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Ma più di così sarà difficile

Ma più di così sarà difficile

Danilo Taino – Corriere della Sera

Ieri sera, un importante banchiere svizzero diceva che Matteo Renzi è un ragazzo fortunato. Le misure di politica monetaria annunciate da Mario Draghi, in effetti, sono il massimo che ci si potesse aspettare: anzi, vanno al di là delle aspettative della gran parte degli economisti. Attraverso misure convenzionali e non convenzionali – cioè ordinarie e straordinarie – e anche dividendosi al proprio interno, la Banca centrale europea ha ridotto al minimo possibile i tassi d’interesse; si prepara a comprare debiti degli operatori economici (raccolti in pacchetti) per liberarne i bilanci e spingerli a chiedere credito; fornirà denaro alle banche a costi che più bassi non potranno mai essere in modo che li prestino a imprese e famiglie. È lo stimolo monetario più poderoso che i Paesi dell’Eurozona abbiano mai avuto: quel Quantitative Easing (allentamento monetario) teso a spingere la crescita, a creare inflazione e a indebolire il cambio dell’euro.

Renzi è un ragazzo fortunato nel senso che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto un aiuto del genere dalla Bce. Questo però significa che non potrà chiedere più nulla a Draghi: il governatore è arrivato al limite estremo (salvo un difficile, eventuale programma di acquisto di titoli di Stato) a cui poteva arrivare. D’ora in poi, tutto è nelle mani dei governi. E, anche da questo punto di vista, Draghi è stato esplicito nel chiarire il suo pensiero su cosa occorre fare, pensiero in una certa misura distorto dalle letture che del suo discorso al seminario dei banchieri di Jackson Hole (Wyoming), a fine agosto, avevano dato alcuni media (ad esempio il Financial Times ) e alcuni leader europei (ad esempio il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble).

Il governatore ieri ha chiarito ancora una volta che dei tre strumenti per rafforzare la crescita – politica monetaria, politica di bilancio, riforme strutturali finalizzate a liberare l’offerta – «il primo e prioritario» è quello delle riforme strutturali. Senza un’economia efficiente, ogni stimolo finisce nella sabbia. In più, ha precisato di non avere mai messo in discussione il Patto di stabilità europeo, che anzi ritiene «l’àncora per la fiducia» economica. Le flessibilità di cui ha parlato – ha detto – sono interne al Patto, non ne devono «danneggiare l’essenza» e, affermazione non secondaria, ha spiegato che nella politica di bilancio il taglio delle tasse stimola (sempre mantenendo i conti in ordine) l’economia più di quanto non faccia l’aumento della spesa pubblica. «Il punto chiave – ha ribadito – sono le riforme strutturali», che devono essere «ambiziose, importanti e forti». Inoltre, ha voluto fare un’aggiunta che va inevitabilmente letta come indirizzata all’Italia: dal momento che le basse aspettative sul futuro e sulle prospettive dell’economia limitano le possibilità di ripresa, sarebbe bene recuperare la fiducia con «prima una discussione molto seria sulle riforme strutturali e dopo sulla flessibilità».

Draghi e la Bce hanno dunque preso tutte le decisioni di politica monetaria possibili. Ora, le scelte cadono sui governi nazionali. In Italia, significa che Renzi e il governo devono realizzare riforme economiche vere e serie; almeno una, ad esempio quella del mercato del lavoro, in fretta, prima del vertice europeo sulla crescita del 7 ottobre. Non può essere come nella canzone di Jovanotti, dove al «ragazzo fortunato» di dieci cose fatte (o dette) ne è «riuscita mezza».

Norme edilizie, invincibile Babele

Norme edilizie, invincibile Babele

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?

Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’…

Statali all’acqua di rose

Statali all’acqua di rose

Il Foglio

I sindacati suonano tamburi di guerra contro il blocco degli aumenti contrattuali nel pubblico impiego dal 2015, annunciato dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La Cisl ad esempio si allinea all’estremismo corporativo della Cgil di Susanna Camusso, minacciando mobilitazioni e scioperi contro quello che il suo segretario Raffaele Bonanni definisce “uno scandalo”. E si capisce, visto che la confederazione è assai presente tra i dipendenti ministeriali. Né Camusso né Bonanni, peraltro, hanno promosso riti di ringraziamento nei confronti di un governo che (per ora) non ha operato un solo taglio di personale nella Pubblica amministrazione – un taglio alla greca, per dire – né a livello di stipendi né di norme e benefici che sono particolarmente generosi. La stessa legge delega di riforma, istituendo la mobilità, ha voluto limitarla a cinquanta chilometri, escludendo quindi una serie di categorie protette: una mobilità dunque all’acqua di rose, visto che in tutte le metropoli del mondo gli impiegati e i dirigenti pubblici, come quelli privati d’altronde, affrontano spesso spostamenti quotidiani da una città all’altra per andare al lavoro. Per non parlare poi dello psicodramma generato dal dimezzamento dei permessi sindacali: per duemila ministeriali – soprattutto della Cgil – tocca tornare alla scrivania, il che rappresenterebbe nientedimeno che un gravissimo vulnus democratico, come ama ripetere spesso Camusso. Ma soprattutto è stata messa nel cassetto la trasformazione in senso privatistico dei contratti pubblici, l’unica soluzione per indurre le amministrazioni dello Stato a lavorare più e meglio, e anche per eliminare un ingiusto privilegio nei confronti dei dipendenti privati.

Si dirà che anche nello Stato ci sono i precari; ma poi si fanno le tradizionali periodiche infornate, come quella appena garantita agli insegnanti dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Il posto pubblico, insomma, resta a vita e può tranquillamente ignorare la crisi, la globalizzazione, il mercato, oppure la flessibilità. Non solo. Rimane pure economicamente più vantaggioso che nel privato, visto che gli statali che nel 2010 guadagnavano in media 2 mila euro più degli altri lavoratori, oggi, nonostante tutti i blocchi contrattuali (ma percepiscono anche loro il bonus da 80 euro), continuano a superarli considerevolmente, anche di migliaia di euro, in settori come magistratura e forze dell’ordine. Altro che minacciare quotidianamente la calata nelle piazze. Per adesso i nostri sindacalisti hanno poco o quasi nulla di che lamentarsi, dovrebbero piuttosto ringraziare perché gli statali il famoso bisturi renziano non l’hanno visto neppure a distanza, e per questo accendere dei ceri ai loro (molti) santi in paradiso.

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Francesco Forte – Il Giornale

Il programma che Draghi ha lanciato, operativo dal 3 ottobre, è massiccio, ricco di opportunità e sfide, per combattere la deflazione oramai diffusa in tutta Europa prima che diventi endemica e quindi difficile da sradicare e da rimpiazzare con una normale crescita. Ci sono tre misure inattese che servono a espandere il credito e ad abbassare l’euro (che già ha perso un punto col dollaro). C’è un ribasso del tasso di interesse sui prestiti ordinari alle banche, al livello di 0,05, che è soprattutto simbolico, perché indica la possibilità di una mossa successiva, di tasso negativo su prestiti Bce.

Ci sono poi due misure non convenzionali rivolte direttamente agli operatori economici, cioè imprese e famiglie. Una è l’acquisto da parte della Bce di prestiti obbligazionari coperti da ipoteca o garanzia di primo grado (covered bond), tra cui rientrano i mutui ipotecari immobiliari e le obbligazioni garantite da Stati con rating di A. L’altra è l’acquisto da parte di Bce di crediti di imprese garantiti da garanzie reali e da credibili fatture verso la clientela e le pubbliche amministrazioni (asset backed securities). In futuro Draghi potrebbe varare operazioni non convenzionali rivolte alle banche con prestiti assistiti da loro crediti costituiti da obbligazioni bancarie e titoli pubblici. Non ha fatto ciò ora un po’ per riservarsi questo «colpo di pistola fumante» e un po’ per l’opposizione intema al suo comitato esecutivo. Le misure sono state approvate a maggioranza, non all’unanimità perché la Bundesbank non le gradisce. Forse anche altri avrebbero storto la bocca se ci fossero stati prestiti alle banche con garanzie di titoli del debito pubblico di Stati come il nostro (la Spagna ora ha fatto la riforma del mercato del lavoro e le case tedesche ora assemblano le auto in Spagna).

