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La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

Stefano Lepri – La Stampa

«Arrendetevi, siete circondati» si potrebbe con humour gridare ai governanti tedeschi. Di fronte a una crisi che non vuole finire, matura dappertutto nel mondo l’idea che occorra provare soluzioni diverse dall’austerità pura e dura. Anche il Fondo monetario internazionale, a lungo dominato dalla dottrina neo-liberista secondo cui la spesa pubblica è perlopiù nociva, ritorna alle sue origini keynesiane e rooseveltiane: ampi investimenti in infrastrutture sarebbero utili alla ripresa.

Si può dare lavoro a chi non l’ha costruendo per il futuro. Se non ora, con un costo del denaro cosi basso, quando? In Europa è Berlino a ostacolare il progetto di investimenti transnazionali del nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e le proposte ancora più ambiziose del governo polacco. Eppure all’interno della stessa Germania la gente si lamenta di ponti da rifare e strade malandate. Con una punta di malignità, il Fmi giudica efficace la «regola d’oro» di tenere i bilanci pubblici in pareggio al netto degli investimenti: era nella Costituzione tedesca, prima che fosse inasprita per dare l’esempio ai Paesi spendaccioni. Vale la pena di dare l’esempio facendo male anche a sé stessi? La Germania continua a rinfacciare alla Francia i bilanci in deficit, ma i suoi li tiene in ordine investendo la metà rispetto alla Francia.

Sarebbe forse meglio tornare a quella regola aurea. E intanto compiere uno sforzo eccezionale qui e ora per uscire dalla crisi: nei Paesi con bilanci solidi e come Europa nel suo insieme. L’Italia da sola, troppo indebitata, non può permetterselo. E poi non dobbiamo dimenticare che le nostre infrastrutture sono carenti non perché negli anni passati abbiamo speso poco, piuttosto perché abbiamo speso male. Il timore che si costruisca non ciò che serve, ma ciò che fa guadagnare qualcuno, diventa senso comune; alimenta le proteste, giustifica ogni tipo di ostilità al nuovo. Oggi quasi tutti preferirebbero una tassa in meno piuttosto che il cantiere di una metropolitana in più: occorrerà prima tornare a fidarsi dei poteri pubblici.

La crescita che non c’è

La crescita che non c’è

Giuseppe Turani – La Nazione

I senza lavoro sono tantissimi: più del 12 per cento in totale e più del 43 per cento fra i giovani. E già questa è una situazione drammatica. Ma bisogna aggiungere due altre considerazioni. In realtà i senza lavoro sono molti di più perché molti sono così scoraggiati che non lo cercano nemmeno più e provano ad arrangiarsi in qualche modo. La seconda considerazione viene dal Cnel che prima di chiudere i battenti ha avuto uno slancio di sincerità: è possibile che non si torni mai più ai livelli di occupazione che avevamo prima della crisi con meno del 7 per cento di disoccupati. Questa cupa previsione, purtroppo, non è campata per aria. In questo paese la crescita non c’è e non ci sarà ancora per lungo tempo, se non cambia davvero qualcosa (ma che cosa?).

Allo stato attuale dell’arte (si diceva una volta) la situazione è questa: da qui al 2017 si crescerà in media dello 0,4 per cento l’anno, dal 2018 al 2022 la crescita sara dell’l,2 per cento (previsioni Oxford Economics). Nel 2022, data molto lontana, i senza lavoro in Italia saranno ancora poco meno del 10 per cento. D’altra parte questa previsione non deve stupire. C’è talmente poca crescita che è impossibile immaginare una forte ripresa dell’occupazione. Se la gente gente non consuma e se le aziende non sanno a chi vendere i loro prodotti e i loro servizi, perché mai dovrebbero assumere delle altre persone, oltre a quelle che hanno già? Una volta si sosteneva che per avere un aumento dei posti di lavoro bisognava puntare su una crescita almeno del 3 per cento. Ma qui siamo lontanissimi da questo traguardo. Da qui al 2022 non c’è un solo anno in cui sia previsto di andare non al 3 per cento, ma almeno all’1,5, cioè la metà: siamo sempre poco al di sopra dell’1 per cento o poco al di sotto.

