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Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Chiara Merico – Avvenire

«La mia azienda è in liquidazione, anche se vanta un credito verso lo Stato di 4,7 milioni di euro: per questo chiedo al presidente del Consiglio di sederci intorno a un tavolo e trovare una soluzione». Alberto Ricciardi rivolge il suo appello al premier Matteo Renzi, attraverso una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org: l’imprenditore toscano è titolare dal 1982 della Fermet, azienda che si occupa della lavorazione di rottami in ferro e della fornitura di materiali metallici per le più grandi acciaierie d’Italia, come l’Ilva o la Lucchini.

«Noi siamo il tramite tra le acciaierie e i piccoli fornitori di questi materiali: lavoriamo con oltre 2mila subfornitori perché in Italia, a differenza di Francia e Germania, il mercato è molto frammentato», spiega l’imprenditore. «Nel 2011 è emerso che alcuni di questi subfornitori avevano acquistato materiale in nero: la Guardia di Finanza è venuta da noi e ha emesso un verbale da 30 milioni di euro, di cui 18 di tasse». La vicenda è stata poi chiarita: già nel 2012, spiega Ricciardi, «l’Agenzia delle Entrate ha emesso una circolare in cui si stabiliva che non spettava a noi il compito di controllare che i subfornitori acquistassero il materiale con regolare fattura». Una seconda procedura di accertamento del Fisco è stata anch’essa ritirata: attualmente la Fermet deve all’erario 200mila euro di sanzioni, che comunque, sottolinea il titolare, «decadranno perché nel relativo procedimento penale lo stesso Pm ha chiesto l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato».

Nel frattempo, però, l’azienda di Ricciardi ha accumulato un credito Iva di 4,7 milioni di euro. «Il blocco dei rimborsi Iva ci ha ucciso: la nostra azienda fatturava circa 250 milioni di euro all’anno, ma nel settore dell’acciaio la marginalità e minima, nell’ordine del 2-3%. Il blocco dei rimborsi, unito all’investimento di 13 milioni che avevamo sostenuto nello stesso anno per costruire un nuovo stabilimento, ci è stato fatale». Così la Fermet ha dovuto chiedere la procedura di concordato. Ma il titolare non ci sta: «Se avessimo incassato quei 4,7 milioni, avrei potuto continuare l’attività: ma non posso ottenerli, perché lo Stato chiede di garantire l’incasso dei rimborsi Iva superiori a 500mila euro con una fidejussione bancaria. Ma quale banca è disposta a garantire un’azienda in liquidazione?» Cosi Ricciardi si è rivolto al presidente del Consiglio – che aveva promesso entro il 21 settembre il saldo dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese – chiedendo che venga eliminato l’obbligo della garanzia bancaria per ricevere i rimborsi. «Serve una proposta di legge in questo senso. Per quale motivo devo tenere l’azienda chiusa, e 70 famiglie senza lavoro, senza contare l’indotto?», si chiede l’imprenditore. «Uno Stato serio deve affrontare il problema».

Lavorare a fatica

Lavorare a fatica

Giuseppe De Filippi – Il Foglio

Le tutele crescenti funzionano, ci viene spiegato, perché rendono graduale, con gli anni di lavoro, il raggiungimento della piena protezione del lavoratore contro i licenziamenti. Si parte leggeri, senza troppo impegno da parte del datore di lavoro, e si arriva via via alla situazione oggi garantita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con il reintegro dell’impiego sancito dal tribunale. All’inizio ci sara più disponibilità ad assumere, perché c’è meno rigidità in uscita e poi, di contro, si proteggeranno i lavoratori più maturi, per garantire che le aziende non ricorrano a licenziamenti spietatamente legati alla maggiore produttività e al minor costo associati ad un lavoratore più giovane. L’uovo di Colombo sta in piedi? Non è detto.