Renzi ha ricevuto una grossa opportunità da Draghi, perché i prestiti alle imprese e alle famiglie garantiti seriamente possono ricevere prezioso denaro fresco dalla Bce, saltando l’intermediazione bancaria. Ma perché i cavalli (le imprese) e le cavalle (le famiglie) possano fruire adeguatamente di queste opportunita ci vogliono due condizioni: bisogna disporre di regolamentazioni snelle per consentire agli intermediari finanziari di far affluire questi crediti alla Bce; e le famiglie devono essere convinte che convenga investire in immobili (prima casa, ma anche altre) e quindi che le imposte su ciò siano moderate e non siano aumentate all’insegna della «caccia alla rendita», che mette paura. Inoltre occorre che le imprese non siano oberate di imposte e possano disporre di un mercato del lavoro doppiamente flessibile, mediante contratti aziendali orientati al merito e alla produttività e mediante l’impiego anche di addetti a tempo determinato, part time e partite Iva, essenziali nelle economie basate sui servizi (commercio, artigianato e turismo) e su industria e agricoltura, in cui il made inItaly si nutre di servizi specializzati, ma anche nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Banca mondiale in Italia la pressione fiscale sulle imprese è ora il 65,8%: un record mondiale. Seconda la Francia con il 64,7 e terza la Cina con il 63,7. A grande o grandissima distanza la Spagna con il 58,6, la Germania con il 49,4, gli Usa col 46,3, il Regno Unito col 34%. Il cavallo e la cavalla vogliono bere alla fonte di Draghi, ma dirigismi, giustizialismi e fiscalismi populisti mal impostati come l’Irap o gli 80 euro finanziati dalle imposte sugli immobili, impediscono loro di bere.

Il programma Draghi potrebbe servirci a vivacchiare: ci aiuta per gli effetti sul cambio, che in ogni caso faciliteranno l’export verso aree dollaro, yuan e yen e verso i Paesi euro che riusciranno a utilizzare bene le misure della Bce. Inoltre i prezzi aumenteranno un po’ e il nostro Pil aumenterà in moneta, così si ridurrà il rapporto debito/Pil e aumenterà il gettito Iva. Ma noi dobbiamo crescere un po’ di più di 0,5 punti l’anno, per migliorare l’economia, ridurre il debito e la disoccupazione. Non possiamo vivacchiare al traino degli altri. Renzi non sprechi questa occasione, che – comunque – ci aiuterà ma non durerà mille giorni. Nella favola della volpe e del cigno, dall’anfora riuscì a bere il cigno, non la volpe, furba ma con il muso corto.

Il rottamatore fa il restauratore

Il rottamatore fa il restauratore

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Milioni di italiani hanno conferito fiducia a Matteo Renzi. Se un numero ancor più milionario di connazionali ha preferito la protesta grillina o l’astensionismo, non si può negare che, magari rassegnatamente o quasi disperatamente, non pochi elettori hanno conferito un mandato a R., credendo nelle sue promesse di rottamatore. Questa funzione rivoluzionaria il presidente del consiglio la esprime, per ora, con una frenesia comunicatrice che comincia a destare insofferenze. Non poche soluzioni indicate o tracciate o sostenute per una fetta degli innumerevoli problemi che ci angosciano non sono rivoluzionarie. I tagli lineari ricordano l’identica proposta sostenuta da Giulio Tremonti, contestato dalle opposizioni dell’epoca per l’incapacità di operare tagli più incisivi e soprattutto individuati, con una decisione quindi politica e non con un’operazione meramente aritmetica. L’insofferenza verso l’azione del commissario alla spesa pubblica rimane quella tipica di qualsiasi politico, di qualsiasi partito, di qualsiasi governo, contro le decisioni incidenti sulla spesa.

