About

Posts by :

L’asse fragile con la Francia

L’asse fragile con la Francia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un punto che accomuna le due capitali, è piuttosto il tentativo di non soffocare un’economia già debole con un’ulteriore stretta ai conti. Entrambi i leader, Matteo Renzi e Hollande, sono in cerca di investimenti, consumi delle famiglie, un qualche segno di ripresa all’orizzonte. Ma entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte.

Se l’Italia seguisse le orme di Parigi sul deficit il suo debito salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo. Se l’Italia pagasse interessi sul debito come la Francia, sarebbe la Germania. E se la Francia pagasse interessi sul debito come l’Italia, sarebbe sul punto di chiamare la troika. Naturalmente niente di tutto questo succede nella realtà, ma la situazione nei due Paesi è tanto simile in superficie quanto diversa a una seconda occhiata. I due governi hanno molti degli stessi problemi e delle stesse idee, ma non hanno interesse a prendersi l’un l’altro a modello. Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi.

Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero.Questa Francia così poco competitiva, così minacciata dal Front National di Marine Le Pen, può resistere solo se assimilata dal mondo esterno al «nucleo duro» d’Europa. Non alla cosiddetta «periferia».

Allo stesso tempo, neanche il governo di Roma ha interesse a seguire le orme di François Hollande. È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» – al 2,5% e non al 5% del Pil – il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda.

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Chi vive in case popolari pagherà quest’anno una Tasi più cara dell’Imu versata nel 2012. Quei cittadini, invece, che abitano in case di pregio dovranno pagare meno per la Tasi rispetto all’Imu di due anni fa. È questo l’amaro risultato di uno studio curato dal dipartimento politiche fiscali della Cisl sulle 20 città capoluogo di regione, analizzando le delibere delle aliquote pubblicate sul sito del ministero dell’Economia.

Il sindacato ha paragonato le due imposte considerando, come prima casa, tre tipi di immobili con rendita catastale di 300, 500 e 1.000 euro. Nei conteggi sono state applicate le detrazioni deliberate dai singoli Comuni (senza considerare gli sgravi per i figli a carico, facoltà assegnata per legge ai singoli municipi). A conti fatti diminuiscono gli importi della Tasi rispetto all’Imu al crescere della rendita catastale. «È necessario superare le iniquità di Tasi e Imu – chiede Maurizio Petruccioli, segretario confederale della Cisl – facendo pagare proporzionalmente di più chi possiede più case e chi ha più valore catastale, anche per restituire risorse alle famiglie che hanno meno».

La ricerca ha mostrato che in 11 città su 20 migliaia di cittadini, tra i ceti sociali più bassi, per una rendita catastale di 300 euro dovranno pagare la Tasi, quando prima l’Imu (in 9 casi su 20) costava «zero», grazie alla detrazione prevista per l’abitazione principale pari a 200 euro (indipendentemente dalla rendita catastale). Quest’anno per la tassa sui servizi indivisibili (illuminazione e manutenzione stradale e sicurezza) si oscilla dagli 11 euro di Milano ai 126 di Campobasso, passando per Venezia (46), Ancona (96), L’Aquila (100) e Bari (66), comprese Aosta (50) a Palermo (45). La Cisl rivela anche che a Trieste, Trento, Bologna e Firenze, tenendo come riferimento sempre i 300 euro di rendita catastale, le amministrazioni locali hanno confermato l’esenzione totale dal pagamento della Tasi, così come avveniva per l’Imu. In altre città, invece, è stata mantenuta una progressione legata agli estimi catastali. Infatti i cittadini che abitano in case non di pregio pagheranno di Tasi meno rispetto a quello che prevedeva l’Imu: 16 euro a Roma (contro i 52 di due anni fa), 56 a Torino (dove se ne pagavano 89) e Catanzaro (61 contro 102). Addirittura dimezzata la Tasi a Potenza (26 euro contro 52).