C’è subito il problema di stabilire quando le tutele crescono. Si ragiona su varie soglie in questi giorni, Ad esempio tre anni di lavoro dipendente per arrivare al primo gradino di protezione rafforzata (con anche l’obbligo, foriero di quintali di carta bollata, che si vorrebbe imporre alle aziende di “restituire gli incentivi” ricevuti in caso di licenziamento del lavoratore in tempi troppo brevi) e dieci anni per arrivare al traguardo dell’articolo 18 o simile strumento. Tutto troppo logico, troppo perfettino. Assomiglia al meccanismo che, sempre con ottime intenzioni in ogni caso specifico, ha portato, nel campo fiscale, a creare la più intricata giungla di esenzioni, detrazioni, deduzioni, ricorsi alle commissioni, mai vista al mondo. Il rischio è simile nel mercato del lavoro e creerebbe un dramma. Con la segmentazione dell’offerta e il permanere della tribunalizzazione dei rapporti lavorativi. I mitici neoassunti contro quelli con tre anni e un giorno di anzianità lavorativa, i prossimi alla pensione contro tutti, quelli che entrano nel nono anno, e quindi sono nell’ultimo anno di licenziabilità (a prendere per buona la soglia dei dieci anni) e possiamo immaginare con che ansia vedrebbero passare i giorni. Proviamo a fermarci qui e a fare un esercizio da antiche scuole di retorica.

Vediamo gli argomenti a favore del meccanismo esattamente rovesciato e scopriamo che, a tavolino, nel mondo logico e perfettino, anche le tutele decrescenti (nostra invenzione) sembrano funzionare. Ecco perché. Nel sistema rovesciato il giovane lavoratore per i primi tre anni non sarà licenziabile, e potra perciò ottenere il reintegro dal tribunale (così si risparmia anche sulle liti giudiziarie tra stato e aziende sugli incentivi da restituire). Poi, dopo tre anni, comincerà a uscire dalla protezione totale. Sarà quindi licenziabile, ma con una compensazione economica. E nel corso degli anni il costo del licenziamento (pagando il risarcimento) diventerà comunque più rilevante, perché saranno minori gli anni residui di lavoro e soprattutto perché le aziende, malgrado ciò che si dice, non hanno alcun interesse a privarsi di lavoratori esperti, che conoscono i meccanismi produttivi, che possono trasferire conoscenze.

Un piccolo ragionamento a rovescio, insomma, e si vede che nell’idea delle tutele crescenti (come nelle tutele decrescenti) c’è un eccesso di interventismo. E c’è il retaggio del modo di funzionare dell’attuale mercato del lavoro. È come se avessimo interiorizzato l’idea che all’avvio del percorso lavorativo si debba soffrire. E quindi l’inizio deve essere precarizzato e via via ci si stabilizza. Ma questa segmentazione, penalizzante per chi entra, non è ineluttabile, anzi. Il sistema diventa efficiente solo quando non distingue più tra chi entra e chi è già dentro. Quando semplifica, quando esce dalla tribunalizzazione ed entra nella realtà.

Quanto costa mettere il bollo al condominio

Quanto costa mettere il bollo al condominio

Raffaele Niri – Venerdì di Repubblica

E ti pareva che, nascosta tra mille codicilli, non saltasse fuori l’ennesima tassa? Parliamo dell’imposta di bollo dei condomini che passa da 34,20 euro a cento. Se poi andiamo a vedere l’intero ammontare (cioè moltiplichiamo l’aumento per il numero dei condomini, che in Italia sono 445 mila) ci accorgiamo che la cifra totale dell’aumento arriva a quota 29 milioni (la maggiore imposta di 65,80 euro moltiplicato i 445 mila caseggiati).

Ma andiamo con ordine. La legge 220/2014 ha stabilito l’obbligo del conto corrente sopra gli otto condomini, cioè quando l’amministratore è obbligatorio. In pratica, se una palazzina è composta da otto o più alloggi, non ci può essere più l’autogestione dei diretti interessati ma occorre un regolare amministratore e, di conseguenza, un regolare conto corrente intestato al condominio. E qui arriva la batosta: non solo il costo dell’imposta di bollo non è più di 34,20 euro ma di cento euro «perché i soggetti non sono persone fisiche», ma il disconoscimento della qualifica di persona fisica al condominio consente al sistema bancario di applicare commissioni sullo scoperto di conto corrente che invece non dovrebbero essere applicate.

Le interpretazioni, per la verità, sono diverse. La Corte di Cassazione ha a più riprese affermato la non riconducibilità del condominio alla stregua di persona giuridica. Ma per l’Agenzia delle Entrate il condominio non può certamente essere considerato una persona fisica. Per questo bisogna pagare i 100 euro. Senza sconti. Ad alzare la voce è l’Anaci, la maggiore organizzazione degli amministratori di condominio, che ricorda come anche la Commissione Finanze della Camera abbia protestato contro questo ennesimo «scippo».