Indipendentemente dal merito, pure il blocco degli stipendi per i pubblici dipendenti è una decisione non rivoluzionaria, bensì conservatrice delle scelte operate dai passati governi. Quanto agli aumenti delle accise, puzzano addirittura di prima repubblica. Si potrebbe parlare di continuità del montismo, fenomeno ormai storicizzato che ha lasciato un buon ricordo esclusivamente in Mario Monti e in qualche suo ministro.

Giustizia, lavoro, fisco: questi sono nuovi e fondamentali impegni che attendono R. Si vedrà presto se le corporazioni, dal sindacato delle toghe al veterosindacalismo confederale, ridurranno il rottamatore al rango di restauratore.

In comunicazione Madia vale zero

In comunicazione Madia vale zero

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

La gentile ministra della funzione pubblica Marianna Madia ha dichiarato che anche per il 2015 le retribuzioni dei dipendenti pubblici rimarranno bloccate e ha precisato che «mancano le risorse». Per la prima volta, il governo fondato sulla comunicazione sbaglia totalmente proprio nel campo preferito: l’annuncio.

In effetti, dovrebbe essere messo in rilievo che, dato che il Paese è in deflazione, il potere di acquisto degli stipendi aumenta della percentuale di calo dei prezzi al consumo. Quindi, un’informazione corretta si sarebbe dovuta svolgere in positivo, come: «Benché i prezzi al consumo siano in caduta, il governo mantiene i livelli retributivi dei dipendenti pubblici».

A essere pignoli, qualcuno a Palazzo Chigi avrebbe potuto valorizzare un’altra verità: mentre in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Irlanda, insomma nelle nazioni in crisi, il pubblico impiego ha subito importanti tagli retributivi, in Italia né il prode Monti, né il meditativo Letta, né il pimpante Renzi hanno avuto il coraggio di affrontare il problema. Anzi hanno avuto il coraggio di non affrontarlo, non modificando le cose. I capi delle centrali sindacali si stanno giustamente comportando come gli ammiragli di Franceschiello che, in mancanza di munizioni e per il timore di sparare un colpo alle navi inglesi, ordinavano ai marinai: «Faciti ammuina!». In realtà sanno benissimo che se lo stipendio in busta paga è allineato a quello degli altri statali d’Europa (quella a 18), è il prodotto, cioè la produttività che è nettamente inferiore. Cosa che rende i «nostri», oggettivamente ben pagati.

L’altra novità riguarda la scuola: a settembre 2015 saranno assunti 150 mila docenti, ma dal 2016 in poi si diventerà insegnanti solo a seguito di concorso. Quindi, questo significa che, oltre ai residui delle graduatorie, ci sarà un’immissione di gente senza concorso con buona pace dell’art. 97 della Costituzione. Inoltre, in ogni scuola, ci sarà una «Task force» stabile per le esigenze di supplenza che si manifesteranno in corso d’anno. Il merito farà aggio sull’anzianità. La formazione continua sarà obbligatoria. Sarà introdotto lo studio della musica e lo sport nelle primarie, e storia dell’arte nelle secondarie. Sin dalla prima elementare sarà insegnata una lingua straniera. Dalla prima media l’uso del computer.

In questo cocktail di proposte (al momento, proposte), ritroviamo la «visione» molto elettoralistica che Renzi ha manifestato sin dal bonus di 80 euro assegnato a una certa fascia di percettori di reddito: la distribuzione di risorse di uno Stato sgangherato e in difficoltà. Prendiamo, per esempio, l’idea di creare un team di docenti in ogni scuola pronto a intervenire in caso di malattia dei colleghi con cattedra. Allora, se in una scuola si insegna l’italiano, la storia, la filosofia, la matematica, la fisica, la storia dell’arte, l’inglese, il team dovrà avere al suo interno tutte le competenze occorrenti per «supplire» alle assenze.

