarcimento economico. Senza questo il bicchiere di Renzi e Poletti resterà mezzo vuoto. Se non si farà questa svolta, che è l’unica vera modernizzazione, continueremo a essere nelle mani di avvocati, magistrati e parlamentari. Ma se ci sarà la svolta, si vedrà allora che più che il conflitto prevarrà l’ordine e la ragionevolezza. Anche queste virtù fanno aumentare il Pil.

La causa delle cause

La causa delle cause

Enrico Cisnetto – Il Foglio

L’Europa non sta collassando. Non ancora, quantomeno, e comunque non perché Francia e Italia non rispettano i vincoli di bilancio. Lo deduco non dall’esito del vertice Ue sul lavoro, del tutto inutile, ma da un’analisi sulla vera origine dei problemi dell’eurosistema. Che non risiedono nei vincoli di bilancio imposti dai trattati, o nelle politiche di austerità volute dai tedeschi e neppure in quelle opposte predicate dai paesi mediterranei, o nei limiti statutari della Bce, e in tutti quegli errori che con faciloneria disarmante vengono dati in pasto a opinioni pubbliche che, di conseguenza, sollecitano atteggiamenti sempre più nazionalistici alle proprie classi politiche. O meglio, tutti questi sono sì errori, ma nessuno è quello decisivo. L’errore epocale, da cui tutto discende, è aver preteso di dare una moneta unica a paesi che non avevano e tuttora non hanno una governance democratica comune. E senza mettere rimedio a questa tara genetica, poco importa se prevale la linea del rigore o quella espansiva: l’eurosistema è comunque destinato a non funzionare. Anzi, più si discetta intorno alla presunta dicotomia, risalendo fino allo scontro Hayek-Keynes, e più si stende un velo omertoso sulla causa della cause della crisi europea.

Prendete la scelta della Francia di far slittare il contenimento del deficit. Il grave non sta nell’aver violato patti che in quanto “stupidi” meritano questo e altro, ma di non avere il coraggio di metterli apertamente in discussione, ponendo il problema politico nei vertici Ue.E sapete perché non lo fanno? Perché sanno che la risposta sarebbe quella di andare oltre i trattati, ed essendo autolesionistico farlo tornando indietro alle monete nazionali, l’unico modo sarebbe andare oltre, cedendo definitivamente sovranità politica e istituzionale a un governo eletto direttamente dai cittadini che hanno la stessa moneta in tasca. Ma per i francesi esistono solo gli interessi nazionali. E pazienza se debito federale, Bce leader of last resort e così via, vanno a farsi benedire. D’altra parte, è falsa la convinzione secondo cui la loro sarebbe una prova di forza muscolare contro la Germania e la Ue a trazione tedesca. No, si tratta solo di una mossa di politica interna nel tentativo (utile ma un po’ disperato) di tagliare la strada all’ascesa della Le Pen all’Eliseo. Per carità, bene che riesca, meglio un po’ di deficit in più di quella funesta eventualità – così come meglio gli inutili (dal punto di vista economico) 80 euro di Renzi piuttosto che Grillo a Palazzo Chigi – ma se la destra populista e nazionalista è arrivata a insidiare socialisti e gollisti è colpa di una politica che, tanto con Sarkozy quanto con Hollande, è stata fallimentare. La Germania si è solo limitata a farsi i suoi interessi, e meglio di quanto gli altri non abbiano fatto i propri.

E veniamo a noi. Il semestre europeo a guida italiana ha superato la metà della sua durata senza aver lasciato alcun segno, nonostante si fossero alimentate grandi aspettative. Né s’intravede all’orizzonte nulla che possa far pensare che nella seconda parte la musica cambi. Inoltre, sul deficit stiamo facendo persino peggio della Francia: sforiamo rispetto agli impegni presi, ma facciamo tinta che non sia così. Invece, ora si affaccia un’opportunità straordinaria, che Renzi dovrebbe cogliere al volo: partire dall’inevitabile processo che in Commissione si aprirà nei confronti di Italia e Francia, per lanciare la proposta di una riforma strutturale dei trattati europei, una riscrittura finalizzata a rimettere in moto l’arenato – ma sarebbe più giusto dire, mai partito – processo di integrazione politico istituzionale ed economico-finanziaria dell’area euro.

Attenzione, non si tratta di costituire improbabili cartelli mediterranei “espansivi” contro i maledetti “rigoristi” del nord. Anche perché entrambe le politiche hanno buone ragioni, e sono necessarie entrambe in un mix che non sarà mai ottimale se ciascuno stato rimane pienamente sovrano. Chi mi segue sa che la mia e una posizione “liberal-keynesiana” – e non è un ossimoro, se si evita un approccio dogmatico – ma sa anche che ho sempre sostenuto che non si poteva uscire con nuovi surplus di spesa corrente dalla crisi causata da un eccesso di debito privato (la bolla scoppiata nel 2007 negli Usa e trasferitasi immediatamente al sistema bancario mondiale) è tamponata con una moltiplicazione di debito pubblico (quello servito a immettere liquidità ed evitare il default creditizio). Spesa sì, ma solo in conto capitale (investimenti pubblici), e non senza mettere in gioco il patrimonio degli stati, sottoponendoli così a un sano dimagrimento (senza per questo sposare le tesi ultra dello “stato minimo”). Dunque, evitiamo la puerile polemica anti tedesca e non illudiamoci che domattina possa nascere l’asse Parigi-Roma. Invece, Renzi prenda un’iniziativa forte: convochi a Roma, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, i leader continentali che pesano e sparigli un gioco in cui rischiano di finire stritolati prima di tutto gli italiani, ma con noi l’euro e l’Europa intera. La Merkel è una ragioniera? Bene, si dimostri di saper fare di meglio.