La conclusione alla quale si arriva (che poi è la stessa del Cnel) è che in Italia la disoccupazione è ormai diventata un fatto strutturale, cioè stabile, come il Colosseo e la buona cucina. Siamo un paese bloccato. Anche facendo tutte le cose giuste e per benino, più in là di tanto non andiamo. Servirebbe una vera rivoluzione: via tre quarti della burocrazia e briglie molto lunghe sul collo delle imprese purché si diano da fare. Una rivoluzione, insomma. Invece siamo qui impantanati nella discussione attorno a un’anticaglia come l’articolo 18, come se fosse il confine fra il bene e il male. Il male, invece, è molto più vasto: è in un paese bloccato per sua stessa scelta.

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Il Foglio

Il giorno prima dicevano che sarebbe stato necessario “benaltro”. Il giorno dopo affermano con la stessa sicumera che bisognava fare “di più e di meglio”. Gli indiziati sono i soliti: confindustriali, sindacati, opinionisti vari. Molti fra loro – non tutti, ben inteso, infatti Repubblica ieri per esempio titolava a tutta pagina “Articolo 18, vince Renzi” – non sembrano essersi accorti che due sere fa, alla direzione nazionale del Partito democratico, il segretario del principale partito della sinistra ha sostenuto che “l’imprenditore ha il diritto di licenziare”, lo ha ripetuto ieri in inglese al Washington Post nel caso non si fosse capito, e il partito in questione ha votato compatto una mozione per riformare di conseguenza il mercato del lavoro italiano. La minoranza ha fatto la minoranza, perfino in maniera meno granitica e originale di quanto ci si potesse attendere da politici così esperti.

Ma il punto resta: se la delega sarà approvata in Parlamento, e se il governo scriverà i decreti promessi, il mercato del lavoro sarà un po’ più flessibile di prima e perfino l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – concentrato legislativo di un’ideologia ormai fuori dal tempo – sarà completamente superato per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Sia chiaro: non fossero esigenti per definizione, i commentatori – noi inclusi – avrebbero poco da commentare. Ma dopo che per mesi si è tentato di sviare l’italiano medio, sostenendo che scalfire ancora l’articolo 18 era poi piccola cosa, diventa incomprensibile la puntigliosità riformatrice e simil-thatcheriana del giorno dopo. Proprio adesso che, a riforma politicamente acquisita, sarebbe perfino legittimo parlare di “benaltro” – dal welfare alla contrattazione aziendale – e su questo incalzare il governo.

Insistere, insistere, insistere

Insistere, insistere, insistere

Il Foglio

Mentre si inasprisce il dissenso nell’ala minoritaria del Pd e nei sindacati sull’abrogazione dell’articolo 18, abrogazione che il premier Renzi pone nel Jobs Act col contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, arrivano i dati sulla disoccupazione in agosto. Anche in Italia, come in Europa, la disoccupazione ha registrato una flessione. Rispetto ad agosto del 2013, da noi, la riduzione dei disoccupati e dello 0,9 per cento, mentre a livello europeo è dello 0,4. Rispetto a luglio, in Italia vi è una diminuzione di 2,4 punti, mentre nell’Unione europea vi è una sostanziale stabilità. Certo, il nostro tasso di disoccupazione è comunque più alto della media del Vecchio continente: è al 12,3 per cento, contro il livello medio dell’11,5 per cento. Ma la nostra riduzione è maggiore, nonostante che la dinamica del nostro pil non sia positiva, a differenza di quella europea che è di modesta crescita.

La spiegazione della nostra migliore performance sta nell’effetto benefico della riforma dei contratti a termine, attuata nei mesi scorsi. E ciò indica che la strada della liberalizzazione del mercato del lavoro, che Renzi persegue nonostante i mal di pancia nel Pd e nella Cgil, è quella giusta. D’altra parte, l’Istat informa che ad agosto la disoccupazione giovanile e aumentata di 0,7 punti rispetto all’agosto del 2013: 88 mila giovani occupati in meno in un anno, a un tasso del 44 per cento. Un record negativo su cui soffia Camusso per guadagnare un titolo sui giornali. Eppure il premier ha ragione a dare battaglia per il nuovo contratto privo di articolo 18: mira a eliminare la discriminazione a danno dei giovani, e chi lo avversa pensa solo al posto degli anziani.