Lo capisce anche un bambino che una squadra di soccorso fissa, costa molto di più di chiamate di soccorso (supplenti) operate volta per volta quando, occorre. E, se per caso, si ammalano due docenti di storia e filosofia? Che prevederà la legge? Un soccorso a livello di provveditorato agli studi? E il merito? Una vuota parola gettate alla pubblica opinione per oscurare la realtà di assunzioni dirette di gente senza curriculum (e preparazione). Nemmeno Andreotti era così bravo. Insomma, il governo ha preso e prende gli italiani per scemi. In ogni annuncio di grandi, storiche novità, c’è la rimasticatura di vecchie decisioni già prese. L’ultima rimasticatura riguarda le case: la possibilità di procedere a modifiche interne senza alcuna autorizzazione comunale è legge dello Stato italiano da almeno dieci anni.

Leggetevi la Gazzetta Ufficiale, signori ministri, eccellenti capi di gabinetto e di ufficio legislativo. Utilizzate un programma qualsiasi di ricerca nel web e, prima di scrivere, leggete. Questo è un utile, affettuoso suggerimento: quando, infatti, gli italiani si renderanno conto di essere stati presi in giro da una compagnia amatoriale, potrebbero venirvi a cercare per chiedere conto di errori, sciocchezze e rimasticature.

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Tino Oldani – Italia Oggi

Manca poco al 21 settembre, giorno di San Matteo, e non è affatto chiaro se per quella data saranno stati pagati tutti i debiti della pubblica amministrazione ai fornitori privati. È stato lo stesso premier Matteo Renzi a fissare questa data come dead line, durante un’intervista con Bruno Vespa a Porta a porta, quando, al conduttore che si mostrava scettico sui tempi dei rimborsi, disse: «Per San Matteo, ultimo giorno d’estate, se ci riusciamo, lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Era il 14 marzo. Da allora è successo un po’ di tutto.

Prima delle europee (25 maggio), Renzi promise rimborsi sempre più rapidi, salvo cambiare la dead line tra un annuncio e l’altro. Il 28 marzo dava per archiviata la vicenda con un tweet: «Debiti Pa? Problema risolto dal 6 giugno con la fatturazione elettronica a 60 giorni». Per nulla convinto, l’allora commissario Ue all’Industria, Antonio Tajani, fece alcuni controlli e il 18 giugno aprì una procedura d’infrazione contro l’Italia per la violazione sistematica dei termini di pagamento fissati da una direttiva Ue del 2012: le fatture vanno saldate entro 30 giorni, con limitate eccezioni fino a 60 giorni, gravate da interessi di mora dell’8%. Per tutta risposta, il sottosegretario alla Presidenza, Graziano Del Rio, accusò Tajani (dirigente di Fi) di «strumentalizzazione politica». Ma restava il fatto che la direttiva europea del 2012 sui tempi di pagamento, recepita dall’Italia nel 2013, era stata fino ad allora ignorata proprio dal governo. Per Renzi, un pessimo esordio del semestre europeo.

A complicare la situazione, poi, sono sopraggiunti la recessione e l’aumento del debito pubblico (arrivato al record di 2.168 miliardi), che ha ulteriormente ristretto i margini di manovra del Tesoro. In più, il patto di stabilità europeo, il famigerato Fiscal compact, obbliga a coperture certe per saldare i debiti in conto capitale dello Stato, perché incidono sul debito pubblico. E trovare risorse fresche per rimborsare migliaia di imprese fornitrici dello Stato è diventato quasi un incubo per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, costretto a continue acrobazie dialettiche e finanziarie, vuoi per non contraddire i tweet ottimistici del premier, vuoi per racimolare, di volta in volta,modesti stanziamenti, sempre accolti dalla stampa amica come risolutivi, mentre è evidente che la partita non è affatto chiusa, né chiara.