Per gli immobili con rendita di 500 euro, si pagherà una Tasi superiore all’Imu 2012 in 8 capoluoghi tra i quali Venezia (194 euro invece di 136), L’Aquila (168 contro 111), e Palermo (243 contro 203). A Firenze invece l’aumento è di 1 euro (137 rispetto a 136). Si pagherà, invece, una Tasi più leggera tra l’altro a Roma (150 euro contro 220), Torino (167 contro 283) e Napoli (177 contro 220). Scenario completamente diverso se consideriamo un immobile con rendita catastale di 1.000 euro: sono solo due i comuni capoluogo che pagano un importo superiore alla vecchia Imu (Trieste con 554 contro 455 euro e Firenze 484 contro 472). L’ampliamento della base imponibile e l’eliminazione della detrazione fissa universale, sottolineano dalla Cisl, di fatto hanno ampliato la platea dei paganti mantenendo intatto il gettito.

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.
Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Tutti gli Stati dell’area euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale, ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle Pubbliche amministrazioni a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare i programmi che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti, come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Secondo la Camera di commercio federale, per evitare un arresto delle attività, specialmente nei trasporti – basta viaggiare sulle autostrade per awertirlo – occorre investire 80 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Il confronto con la piccola Austria è drammatico: un tasso d’investimento aggregato (infrastrutture, industria, commercio) pari al 17% del Pil in Germania rispetto al 27% in Austria (e a una media Ue del 21%). Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato gli esperti stranieri a fornire suggerimenti.

Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che “emigrano” in vicini Paesi neocomunitari. Dall’altro, (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che – per ragioni campanilistiche – hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder-Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano la capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% di forza lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi.

È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare i programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei. Il 4 luglio le banche di sviluppo dei Paesi del G20 si sono riunite a Roma per definire scambi frequenti di strategia e di prassi. Da luglio, il club delle maggiori banche di sviluppo non solo europee (il Long term investors club – Ltic) è presieduto dall’ltalia. Anche se gli storici dell’economia ritengono che la Vnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la più antica banca di sviluppo, l’ltalia è uno dei Paesi dell’Europa occidentale con più lunga e più varia tradizione.

Uno studio recente di Amadeo Lepore analizza la storia della Cassa per il Mezzogiorno e rafforza le conclusioni a cui erano giunti una quindicina di anni fa Alfredo Del Monte e Adriano Giannola: la Cassa ha funzionato, sino alla meta degli anni Settanta, come le migliori banche di sviluppo. È stata spesso elogiata dalla stessa Banca mondiale che ha incanalato i propri finanziamenti all’ltalia (sino al 1964) non tramite i ministeri ma tramite la Cassa. Un libro di Giovanni Farese e Paolo Savona, fresco di stampa, riguarda il ruolo personale del presidente della Banca mondiale, Eugene Black, perché la Cassa diventasse il modello per il resto d’Europa e del mondo. Sappiamo che interessi particolaristici miopi hanno portato al declino e crollo della Cassa a partire della seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, come documentato in due ricchi volumi di Marcello De Cecco e di Gianni Toniolo, nell’ultimo decennio la Cassa depositi e prestiti è stata gradualmente trasformata da una direzione generale del ministero del Tesoro a una delle più grandi, più importanti e più prestigiose banche di sviluppo europee. In base a queste esperienze, sia positive sia negative, possiamo – anzi dobbiamo – fornire indicazioni alle altre banche di sviluppo in vista di una strategia coordinata per tornare a crescere.