Italia in recessione e senza lavoro

Italia in recessione e senza lavoro

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

L’Italia avrà un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo per quest’anno e del 2,9 nel 2015. Che nel 2014 la tanto attesa ripresa dell’economia non fosse possibile, al di là di qualche piccolo segnale positivo, lo ha confermato ieri sera l’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2014-2016, approvato dal Consiglio dei ministri. Del resto le primissime stime dell’Istat diffuse ieri indicavano un dato negativo del Pil anche per il terzo trimestre di quest’anno.

In base alle nuove stime di Palazzo Chigi, il rapporto tra debito e Pil si attesterà al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015: il pareggio strutturale di bilancio slitta così al 2017, un anno in più rispetto alle previsioni del Def illustrate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ad aprile. Per quanto riguarda il Pil, il governo Renzi ipotizza nel 2014 un dato negativo (-0,3%), per poi crescere dello 0,6% il prossimo anno grazie «all’impulso positivo della Legge di Stabilità», spiega il ministro Padoan secondo il quale nel Def il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,6% nel 2014 e al 12,5% nel 2015.

Altre cattive notizie per l’occupazione vengono dall’Istat che «nonostante qualche segnale positivo», non vede «nel mercato miglioramenti significativi». Preoccupa soprattutto il tasso della disoccupazione giovanile: ad agosto è pari al 44,2% (+ 1% rispetto a luglio e +3,6 nel confronto tendenziale), facendo così registrare il peggior risultato dal 1977. Piccolo segnale positivo arriva dal tasso di disoccupazione generale che ad agosto si attesta sul 12,3%, facendo segnare una piccola diminuzione in termini congiunturali (0,3) e rispetto agli ultimi 12 mesi (0,1): i senza lavoro sono 3 milioni e 134 mila (82 mila in meno rispetto al mese precedente). In pratica ci sono 32 mila occupati in più rispetto a luglio, fa notare il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il numero dei disoccupati diminuisce del 2,6%.

Altro indicatore che spinge l’Italia in deflazione è l’indice nazionale dei prezzi al consumo che a settembre diminuisce dello 0,3% rispetto ad agosto e dello 0,1 se lo si paragona a settembre 2013. In questo quadro a dir poco negativo il Cnel definisce «una ipotesi irrealizzabile» una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (7% nel 2007) perché questa operazione «richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro».

Tre buchi aperti dal Tfr in busta

Tre buchi aperti dal Tfr in busta

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

La liquidazione, per chi ancora ce l’ha, rappresenta da sempre per i lavoratori una retribuzione differita. Una sorta di polizza sul futuro da usare per comprare una casa per le vacanze, far studiare i figli, aiutarli a mettersi in proprio. Il governo, alle prese con la necessità di rilanciare la crescita, sta studiando la possibilità di anticipare l’utilizzo di questo risparmio e, dal primo gennaio 2015, restituirlo direttamente in busta paga (si parla al 50%, forse in via transitoria e per scelta volontaria).

Un cambiamento epocale, con l’obiettivo di rimettere in moto la macchina inceppata dei consumi. Una finalità senza dubbio condivisibile che però suscita alcuni dubbi, da dissolvere in fretta. La coperta del Tfr (Trattamento di fine rapporto o liquidazione) non può, infatti, bastare a servire due padroni: i consumi e i risparmi degli italiani. Addirittura tre se si considera che, in base alla legislazione attuale, il Tfr è considerato il principale strumento di finanziamento della previdenza integrativa. Pochi l’hanno utilizzato a questo scopo. Se il fine è quello di mettere più soldi in busta paga, la strada maestra resta quella di ridurre le tasse.