In agosto, un centro studi di Udine, «ImpresaLavoro», ha quantificato in 74,2 miliardi il debito della Pa verso le imprese fornitrici, pari al 4,8% del pil. I tempi di pagamento della Pa, sostiene lo studio, continuano ad aggirarsi sui 170 giorni, contro i 60 del settore privato: un ritardo che avrebbe provocato alle imprese un danno di oltre 6 miliardi l’anno, per un totale di circa 30 miliardi per il periodo 2009-2013. Dati negativi, che il governo considera ormai superati. Sul sito del ministero dell’Economia, un post intitolato «Pagamento debiti della Pa ai creditori», con tanto di cartina a colori, spiega che, alla data del 21 luglio, sono stati pagati ai creditori 26,1 miliardi a fronte di finanziamenti disponibili per 30,1 miliardi, pari al 63% dello stanziamento del 2013. Dunque, un dato positivo ma parziale, se non deludente, visto che, tra il 2013 e il 2014, lo stanziamento effettivo era stato di 56,8 miliardi. All’appello, per chiudere la partita, mancano ancora circa 31 miliardi. Ce la farà Padoan a trovare questi soldi e saldare i debiti entro il 21 settembre?

Il ministro ne è così convinto che il 27 agosto, intervistato dal Corriere della sera, ha affermato: «Il problema dei debiti arretrati della pubblica amministrazione è di fatto risolto, in anticipo rispetto all’onomastico di Renzi. Il meccanismo dello sconto fatture presso le banche è decollato e sta funzionando molto bene. I fornitori, fin da oggi, possono cedere alle banche il loro credito a condizioni vantaggiose». Che è successo? Semplice: a fine luglio il ministero dell’Economia ha firmato con l’Abi (l’associazione delle banche) una convenzione in base alla quale le imprese possono cedere agli intermediare finanziari i loro crediti con lo Stato, purché certificati. Costo dell’operazione: 1,60% per importi superiori a 50 mila euro, un po’ di più (1,90%) per importi fino a 50 mila euro. L’iniziativa, benché implichi un aggravio burocratico (non bastando le fatture, le imprese devono presentare un’istanza di certificazione per autenticare il loro credito), ha avuto un discreto successo. Tanto che in agosto, ha spiegato Padoan al Corsera, «sono state ben 55 mila le imprese che hanno fatto domanda di certificazione, per un importo di 6 miliardi, che si aggiungono ai 26 già pagati. Ci aspettiamo che le certificazioni crescano ancora, come i rimborsi».

Insomma, per Padoan è tutto risolto. «Un regalo al premier», dice il ministro, che ricordando male la battuta di Renzi a Porta a porta, aggiunge: «Gli ho risparmiato un pellegrinaggio a Monte Senario». Ma nei panni di Bruno Vespa, saremmo certi di vincere la scommessa. Basta leggere con attenzione il sito del ministero dell’Economia, dove si precisa che «l’istanza di certificazione va presentata entro il 31 ottobre». Questo significa che i pagamenti arriveranno dopo, forse entro la fine dell’anno, oppure nel 2015. Non solo. Lo stesso Padoan ha ammesso nell’intervista che «i debiti in conto capitale impattano sull’indebitamento netto dello Stato e necessitano di una copertura», che ora evidentemente non c’è (è il Fiscal Compact, bellezza). Si tratta di 2-300 milioni quest’anno, e di 2-3 miliardi nel 2015, da trovare con la prossima legge di stabilità (speriamo non con le tasse). Che dire? Il governo Renzi-Padoan ha fatto certamente più di quelli di Monti e Letta per pagare i debiti della Pa. Anche la frustata europea di Tajani ha avuto il suo peso. Ma la partita non è affatto chiusa.