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

NOTA

I 100 euro in più al mese in busta paga prospettati dal presidente del Consiglio Matteo Renzi rappresenterebbero per le piccole e medie imprese italiane l’erogazione ai loro dipendenti del 100% del Tfr, dal momento che nel 2013 lo stipendio mensile medio percepito nelle Pmi è stato di 1.327 euro (dati del Rapporto sui salari dell’Isrf Lab/Cgil).
Se deliberata, questa disposizione colpirebbe oltre 4 milioni di imprese italiane (quelle da 1 a 49 dipendenti), costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro: in assenza di un’eventuale accordo tra Governo e Abi (la cui percorribilità è ancora tutta da dimostrare), a tanto ammonterebbe infatti il costo degli interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie.
Come si arriva a questa cifra? L’assorbimento di capitale comporta un costo che corrisponde al prezzo del reperimento delle risorse finanziarie corrispondenti: tale è definito in finanza come “costo del capitale”, e viene espresso attraverso un tasso di rendimento annuo. I dati Banca d’Italia ci dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto trimestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8.94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro (la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, dati Covip-Istat), le aziende finirebbero per sostenere oneri finanziari per appunto 876 milioni di euro su base annua.
Vi è inoltre da considerare il caso delle imprese che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore. Non va infine dimenticato come l’anticipazione del Tfr in busta paga comporterebbe per le piccole e medie imprese un’ulteriore riduzione della loro capacità di accesso al credito per la gestione ordinaria e per nuovi investimenti.
«Un sistema già stremato dall’alta tassazione e molto spesso dal ritardo con cui la Pubblica Amministrazione paga i suoi debiti commerciali e fiscali – commenta il presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – si troverebbe a dover finanziare con proprie risorse la redistribuzione fiscale immaginata dal Governo. Per mettere più soldi nelle buste paga dei lavoratori c’è una sola soluzione: quella di ridurre sensibilmente il cuneo fiscale e contributivo, evitando di utilizzare le nostre piccole imprese come un bancomat».
Rassegna Stampa:
Il Giornale
Libero
Resta la deflazione e arretra il Pil

Resta la deflazione e arretra il Pil

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

L’Italia rimane in deflazione anche a settembre: -0,3% rispetto al mese precedente. E a raffreddare sempre di più i prezzi, secondo i dati dell’Istat, sono ancora l’energia, le comunicazioni e gli alimentari. A peggiore il quadro macroeconomico ieri è arrivato anche la nota mensile Istat che prevede una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre dell’anno, un revisione al ribasso rispetto all’intervallo di +0,2%/-0,2% della precedente stima. La causa è la contrazione del Pil nel secondo trimestre dello 0,2%. Nell’area euro non è ancora scoccata l’ora della deflazione ma la debolezza della domanda ha prodotto un’altra frenata dei prezzi: dallo 0,4% allo 0,3%, vicino alla crescita zero. La stima flash dell’Eurostat individua moderati spostamenti dei prezzi per servizi, alimentari e beni industriali e un deciso arretramento dell’energia.

Tornando all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’Istituto di statistica, l’indice nazionale dei prezzi al consumo è calato a settembre dello 0,1% su base annua, lo stesso valore toccato ad agosto quando il Paese é tornato in deflazione per la prima volta dal 1959. A settembre i cali congiunturali più pronunciati dei prezzi sono quelli di trasporti (-3%), ricreazione e cultura (-0,6%) e comunicazioni (-0,4%). Dall’altro aumenti sono stati segnati dai servizi ricettivi e di ristorazione (+0,8%), dall’istruzione (+0,6%), da alimentari e bevande analcoliche (+0,2%), dall’abbigliameno e dai mobili. Rispetto a un anno fa, i prezzi delle comunicazioni risultano in marcata flessione (-8,2%) così come sono in diminuzione i prezzi di abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-1,2%) e quelli di alimentari e bevande analcoliche (-0,1%).

Secondo l’ufficio studi di Confcommercio «al di là degli effetti stagionali, i dati Istat riflettono le difficoltà della domanda per consumi. Nell’ultimo anno, nonostante l’aumento dell’Iva che ha coinvolto circa il 50% dei beni e servizi compresi nel paniere, in sei occasioni i prezzi hanno registrato una diminuzione congiunturale, fenomeno che appare ancora più eccezionale se si considera che non è stato determinato da crolli delle materie prime alimentari o petrolifere». Confcommercio conclude che è necessario attuare, con la prossima legge di Stabilità, «misure efficaci che, modificando favorevolmente le aspettative di famiglie e imprese, scongiurino il pericolo che la deflazione si consolidi». Per Sergio de Nardis, capo economista di Nomisma, «l’inflazione negativa influisce sulle attese future dei prezzi, aumenta i tassi di interesse reali e deprime l’economia. Serve una politica fiscale di stimolo e una politica monetaria espansiva». Coldiretti sottolinea che «gli effetti negativi congiunti di deflazione e consumi si evidenziano con il -4,4% dei prezzi dell’ortofrutta e con gli acquisti scesi ben al di sotto del chilo al giorno per famiglia, un valore inferiore a quello raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità».