Il premier Matteo Renzi ha già chiarito che la riforma potrà partire solo dopo la firma di un protocollo tra l’Associazione bancaria (Abi), la Confindustria e il governo. Un accordo che dovrebbe garantire alle piccole imprese i finanziamenti necessari a coprire l’esborso. E qui si cominciano a delineare i primi ostacoli. Gli accantonamenti annuali per il Tfr ammontano a 25 miliardi, secondo i calcoli di Alberto Brambilla, l’autore della norma sul trasferimento del Tfr nei fondi pensione. Di questi, 5,2 confluiscono nella previdenza complementare, 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti all’Inps e ben 14 sono finanziamenti per le piccole imprese. Con quel Tfr si costruiscono capannoni, si fa ricerca.

Mettendo il Tfr in busta paga si aprirebbero, senza interventi compensativi, tre buchi: all’Inps verrebbero a mancare tre miliardi l’anno, i fondi pensione potrebbero contare su meno risorse e la previdenza integrativa continuerebbe ad avere vita stentata. E le aziende, all’improvviso, si vedrebbero private di una fonte di credito decisiva, proprio mentre la politica dei prestiti non è delle più agevoli. L’allarme dei piccoli c’è già, bisogna ascoltarli. Da chiarire anche quale sarà il trattamento fiscale di queste somme ricevute in anticipo. Dovrà essere analogo a quello attuale; la liquidazione non può fare cumulo con gli altri redditi, altrimenti l’unico a guadagnarci sarebbe il Fisco. Con buona pace dei consumi.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

L’articolo 18, ben al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti, è diventato il capro espiatorio dello scontro finale (inevitabile) tra il mondo del posto fisso e quello della mobilità. Che nel primo ci fossero più garanzie per chi lavora e nel secondo di meno, è perfettamente vero. Ma che il secondo possa sentirsi più garantita grazie all’articolo 18, è abbastanza falso. Lo stesso concetto di reintegro, mettendo l’accento, più che sui diritti violati, sul posto di lavoro inteso quasi come ‘luogo di residenza’, evoca un assetto del lavoro precedente 1’attuale.

È piuttosto convincente quello che scrive (sul Post) Ivan Scalfarotto: in Inghilterra il concetto di reintegro non esiste, ma in caso di licenziamento per ragioni discriminatorie la legge ha la mano molto pesante con il datore di lavoro riconosciuto colpevole. Certo, la la giustizia è veloce e la discriminazione (razziale, religiosa, politica, sessuale) è colpa grave. Da noi il lavoratore licenziato per ingiusta causa rischia di restare a casa senza stipendio e in attesa di una sentenza e di un risarcimento economico che arriveranno dopo anni. Ma mettere mano alla precarietà, alla disoccupazione, alla sottoccupazione è davvero tutt’altra materia rispetto a un provvedimento bandiera nato quando si licenziava per cacciare dalle fabbriche i sindacalisti e i comunisti. Ora dalle fabbriche è stata cacciata una generazione quasi al completo, e la vera ‘ingiusta causa’ è la fuga dei capitali dal mondo della produzione, è la morte del lavoro. Non riguarda più solamente le ‘avanguardie di classe”. Riguarda tutti.

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Tito Boeri – La Repubblica

La mediazione via sms all’interno del Partito Democratico, di cui ha dato conto questo giornale sabato scorso con il testo dei messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.

La direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda. In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato. Vediamo di capire perché.

Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa). Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari. Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente. Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.

Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso. Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici. Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.

A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere rassicurato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge. Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”. Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.