La famiglia taglia anche la spesa

La famiglia taglia anche la spesa

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

Continua, senza soste, il lento scivolamento dei consumi in Italia. Ma, ora, a pagare il prezzo più salato della crisi è l’alimentare mentre si attenua la caduta dei prodotti non food. Le rilevazioni Istat di luglio indicano un calo delle vendite al dettaglio dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,5% rispetto a un anno fa. Spacchettando il dato però emerge che la contrazione dei prodotti alimentari è molto superiore a quella del non food: il 2,5% contro l’1 per cento. E anche le forme distributive dei beni di largo consumo risentono della divaricazione tra food e non food: le catene della gdo alimentare perdono l’1,7% su base annua mentre quelle del non food guadagnano lo 0,2%. I discount alimentari segnano una crescita dell’1,7% ma, a rete costante, il segno più si appiattisce. Il messaggio è chiaro: dopo aver eliminato gli sprechi, scoperto i discount, sostituito vari prodotti con altri meno costosi e approfittato della pioggia di promozioni, le famiglie stanno tagliando la lista della spesa. Persino la corsa degli italiani nel biennio d’oro 2012/13 verso smartphone e tablet si è esaurita: la domanda ora è in picchiata.

Dai dati Istat emerge che, su base annua, nel non food a soffrire di più sono cartoleria, libri e giornali (-3,6%), casalinghi (-2%), utensileria per la casa (-1,4%) e profumeria (-1,2%). «Il dato di luglio delle vendite al dettaglio – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – conferma che siamo ancora lontani dall’uscita dal tunnel e che la ripresa del Paese rimane un miraggio. Poi preoccupano i dati dei consumi di prodotti alimentari: il -2,5% è il segno che le famiglie stanno cercando economie e risparmi anche nei bisogni più essenziali». Per Cobolli è impressionante il calo dell’ortofrutta, «un tipico prodotto di consumo italiano. Dopo una prima forte caduta, la discesa è proseguita: sono mutate le abitudini di acquisto e sorge il dubbio che, anche quando la ripresa si manifesterà, sarà difficile tornare agli stili di vita precedenti». Anche per Coldiretti le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo sui consumi alimentari per il 47% delle famiglie,con la ricerca dei prodotti low cost e dei punti vendita meno cari. Secondo l’indagine Coldiretti nel carrello della spesa il 23% degli italiani ha ridotto i quantitativi di ortofrutta, il 21% acquista prodotti e varietà che costano meno, il 16% rinuncia a prodotti che costano troppo (dalle ciliegie ai frutti di bosco), il 13% è andato alla ricerca di punti vendita con prezzi più bassi.

Che fare? «Non abbiamo segnali – commenta Mario Resca, presidente Contimprese – che facciano presagire un’inversione di tendenza delle vendite nei prossimi mesi. Settembre è iniziato a rilento, complici anche le condizioni meteo che non hanno favorito un aumento di battute di cassa. E anche il bonus di 80 euro finora è stato utilizzato dalle famiglie per pagare bollette c risparmiare». Cauto Cobolli Gigli: «Io negli 8o euro ci credo. Intanto sono stati distribuiti 10 miliardi alle famiglie più bisognose che li hanno utilizzati, parte, per i consumi alimentari e, parte, per pagare le bollette e accantonarli. Sul medio periodo sono fiducioso che l’effetto cumulo induca le famiglie a spendere di più per i consumi». Per l’ufficio studi di Confcommercio «è necessario che nella Legge di Stabilità siano inseriti provvedimenti che, ridando slancio ai consumi, creino le premesse per una vera ripresa nel 2015».

Debiti PA, si riapre la compensazione

Debiti PA, si riapre la compensazione

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Si aggiunge un nuovo tassello all’operazione pagamenti della Pa. Stavolta a intervenire è un decreto attuativo atteso ormai da diversi mesi: era previsto dal decreto legge Destinazione Italia del dicembre 2013. Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha infatti controfirmato nei giorni scorsi il decreto del ministero dell’Economia che sblocca per il 2014 la compensazione di cartelle esattoriali, ovvero gli atti di accertamento, a favore di imprese titolari di crediti commerciali nei confronti di tutte le Pubbliche amministrazioni. La compensazione sarà possibile per cartelle esattoriali notificate fino al 31 marzo 2014. Si riapre, in sostanza, una possibilità che era stata riattualizzata dal decreto 35/2013 del governo Monti, ma con un preciso limite temporale: solo per cartelle notificate entro il 31 dicembre 2012.