Ultima chiamata

Ultima chiamata

Paolo Giacomin – La Nazione

Fedele alla linea del fare «tutto ciò che occorra» per salvare l’euro, Mario Draghi ha sostanzialmente dato un po’ di liquidità al mercato tagliando i tassi al minimo storico e un po’ di sostegno (teorico) alla crescita annunciando l’acquisto dalle banche di pacchetti di crediti deteriorati contratti da famiglie e imprese. Solo un mezzo colpo di bazooka, dice la pattuglia di quanti aspettavano un’ondata di quattrini dall’elicottero in stile Fed di cui la Bce ha solo discusso per rinviare qualunque decisione a data imprecisato. Un colpo di bazooka ben assestato, invece, guardando la reazione dei mercati: Borse in festa e spread in picchiata, da un lato. Euro in decisa discesa sul dollaro a beneficio dell’export e a danno del costo del petrolio e dell’energia.

Draghi poteva fare di piu? No, ha fatto tutto quello che poteva: un colpo anche più duro di quello atteso e al costo di una rottura – ammessa esplicitamente – del board della banca centrale con i tedeschi della Bundesbank e non solo, schierati molto probabilmente contro sia al taglio dei tassi sia all’acquisto dei crediti. Sono gli stessi banchieri che Draghi dovrebbe convincere che è cosa buona e giusta inondare di soldi il vecchio continente a uso e consumo degli stati spreconi e in barba ai trattati. Missione impossibile, o quasi.

Insomma, Draghi ha fatto molto. Difficilmente potrà dare di più e, al dunque, tocca ai governi mettersi al passo necessario per uscire dalla crisi: è l’ultima chiamata per le riforme perché, ha rimarcato lo stesso presidente della Bce, ciascuno deve fare il proprio mestiere: all’Eurotower oneri e onori della politica monetaria per togliere l’eurozona dai rischi di deflazione e dalle sacche della recessione. Ai governi spetta la responsabilità di riforme tanto note quanto rinviate e sempre più inevitabili perché, e non ci sono dubbi di interpretazione, non esiste crescita senza riforme. Alla politica spettano le scelte che possano cambiare verso all’Europa e, di conseguenza, alle regole di ingaggio e consentire alla Bce di alzarsi in volo con l’elicottero degli euro. Aspettarsi qualcosa di diverso è come sperare che cada la manna dal cielo. Ma quello fu un miracolo, non cosa di questo mondo.

Draghi batte un colpo. Era ora

Draghi batte un colpo. Era ora

Gaetano Pedullà – La Notizia

Finalmente la Banca centrale europea si è mossa. Niente a che vedere con le vagonate di doping monetario di Stati Uniti e Giappone, ma perlomeno qualcosa si muove. L’azione che conta non è ovviamente il taglio dei tassi al minimo storico, da 0,15 a 0,05%. Se in banca i soldi non te li danno, è irrilevante che il tasso sia un po’ più alto o un po’ più basso. Tra interessi e commissioni, tra l’altro, il costo del denaro resta distantissimo dai livelli fissati a Francoforte.

Ci sono invece due importanti novità. La prima è che la Bce acquisterà nel tempo crediti cartolarizzati di famiglie e imprese (anche del settore real estate) per 500 miliardi. Si libereranno così altrettante risorse che le banche potrebbero (ma lo faranno davvero?) reinvestire in nuovi crediti all’economia reale. La seconda novità è che la Germania come al solito ha tentato di impedire queste misure, ma la stragrande maggioranza dei banchieri centrali dei singoli paesi Ue questa volta ha messo Berlino in minoranza. Un esito che lascia sperare.

Non solo perché l’effetto delle misure di ieri ha fatto scendere il valore dell’euro rispetto al dollaro, aiutando così le imprese manifatturiere e l’export, ma anche perché lo spread ha continuato a scendere fino al suo livello più corretto (in Italia 138 punti il differenziale tra i nostri Btp e i Bund tedeschi) e si è aperto un qualche spiraglio per dare respiro a Stati ridotti alla fame. Il caso italiano qui è esemplare. Per la prima volta nella storia della Repubblica, dall’esercito alla polizia ai vigili del fuoco vogliono tutti scioperare. Hanno stipendi da fame. E davvero nessun torto.