È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms. Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Andrea Bassi – Il Messaggero

La lettera a firma congiunta inviata a sindaci e governatori dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli e dal super-commissario anticorruzione Raffaele Cantone per segnalare gli sprechi negli acquisti è stata solo «l’antipasto». Nei prossimi mesi tutti i contratti siglati da Comuni, Regioni, Asl e da tutte le altre articolazioni della macchina pubblica, saranno messi al setaccio attraverso l’incrocio di quattro banche dati: quella dell’Authority di vigilanza sui contratti (oggi Anac), quella della Consip, la società per la razionalizzazione della spesa, il Siope e il Sicoget, che sono due database gestiti dalla Ragioneria dello Stato e registrano tutti i giorni ogni spesa pubblica. Chiunque sarà pescato a pagare un bene o un servizio più della Consip (il decreto sui benchmark è stato appena pubblicato) o ad un prezzo più alto di quello di riferimento che sarà presto stabilito dall’Anac, sarà costretto a rinegoziare il contratto e ad adeguarlo ai prezzi di riferimento. Il governo va avanti sulla strada della spending review, dalla quale conta di ricavare nel 2015 fino a 7 miliardi di euro attraverso risparmi ed efficienze. Un obiettivo possibile? «Certo», spiega a Il Messaggero Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, «ma ad alcune condizioni». Quali è presto detto. «Si dovrebbe introdurre una norma», dice Casalino, «che obblighi tutti gli enti ad effettuare una programmazione annua dei loro fabbisogni di acquisto di beni e servizi».

Uno dei principali problemi che si frappone alla razionalizzazione della spesa sono le continue proroghe ai contratti in essere. «Spesso sindaci e assessori, spiega Casalino, «vengono informati che un contratto sta per andare a scadenza solo pochi giorni prima che questo accada, e a quel punto l’unica strada resta la proroga». Una programmazione annuale con un piano delle gare da fare, insomma, permetterebbe di superare questo ostacolo. La seconda condizione e che «si parta subito con la riduzione delle centrali d’acquisto». Matteo Renzi ha preso l’impegno a ridurle da 32 mila a sole 35. La norma che prevedeva il taglio, tuttavia, è slittata al 2015. «Bisogna recuperare il tempo perduto», aggiunge Casalino, «il cronoprogramma prevedeva per quest’anno la riduzione delle centrali d’acquisto, per il prossimo la messa a bando delle gare e per il 2016 i risparmi». La montagna della spesa per beni e servizi (132 miliardi) è ancora alta, ma la scalata e cominciata. La Consip presidia 40 miliardi di questa spesa con 16 miliardi di gare in corso. Alla fine dell’anno riuscirà a garantire 5 miliardi diretti di risparmi, che salgono a 8 miliardi se si considerano le altre efficienze (ogni gara in meno che viene bandita da un Comune o da una Regione lo Stato risparmia tra 50 e 500 mila euro).

Intanto ieri sulla spending review è intervenuto anche il commissario Cottarelli. «Stiamo lavorando», ha detto ascoltato in audizione al Senato, per inserire in legge di Stabilità «una proposta organica di riordino delle partecipate locali». Del pacchetto delle sue proposte ancora non è certo cosa sarà inserito: la scelta, ha sottolineato, «spetta alla politica». Nel suo dossier il commissario aveva stimato risparmi possibili per 500 milioni di euro il primo anno e di 2-3 miliardi a regime nel triennio. Cottarelli ha anche proposto di mettere un limite di nove anni agli incarichi dei manager pubblici per evitare che si consolidino posizioni.

Raggiro Tfr

Raggiro Tfr

Davide Giacalone – Libero

Tutti a guardare il valzer del 18, distraendosi dalla tarantella del Tfr. Il 18, dopo annunci, rinculi e ripartenze somiglia sputato a quello che è in vigore. Ma mentre quella danza rischia di produrre ben poco, un elefante entra in cristalleria e nessuno se ne cura. Mi riferisco all’idea di mettere il Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta paga. Idee di questo tipo possono venire solo a chi vuol far crescere il gettito fiscale avendo l’aria di far regali e diminuire le tasse.