Se la ripresa dei beni di consumo è una delle condizioni per superare la deflazione, qual è il quadro della domanda più aggiornato? Nelle vendite al dettaglio l’Istat segnala il -1,1% nei primi 7 mesi dell’anno mentre Iri registra un pessimo agosto nel largo consumo: -3,1% a valore, anche per il calo dei prezzi. Nell’abbigliamento e calzature, invece, Sita-Nielsen indica un -3% delle vendite da gennaio a luglio. Meno peggio dell’anno primo: -7 per cento.

Un Paese senza motore

Un Paese senza motore

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un’inflazione molto bassa in Eurolandia. Come conseguenza, una deflazione – si spera non ancora “cattiva”, cristallizzata al punto da far rinviare gli acquisti – in Italia. L’indice armonizzato italiano è alato a settembre e agosto, dopo essere rimasto fermo in luglio. È questo il dramma della lowflation, la bassa inflazione che attanaglia l’Unione monetaria. Costringe i Paesi in difficoltà a veder calare i prezzi per restare competitivi verso i partner dell’area: in assenza di un cambio che possa assorbire l’urto, tocca a prezzi e salari muoversi più lentamente che nei Paesi già in ripresa. Quando però la media di Eurolandia è così bassa, l’inflazione della Germania è allo 0,8% e quella francese (ad agosto) allo 0,4%, non c’è altra possibilità che far calare i propri prezzi. Ben diversa sarebbe la situazione se l’inflazione media di Eurolandia fosse al 2%, e quella tedesca o francese un po’ più alta…

Le cose potrebbero essere ancora tollerabili se i prezzi calassero tutti insieme e nella stessa misura per tutti i beni e servizi. Non è mai così. Ad agosto per esempio i prezzi alla produzione di beni durevoli e di quelli strumentali erano in crescita; mentre è quasi impossibile comprimere i salari. La soluzione, per molte aziende, è chiudere, con una tragica perdita di posti di lavoro e di capacità produttiva, di “potenza” del motore dell’economia. Secondo l’Istat anche nel terzo trimestre il Pil italiano risulterà in flessione: le conseguenze di questa terza recessione minacciano di essere durature.

Il prezzo che l’Italia sta pagando per questa lowflation è dunque altissimo e paradossale: i suoi problemi, l’alto debito pubblico e la rigidità dell’economia, hanno sempre minacciato inflazione, non deflazione. È anche per questo motivo che non si capiscono più gli ostacoli politici posti alla Banca centrale europea nel suo compito di tenere sotto controllo i prezzi. È vero che gli strumenti della politica monetaria possono creare effetti perversi, premiare banche, aziende e governi imprudenti e inefficienti e dare a tutti una cattiva lezione. Lasciare però che tutto questo faccia perdere di vista alla Bce l’obiettivo principale, tenere l’inflazione al 2% nel medio periodo, sembra un errore di calcolo dai costi molto più elevati dei benefici.

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

In attesa che la nuova Commissione Ue dica la sua sulla legge di stabilità, il governo gioca d’anticipo con la mossa congiunta Tfr e bonus Irpef (i 180 euro promessi da Matteo Renzi) e prova a impostare una manovra “espansiva”, per finanziare riduzioni di imposta e nuove spese. Il via libera di Bruxelles tuttavia non è del tutto scontato.