Il decreto Padoan-Guidi consente ora la compensazione, «nell’anno 2014, delle cartelle esattoriali notificate entro il 31 marzo 2014, in favore delle imprese titolari di crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali» maturati nei confronti della Pa. Ci sono alcune condizioni da rispettare, ovvero i crediti devono essere certificati e la somma iscritta a ruolo deve essere inferiore o pari al credito vantato. I crediti che hanno queste caratteristiche possono essere portati in compensazione secondo le modalità previste da precedenti decreti ministeriali del 2012. In sostanza, il titolare del credito, acquisita la certificazione, la presenta all’agente della riscossione competente. Se la regione, l’ente locale o l’ente del Servizio sanitario nazionale non versa all’agente della riscossione l’importo oggetto della certificazione entro 60 giorni dal termine indicato, l’agente può procedere, sulla base del ruolo emesso, alla riscossione coattiva nei confronti dell’ente.

Sul tema della compensazione restano in campo anche altre proposte, spesso di complessa praticabilità. Dalla compensazione universale – per tutte le tipologie di debiti con la Pa senza distinzioni – (un’idea da sempre sostenuta da Rete Imprese), alla recente proposta di legge Ncd portata avanti da Nunzia De Girolamo. In quest’ultimo caso (l’esame in Aula della Camera non è stato ancora fissato) si punta a corrispondere all’imprenditore il 50% di quanto dovuto dall’amministrazione pubblica a fronte dell’impegno di chiedere la rateizzazione del debito fiscale. Superata questa procedura verrebbe liquidato l’altro 50%.

Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Bruno Villois – Libero

La stagione più difficile per il commercio e i servizi non accenna a modificarsi, ogni azione messa in atto dai vari governi degli ultimi 2 anni, non ha prodotto nulla, anzi si sono innescare illusioni, come quella degli 80 euro che si sono sgonfiate in un batter d’occhio.

Il presidente di Confcommercio, Sangalli, ha lanciato continui inviti ad attivare iniziative pro consumi, che sono stati totalmente inascoltati dalla politica. Le piccole partite Iva sono oltre 5 milioni, commercio e servizi ne raccolgono poco meno della metà, insieme all’artigianato (che al suo interno ha anche la grande maggioranza degli edili) e all’agricoltura costituiscono oltre il 90% del totale. Numeri fondamentali per l’economia reale, che purtroppo, per il mondo politico, contano solo con l’approssimarsi delle scadenze elettorali, superate le quali, vengono totalmente dimenticati, mentre la grande industria, grazie al suo peso economico e al rapporto con i sindacati, ottiene dalla politica ben più attenzioni e sovente favori, le diminuzioni dell’Irap, e del costo dell’energia, sono prettamente di interesse della grande impresa e non certo del commercio, servizi e artigianato, nonostante che i tre settori, tra titolari e lavoratori, rappresentino un numero maggiore di cittadini di quelli espressi dall’industria. Il manifatturiero resta il perno della nostra economia, la grande maggioranza di tali produzioni è esclusivamente indirizzata al mercato interno, purtroppo i nostri consumi, di ogni tipo sono tornati ai livelli di trent’anni fa.

Industria e commercio sono collegati in maniera indissolubile, inutile favorirne la prima se non si sostiene il secondo. Da inizio crisi le chiusure di esercizi commerciali, artigianali e di servizi hanno sfiorato il 20% del totale, oltre 400 mila esercizi, altrettanti sono in sofferenza, in tutti i settori, ma soprattutto abbigliamento, arredi ed elettrodomestici ne sono le vittime principali. Discorso a parte merita l’alimentare, in cui piccoli esercizi hanno cominciato a scomparire, ben prima di inizio crisi e adesso sono rimaste solo vere boutique del cibo collocate nei centri delle grandi città. La grande distribuzione ha fatto piazza pulita, stessa situazione ha riguardato gli ambulanti dei mercati rionali.