Un paio di nozioni, per ancorare le parole ai fatti. Per il lavoratore il Tfr è un risparmio forzoso che da luogo a un reddito differito. Sono soldi suoi, ma li avrà alla fine. Punto essenziale: sono tassati in maniera agevolata, meno del reddito, che non concorrono a definire nella sua base imponibile. Per il datore di lavoro il Tfr si iscrive al passivo nello stato patrimoniale e in dare nel conto economico. Un accantonamento contabile. Sono uscite solo i Tfr effettivamente pagati. Con la riforma del 2005 il dipendente può scegliere di destinare il proprio Tfr alla previdenza complementare: continua a non prenderlo, ma lo accantona da un’altra parte. Con la finanziaria del 2007 si è stabilito che tutte le aziende sopra i 50 dipendenti devono versare il resto del Tfr, quello non optato per diversa destinazione dai lavoratori, in un fondo complementare dell’Inps.

Veniamo al dunque: cosa succede se il Tfr lo si trova in busta paga? Per rispondere si dovrebbe sapere cosa esattamente il governo intende dire, il che, al momento, è materia da cartomanti. Ma, comunque la si giri, le sorprese saranno sgradevoli. Intanto, se il Tfr lo si paga ogni mese è come dire che è stato abolito. Un reddito differito che non è più differito è solo un reddito. A che aliquota viene tassato? Perché se rimane la tassazione agevolata, pur venendone meno il presupposto, ne deriva che il reddito è tassato in modo diverso a seconda delle sue componenti. Che non solo non è una semplificazione fiscale, ma una complicazione mortale. Se, invece, come sembrerebbe logico, è tutto tassato secondo le aliquote Irpef, allora vuol dire che si aumenta il prelievo fiscale. Ma non basta, perché entrando il Tfr in busta paga tutti quelli che si trovavano poco sotto ai margini della soglia per avere gli 80 euro (26mila euro) si vedranno togliere il bonus. Tirate le somme, non solo pagheranno più tasse, ma perderanno la restituzione di una loro parte. Detto in modo ruvido: riceveranno soldi loro e perderanno il regalo governativo. Per non dire di quelli che saliranno di scaglione Irpef, candidati a subire una grattugiata fiscale. Per evitare un simile flagello, che si tradurrebbe in minore reddito disponibile nonostante il falò del risparmio forzato, occorre una normativa specifica. Di cui non solo nessuno ha parlato (non rientra fra gli annunci che fanno tendenza), ma che è complicatissima da scrivere e applicare. Ove mai ci si riuscisse, resterebbero alcune altre, macroscopiche ingiustizie.

Intanto sembra escluso che i lavoratori pubblici trovino il Tfr in busta paga, perché questo aumenterebbe il deficit statale. Così, però, non solo non si eliminano i lavoratori di serie A e B (che non spariscono neanche per il 18, visto che la mediazione sembra consistere nel conservarlo per chi già lo ha), ma si creano altre differenziazioni. Così come si penalizzano quanti hanno destinato il Tfr a fondi complementari, perché incassarlo, quindi saltare il versamento, equivale a violare un accordo contrattuale, il che crea danni. Puoi proteggere quelli del fondo Inps, tanto oramai è dato per scontato che lo Stato ne ripiani i buchi, ma non lo puoi fare per gli altri. Così come non puoi proteggere le imprese che si vedrebbero portar via l’accantonamento con il quale, spesso, garantiscono i prestiti destinati agli investimenti. Dice Renzi che si devono fare accordi con le banche, ma egli vive in un mondo fantasioso, dimentico dei vincoli che sulle stesse banche gravano: se prestano soldi per compensare cassa bruciata impattano direttamente nei limiti previsti da Basilea 3 e si chiede loro maggiore patrimonializzazione. Chi ce li mette, quei soldi?

Morale della favola: non solo i contorni della faccenda sono a dir poco nebbiosi, non solo c’è il forte rischio che si traduca in un autogol, per i presunti beneficiari, ma se anche le cose andassero per il meglio il risultato sarebbe quello di aumentare il reddito indirizzato ai consumi (in gran parte bollette, che, difatti, possono permettersi di aumentare) diminuendo il capitale destinabile agli investimenti. L’esatto contrario di quel che si dovrebbe fare. Il tutto per evitare quella che sarebbe la giusta dottrina: diminuire le tasse sul lavoro, per diminuirne il costo e aumentarne il valore, non prendere i soldi accantonati e passarli subito al tritacarne fiscale.