Il nuovo quadro macroeconomico contenuto nella Nota di aggiornamento del Def (Pil a -0,3% quest’anno e a +0,6% nel 2015) con il deficit che staziona tra il 3 e il 2,9%, non offre a bocce ferme grandi margini di azione. Si prova a utilizzare quei margini di deficit che potrebbero aprirsi l’anno prossimo tra il valore del “tendenziale” e quello del “programmatico”, tenendo conto che al momento la manovra da 20-22 miliardi risulta coperta solo per 13 miliardi. Spending review, sforbiciata alle agevolazioni fiscali, maggiore Iva attesa dallo sblocco dei debiti commerciali della Pa, lotta all’evasione, ma anche risparmio in conto interessi. Il tutto senza sforare il tetto massimo del 3% del Pil.

In poche parole, da Roma parte questo messaggio diretto a Bruxelles: l’economia italiana è alle prese con la miscela esplosiva di recessione e deflazione, come confermano le anticipazioni diffuse ieri dall’Istat relativamente al terzo trimestre del 2014. La legge di stabilità non opera correzioni ai saldi di finanza pubblica, ma è interamente “espansiva”. Serve cioè a rendere strutturale il bonus Irpef da 80 euro per i redditi entro i 26mila euro annui, a ridurre di 2 miliardi l’Irap e a finanziare nuove spese: 1 miliardo per allentare il patto di stabilità interno, 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 1 miliardo per la scuola. Si prova in poche parole a scommettere sull’auspicato aumento del Pil, per ora inchiodato nel 2015 attorno a un modesto +0,6%, grazie appunto alle misure che stanno per essere inserite nella legge di stabilità, e all’effetto atteso dalle riforme strutturali in cantiere, in primis il lavoro.

Schema che ha indubbiamente una sua logica, percorso che in parte il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha già anticipato nelle grandi linee al nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e che ora dovrà essere “validato” da Bruxelles. Non mancano gli elementi di rischio, poiché sulla carta (qualora prevalesse un orientamento più restrittivo all’interno della Commissione) a novembre la Commissione potrebbe anche invitare il governo a “riscrivere” in tutto o in parte la legge di stabilità. D’accordo le circostanze attenuanti in presenza di una prolungata fase recessiva – potrebbe obiettare l’esecutivo comunitario – ma l’Italia risulterebbe inadempiente rispetto ai parametri europei, che possono e devono essere interpretati in modo flessibile ma che tuttavia (fino a quando non verranno modificati) potranno sempre essere posti nuovamente con decisione sul tavolo del confronto bilaterale con il nostro paese. Pur rispettando il tetto del 3%, il deficit nominale resterebbe sempre nei dintorni del tetto massimo. Inoltre non sarebbe rispettata la regola del debito, saremmo comunque in presenza di squilibri macroeconomici eccessivi, non assicurando che la riduzione del deficit strutturale converga verso l’obiettivo di medio termine nei tempi concordati. Lettura eccessivamente ortodossa della disciplina di bilancio, certamente, ma non la si può escludere a priori.

Viceversa – ed è auspicabile che la decisione di Bruxelles vada in questa direzione – verrebbe concessa una sorta di apertura di credito, se pur condizionata e a tempo, nei confronti del nostro paese. Via libera in sostanza alla manovra “espansiva”, soprattutto se accompagnata dalla riforma del mercato del lavoro, e sospensione del giudizio fino alla prossima primavera quando si potranno cominciare a verificare sul campo gli effetti della strategia di politica economica messa in campo dal governo. Un sì condizionato, dunque, e questa pare al momento l’ipotesi più probabile. Sbocco atteso della trattativa con Bruxelles, che tuttavia non ammette ulteriori deviazioni. C’è da chiedersi ad esempio quale sarebbe il giudizio di Bruxelles qualora la riforma del lavoro perdesse pezzi fondamentali nel corso dell’esame parlamentare, o se il fuoco di fila degli emendamenti alterasse l’impianto di partenza della stessa legge di stabilità. Percorso a ostacoli, dunque, meta incerta, obiettivo arduo la cui realizzazione presuppone una forte determinazione politica e un deciso sostegno parlamentare.