A fronte di una così sconvolgente Caporetto del commercio e dei servizi, la politica non ha messo in atto nessuna vera azione a sostegno di un comparto essenziale sia per i cittadini che per i produttori. La pressione fiscale per le Pmi è cresciuta soprattutto a livello locale, con Imu, tassa rifiuti e acqua a tirare la volata, stessa cosa è avvenuta per i contributi previdenziali, in continuo aumento, mentre il lavoro nei migliori casi si è bloccato, nei tanti peggiori, è crollato.

Per ridare ossigeno al commercio servirebbe una incisiva azione a favore dei consumi, uno stimolo a spendere favorito da bonus fiscali concessi ad ogni contribuente sarebbe una manna del cielo. Oggi chi potrebbe fare acquisti, avendo reddito e certezza di occupazione, lo fa sempre meno, perché è disincentivato, grazie a strumenti come lo Spesometro, che fa scattare controlli fiscali a chi intende mettere mano al portafoglio. Una situazione che dovrebbe essere impensabile per uno stato dove il rapporto fiduciario tra cittadino e amministrazione dovrebbe essere alla base del sistema Paese, ma purtroppo così non è.

La deflazione è figlia del crollo dei consumi, il ricorso a continui sconti, saldi, 3×2, sono emergenze a cui ricorrono i commercianti per non essere sopraffatti dall’enormità delle incombenze, di ogni genere, a cui sono soggetti. Il governo per rianimare realisticamente i consumi, ed evitare il definitivo tracollo del commercio e dei servizi, ha solo più l’arma degli incentivi fiscali, un’arma che più passa il tempo e più diminuisce la fiducia per il futuro, rischia anch’essa di diventare spuntata. Agire subito è indispensabile, ogni ulteriore ritardo produrrà altri danni, forse irrecuperabili, al più bel paese del Mondo, che è il nostro.

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Emanuele Massagli – Libero

Il 19 settembre la Commissione Lavoro del Senato ha approvato il testo modificato del disegno di legge delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro. Appare scontato il passaggio a Palazzo Madama, meno quello alla Camera, dove Cesare Damiano, presidente della competente Commissione e portavoce dell’anima Pd contraria alla riforma, ha annunciato battaglia «senza se e senza ma».

La nuova versione del disegno di legge n. 1428 è differente dalla precedente in diversi passaggi. Non si tratta di modifiche sostanziali (in buona parte sono tentativi di dettaglio di principi di delega che rimangono ancora molto vaghi), eccetto che nel caso dell’articolo 4, quasi integralmente riscritto. Qui è formalizzato l’ormai noto «attacco diretto» all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Invero, più che di un assalto si dovrebbe parlare di aggiramento, non contenendo l’articolo 4 alcuna modifica alle norme sul licenziamento individuale, sebbene sia evidente a tutti l’intenzione degli estensori dell’emendamento che ha modificato il testo originario: superare la rigidità dell’articolo 18 ripensando interamente la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La lettera b) dell’articolo 4, infatti, dispone per le nuove assunzioni il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Si tratta di una formulazione molto più eloquente di quella precedente, che si limitava a prevedere l’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Questa definizione apriva le porte al contratto di inserimento come proposto negli anni anche dallo stesso Damiano: uno, due o tre anni di prova «lunga» con la sola tutela economica in caso di licenziamento. Tutto il resto della vita lavorativa con la tradizionale copertura dell’articolo 18. Al contrario, la nuova lettera b) mira al superamento definitivo della reintegra in caso di licenziamento, di cui non godranno i nuovi assunti, che saranno invece coperti dalle cosiddette tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, ovvero un indennizzo economico proporzionale agli anni di dipendenza dall’impresa.

Si può discutere a lungo sull’opportunità politica, tecnico-giuridica, economica, ma anche sociale e valoriale di questo intervento; presentare i dati sul contenzioso che riguarda la materia (circa 17.000 cause di primo grado, 71.000 complessive); ricordare le ricerche economiche che dimostrano tanto l’inutilità quanto l’efficacia degli interventi sulla cosiddetta disciplina di protezione dell’impiego per incoraggiare l’occupazione. Teorizzare benaltristicamente il grande numero di ulteriori interventi che sarebbero necessari per modernizzare il diritto del lavoro; usare la comparazione con Germania o Regno Unito (i benchmark non sono mai scelti a caso) per confutare o avallare la logica sottostante al decreto. Si può fare tutto questo sempre rimanendo sulla superficie del passaggio storico che l’archiviazione dell’articolo 18 individua: il definitivo abbandono dei porti sicuri, delle definizioni certe in materia di lavoro conosciute nel Novecento.