Ma adesso tocca ai governi

Ma adesso tocca ai governi

Stefano Lepri – La Stampa

Ora dipende davvero da François Hollande e da Matteo Renzi se l’Europa si rimetterà in movimento. Non soltanto perché Italia e Francia hanno entrambe un gran bisogno di riformarsi per uscire dalle attuali difficoltà economiche: anche perché non c’è altro modo di rompere una altrettanto deleteria immobilità, quella della Germania. Mario Draghi con la sua mossa a sorpresa di ieri ha fatto tutto quello che poteva, nella situazione data. I mercati temevano che non fosse in grado di tradurre in atti le parole del suo discorso del 22 agosto in America; discorso che era parso al mondo (tranne che a molti tedeschi) innovativo e all’altezza della gravità della crisi. Invece ci è riuscito.

Ma proprio a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose il presidente della Bce aveva anche detto chiaro e tondo che per far ripartire l’economia del nostro continente non bastano gli strumenti a sua disposizione. L’attuale circolo vizioso di inflazione troppo bassa e di ristagno produttivo, lo ha ripetuto anche ieri, richiede azioni di tipo nuovo da parte dei governi. Occorrono sia riforme incisive sia cambiamenti nelle politiche di bilancio. In Francia e in Italia sono prioritarie le prime; la Germania potrebbe procedere senza rischi a misure espansive dato che hai conti pubblici in ordine. Mentre a Roma e a Parigi si esita o si procede a fatica, dando a parole ragione a Draghi, Berlino per la parte propria resta del tutto ferma. Il suggerimento del capo della Bce è ora di discutere prima le riforme e poi una maggiore flessibilità delle politiche di bilancio per tutti i Paesi euro; logico da parte di un economista abituato ad analizzare come si formano le decisioni dei governi (senza buoni incentivi è facile sbagliare). Se si vuole, è anche politicamente astuto, perché in caso contrario – occorre essere realisti – non si andrebbe avanti.

La Bce non ha compiti politici, dunque è sbagliato raccontare le sue mosse con termini da cronaca politica, come si fa solo in Italia (Draghi ieri ha dovuto ovviamente smentire di aver proposto un «grande patto» ai governi). Tuttavia, far funzionare meglio l’economia europea è uno scopo comune per il quale bisogna interagire, ed è politico in senso alto. La Germania non vuole muoversi perché da un decennio il suo modello economico funziona meglio; le ha fatto finora attraversare la crisi con pochi danni, attorno ad esso si è consolidato un equilibrio politico interno. Dunque squadra che vince non si cambia. Ma è un brutto segno che da lì ora vengano molte reazioni scandalizzate alle novità di Draghi, scarse proposte alternative; insomma povertà di idee sul futuro.

Un ripensamento sta iniziando, a partire anche da esponenti di rilievo del mondo industriale e bancario tedesco: perché mai non investire di più in scuole e strade, perché mai non compiere passi avanti nella solidarietà europea. Incontra molte resistenze. Si bloccherà se continuerà a valere la scusa che in Francia e in Italia non cambia nulla.

Le decisioni di ieri adattano all’Europa, dove la finanza e centrata sulle banche, ricette sperimentate dalla Federal Reserve, dalla Banca d`Inghilterra, dalla Banca del Giappone. Uscite da un compromesso nel consiglio riunito al trentaseiesimo piano dell’Eurotower, paiono in Germania rischiose, a taluni eccessive; nel resto del mondo ci si chiede se saranno sufficienti. Ora le banche avranno molti più soldi da prestare, ai tassi di interesse più bassi della storia: basterà a convincere le imprese ad investire? Può darsi che la Bce si sia mossa tardi. In ogni caso non ce la farà da sola a stimolare la ripresa. È inevitabile seguire lo schema in due tempi proposto da Draghi. Occorre che i due tempi siano i più ravvicinati possibile.