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

Giuseppe Berta – Il Secolo XIX

La crisi, in cui siamo entrati nell’autunno di sei anni fa e di cui non riusciamo a vedere la fine, presenta una differenza fondamentale rispetto alle precedenti: non è un passaggio congiunturale, una fase che una volta superata lascia ritenere che le cose riprenderanno più o meno come prima. No, la crisi attuale rappresenta una distruzione tale di ricchezza e, soprattutto, di capacità produttiva che prepara un declino strutturale del sistema economico del nostro Paese. L’Italia già oggi non assomiglia più alla realtà che era ancora pochi anni fa. Ieri ce lo ha detto con inconsueta chiarezza e drammaticità il Cnel (a proposito, non era uno degli enti soppressi dal governo in carica? Fino a quando farà ancora sentire la sua voce?). Dal punto di vista occupazionale, non si tornerà alla situazione precedente alla crisi. Mancano all’appello due milioni di posti di lavoro e non si sa come potrebbero essere creati, dal momento che sono venute meno le basi economiche da cui dipendevano. L’Istat non è stato più rassicurante, anche se ha usato toni meno drammatici: prezzi e consumi continuano a flettere e segnali di ripresa non si vedono. Il mercato interno prosegue nel suo ripiegamento. L’occupazione complessiva ha fatto registrare un lievissimo miglioramento, ma quella giovanile è scivolata ai suoi minimi.

Questi gli indicatori che fanno da sfondo alla discussione politica sul Jobs Act. Ma a questo punto bisognerebbe mettere gli italiani di fronte alla vera questione che abbiamo davanti: se non cambieremo il corso della nostra economia, l’Italia tomerà a essere il Paese povero che era stato negli ultimi secoli, fino alla seconda guerra mondiale. Ciò vorrebbe dire che la popolazione attuale ha avuto la sorte di vivere una parentesi felice, quei cinquanta-sessant’anni inaugurati dal “miracolo economico” che per un po’ ci hanno fatto credere che potessimo diventare “ricchi”, assimilandoci progressivamente al nucleo forte dell’Europa. Ora stiamo scoprendo che è stata un’illusione. A meno che…

A meno che ci decidiamo finalmente a mobilitare i nostri risparmi e a impiegarli nello sviluppo di una serie di attività in grado di ricostituire la ricchezza della nazione, dando un posto di lavoro decente ai nostri concittadini, specie quelli più giovani, che hanno diritto a coltivare una speranza. Serve un’operazione in grande stile, cui non siamo abituati. Serve un grandioso esercizio di leadership condotto non sui particolari (come l’articolo 18), ma sulla sostanza. Nelle condizioni in cui l’Italia è oggi, bisognerebbe varare qualcosa di analogo alla Commissione economica della Costituente del 1946: consultare gli operatori economici e chiedere quale via di sviluppo potremmo seguire per uscire dalle sabbie mobili. E poi mobilitare risparmio e lavoro per una strategia di investimento che rilanci la nostra economia, ma su basi nuove rispetto a quelle del passato (che in buona parte non esistono più). In altre parole, invece di amministrare con cautela e parsimonia un patrimonio destinato a consumarsí, significherebbe investirlo, essendo disposti a rischiare. Sta a noi tutti – e non solo alla nostra carente classe dirigente – decidere se farlo oppure se rassegnarci al grigiore del declino.

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Francesco Manacorda – La Stampa

Potrebbero servire davvero altri 100 euro in busta paga promessi ieri dal premier agli italiani – per la precisione solo ad alcuni italiani – a spingere i consumi e l’economia? A differenza degli 80 euro messi a marzo nelle buste paga più basse attraverso un taglio delle aliquote fiscali questi nuovi 100 euro – che deriverebbero dall’anticipo di metà della liquidazione e riguarderebbero solo i dipendenti privati – non sarebbero reddito aggiuntivo, ma semplicemente reddito anticipato: una somma che va subito nella disponibilità dello stesso lavoratore a fronte però di una rinuncia a riscuotere dalla sua azienda quella stessa somma, debitamente rivalutata alla fine del rapporto di lavoro.