Il dibattito sulla reintegra interessa più la politica e i sindacati che il Paese reale, quello che spera di trovarlo un lavoro prima ancora di studiare come difenderlo, quello che fatica perché il lavoro di tutti i giorni sia sempre più «suo» e non una parentesi alienata nella giornata, quello caratterizzato da quasi tre milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Per questa larga parte di Italia non esiste alcun articolo 18 da un bel pezzo, altro che dualismo insiders-outsiders. Il suo superamento è quindi un (tardivo) segnale di reale volontà di cambiamento, oltre i dogmatismi che ancora impregnano qualsiasi dibattito sui temi del lavoro. Si proceda allora.

Non si vive però di soli simboli: è necessario che dietro agli slogan che più interessano i media ci sia anche un disegno solido, cosciente e complessivo di riforma delle regole del lavoro in Italia. Un tentativo, quantomeno un’ipotesi, di lettura di un mercato del lavoro sempre più lontano dalle regole scritte sulla carta. È questo il contenuto degli altri cinque articoli della delega? Purtroppo no, ma di questo nessuno ne parla.

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Appena due giorni fa alcuni organi di stampa vicini a Palazzo Chigi avevano esultato perché a settembre l’indice di fiducia dei consumatori era cresciuto dal 101.9 a 102 – un aumento, in effetti, impercettibile. Nei giorni scorsi, la vera e propria gelata su fatturato ed ordini registrata per luglio (con il rallentamento registrato anche per la performance sui mercati internazionale) aveva anticipato il clima cupo in cui operano le imprese italiane. Nelle ultime settimane l’atmosfera è stata aggravata dalle divisioni sulla politica del lavoro e dalle voci insistenti di aumento dell’imposizione tributaria (anche se sotto la forma di ‘contributi’ e ‘canoni’) e di profondo riassetto dell’imposta di successione in occasione dell’ormai prossima legge di stabilità, il cui ddl deve essere presentato entro il 15 ottobre. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi è chiaro e netto: la crisi finirà quando sarà tornata la fiducia. Affermazione del tutto condivisibile.
Oggi, però, indiscrezioni da Francoforte indicano che tra il Presidente della Bce ed il Governo tedesco è in atto una sfida all’Ok Corral innescata dalla proposta di acquisto di Abs (Asset backed Securities), titoli bancari cartolarizzati da parte dell’istituto. Anche se non si arriverà ad una resa dei conti all’interno della Bce, ciò non annuncia nulla di buono in materia di regole certe per le imprese (e quindi di fiducia). Tanto più che su piano interno è in atto un scontro sulla normativa per il lavoro all’interno del partito di maggioranza relativa.
Fiducia delle imprese e dei consumatori: il dato italiano è peggiore sia della media europea che di quella dell’Eurozona

Fiducia delle imprese e dei consumatori: il dato italiano è peggiore sia della media europea che di quella dell’Eurozona

NOTA DEL CENTRO STUDI IMPRESALAVORO

L’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, è sceso a 86,6 dopo che in agosto era calato a 88,1 da 90,8 di luglio. Il clima di fiducia delle imprese peggiora in tutti i settori: manifatturiero, dei servizi di mercato, delle costruzioni e del commercio al dettaglio. Particolarmente pesante la caduta nei servizi e nel commercio al dettaglio. L’Istat precisa che il calo dell’indice complessivo è dovuto al peggioramento della fiducia delle imprese di tutti i settori, manifatturiero, dei servizi di mercato, delle costruzioni e del commercio al dettaglio.
Più in generale, il livello complessivo di fiducia nell’economia da parte di imprese e consumatori in Italia cade rispetto ai valori registrati a maggio 2014 di oltre tre punti e mezzo, e torna al di sotto della media storica rilevata nelle statistiche ufficiali di Eurostat.
Tra le imprese, il settore che ha ridotto maggiormente le proprie aspettative in questo periodo è stato il manifatturiero, che si mostra più pessimista sui livelli di produzione in senso stretto, dell’assunzione di personale, del livello degli ordini nonché dell’andamento delle scorte e dei prezzi di vendita. Un calo drastico ha subito anche l’indice di fiducia dei consumatori italiani, basato sulla percezione della situazione economico/finanziaria in generale, della tendenza nei prezzi al dettaglio, e della disoccupazione.
Il calo registrato nel periodo maggio-agosto 2014 dall’indicatore europeo che misura la fiducia di consumatori e imprese in Italia (-3,5%) è peggiore sia della media europea (-1,9%), che di quella dell’Eurozona (-2%). Nello stesso periodo altri paesi periferici come Grecia e Spagna hanno visto incrementare il “sentiment” dei propri operatori economici, facendo segnare rispettivamente +2,8% e +1,6%, mentre il Portogallo fa segnare nei mesi estivi un arretramento che è la metà del nostro (-1,6%). Il dato italiano è simile paradossalmente a quello tedesco (-3,7%) con un avvertimento che è dirimente: il livello complessivo della fiducia di consumatori e imprese in Germania rimane nettamente superiore sia al nostro che a quello della media storica del paese. In Europa la nostra performance da maggio ad oggi è migliore solamente di quella di Bulgaria, Ungheria, Lussemburgo e Austria.

tabella

Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
La mutazione genetica delle famiglie italiane

La mutazione genetica delle famiglie italiane

Marco Morino – Il Sole 24 Ore

Dopo questa crisi, quando passerà, nulla sarà più come prima. Ne sono convinti anche gli esperti di consumi. Dalle ultime indagini condotte sullo stile di vita degli italiani e sulla spesa futura delle famiglie arriva un’indicazione netta: anche se ci dovesse essere una ripresa dell’economia, i consumatori non tornerebbero più quelli di una volta. Nella ricerca realizzata da GFK Eurisko per l’Osservatorio Non Food 2014 di GS1 Italy/Indicod-Ecr emerge forte la convinzione che anche se cambiasse il ciclo economico, le esperienze innescate dagli ultimi sei anni di ristrettezze e incertezze economiche avrebbero ormai lasciato un segno talmente forte da diventare parte integrante dei consumatori. Più attento alla spesa, agli sprechi, al rapporto qualità prezzo e sempre più digitale. Ecco come sarà il consumatore di domani.

La grande crisi, ma anche le nuove tecnologie hanno prodotto una sorta di mutazione genetica delle famiglie italiane. La recessione sta cambiando gli stili di consumo, all’insegna della frugalità e della condivisione, secondo il rapporto Coop 2014 “Consumi & Distribuzione”. I cordoni della borsa sono stati ristretti in quasi tutti i settori, con l’eccezione dei prodotti tecnologici e del cibo di qualità. Le speranze di ripresa dei consumi sono rimandate al 2015, anche se ci vorrà ancora molto tempo per rivedere i livelli del 2007. Dallo scoppio della crisi internazionale a oggi, infatti, il reddito disponibile degli italiani è calato di 2.700 euro. Lo studio fa luce sull’evoluzione degli stili di consumo durante la grande crisi. Si sono ridotti sensibilmente gli spostamenti, gli acquisti di abbigliamento e la spesa per il divertimento, ma non si è rinunciato alla qualità dell’alimentazione (crescono i consumi di cibo vegano e biologico) e alle ultime novità della tecnologia (in primis gli smartphone).

Tra le tendenze emergenti si segnala soprattutto il decollo della spesa via Web: ormai il 46% degli italiani utilizza Internet in mobilità, per una media di due ore al giorno, andando a caccia di occasioni in tutti i settori di consumo. E a conferma di un mutamento generale degli stili di vita arrivano anche i dati sui consumi di carburanti: nei primi otto mesi dell’anno gli acquisti di benzina e gasolio risultano in flessione dell’1,4%. Un trend negativo che inizia a pesare sul gettito nonostante l’aumento della pressione fiscale degli ultimi tempi. Per colpa della crisi dei consumi, anche il Fisco incassa meno. A conti fatti, solo i prodotti biologici sembrano non risentire della crisi. Secondo i dati elaborati da Nomisma, dal 2005 a oggi questo comparto ha fatto registrare una crescita delle vendite nell’ordine del 220 per cento. E il trend è destinato a proseguire senza flessioni anche nel 2015.