Alcune imprese, in questo scenario, potrebbero trovarsi penalizzate rispetto a quanto è accaduto in marzo. Allora, infatti, si decise di tagliare il cuneo fiscale sul lavoro solo a favore dei dipendenti e sulle aziende non ci furono effetti, ne negativi né positivi. Adesso, invece le aziende sotto i 50 dipendenti – quelle che possono tenere il Tfr in cassa e lo usano per soddisfare le loro esigenze di liquidità – vedrebbero svuotarsi all’improvviso la cassaforte. Renzi assicura che si verrà incontro alle loro esigenze facendo sì che il denaro a basso costo che arriva dalla Bce alle banche italiane sia convogliato proprio a queste aziende. Le banche non paiono intenzionate a fare le barricate. Dunque la soluzione è possibile, ma probabilmente non è semplice: le esperienze di credito per decreto del passato – ricordate i prefetti che secondo Giulio Tremonti dovevano vigilare sulle banche? – non sono memorabili. E in più adesso gli istituti devono fare i conti con una serie di esami e regole internazionali che li porteranno a stringere e non ad allargare il credito.

Al di là delle polemiche sull’utilizzo del Tfr, comunque, è chiaro che per il governo – in questa fase economica – il risparmio privato, in alternativa ai consumi, non è più una virtù. Del resto, se è vero che dalla crisi del 2008 a oggi il tasso di risparmio delle famiglie italiane è calato sensibilmente – secondo i dati Bankitalia solo dal 2008 al 2010 è sceso dal 12,1 al 9,7% del reddito lordo – resta il fatto che si tratta di una percentuale elevata se confrontata a quella di altri Paesi occidentali. I depositi bancari, poi, aumentano e da due anni le sottoscrizioni di fondi comuni salgono senza sosta: solo nei primi sei mesi del 2014 gli italiani hanno messo nel risparmio gestito 60 miliardi contro i 65 dell’intero 2013.

Il problema, però, è che la cinghia di trasmissione tra reddito disponibile, propensione ai consumi e propensione al risparmio non funziona sempre allo stesso modo. È ovvio che se il reddito è appena sufficiente sarà speso tutto in consumi e il risparmio diminuirà o scomparirà del tutto. Ma non è altrettanto ovvio che mettendo più soldi in tasca agli italiani – siano essi 80 o addirittura 180 euro – questi si trasferiscano integralmente, o almeno in parte, sui consumi. In una fase d’incertezza come questa è più facile che vengano destinati a un prudente risparmio. Addirittura si potrebbe pensare che in alcuni o in molti casi il Tfr anticipato possa essere reinvestito subito in piani pensionistici individuali, per far fronte a un trattamento futuro che – basato ormai solo sul sistema contributivo – sarà inevitabilmente più basso di quello della generazione precedente. In Italia ci lamentiamo molto dell’insistenza tedesca per un’austerità di bilancio che rischia di soffocare l’economia, ma poi ciascun capofamiglia cerca per quanto possibile di fare di casa sua una piccola Berlino, virtuosa nelle scelte finanziarie, prudente nelle spese e nemica del debito.

Mettiamola così: senza soldi in più i consumi non sono destinati a crescere. Ma solo con soldi in più non è assolutamente detto che crescano. Per far rinnegare agli italiani la virtù privata del risparmio che si trasforma in vizio pubblico serve anche la fiducia. O almeno ci vuole qualche certezza in più all’orizzonte. Su alcuni fronti che alimentano l’incertezza – dalla Siria all’Ucraina – un singolo governo nazionale non può quasi nulla. Su altri capitoli, invece, può essere incisivo: una ragionevole certezza sull’assenza di nuove tasse (anche occulte o in arrivo dagli enti locali), una definizione chiara delle regole sul lavoro e una transizione – se ci sarà – all’anticipo del Tfr senza eccessive complicazioni per dipendenti e aziende, peseranno di sicuro sulle nostre scelte di consumo e di risparmio. Anche se a fine mese non le vedremo segnate sulla busta paga.