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Ottimismo espediente o necessità?

Ottimismo espediente o necessità?

Elisabetta Gualmini – La Stampa

Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche. Poi pero non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne. E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare – ancora una volta – un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune. C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se – soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita – non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.

Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre. Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega. Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di la di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. ll decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?

Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative?

Non basta sperare che passi

Non basta sperare che passi

Luca Ricolfi – La Stampa

Italia di nuovo in recessione, Italia in deflazione, fiducia dei consumatori di nuovo giù, disoccupazione ai massimi. La raffica di dati negativi che arrivano dall’Istat non è di quelle che tirano su il morale. E tuttavia, a mio parere, la notizia non c’è, o meglio c’è solo per il governo e per gli osservatori più ottimisti, che hanno passato mesi a intravedere una svolta di cui non si aveva alcun indizio concreto. Dapprima non si è voluto credere alle ripetute revisioni delle previsioni sul Pil pubblicate dagli organismi internazionali, senza accorgersi che non erano troppo pessimistiche ma semmai ancora troppo ottimistiche. Poi si è alimentata l’ingenua credenza che i 10 miliardi stanziati per il bonus avrebbero potuto rilanciare i consumi, salvo poi amaramente confessare che «ci aspettavamo di più». Infine non si è voluto dare alcuna importanza ai drammatici dati sul debito pubblico, cresciuto di 100 miliardi in appena 6 mesi, una cosa che non era mai successa dall’inizio della crisi.

Nonostante tutto ciò, e nonostante i dati Istat dei giorni scorsi non mancheranno di suscitare qualche reazione, penso che torneremo presto a infischiarcene e ad ascoltare la canzoncina del paese che «cambia verso», dello sblocca-Italia, della svolta epocale, dell’Europa che deve fare la sua parte, di papà Draghi che deve proteggerci da lassù (per chi non lo sapesse, il governatore della Banca Centrale Europea abita in una torre altissima, detta appunto Eurotower).

La ragione per cui penso che poche cose cambieranno è molto semplice, ed è che una cosa è la crisi, una cosa diversa è il declino; una cosa è una società povera, una cosa diversa è una società ricca. Una società povera che incappa in una crisi ha molte possibilità di rialzarsi perché non può non accorgersi della gravità di quel che le succede, e non può non sentire la spinta ad automigliorarsi. Una società ricca che è in declino da due decenni (ma secondo molti studiosi da più tempo ancora) può benissimo sottovalutare quel che le succede, e avere ormai esaurito la spinta all’automiglioramento. L’Italia, se si eccettua il segmento degli immigrati (che alla crisi hanno reagito e continuano a reagire molto bene: 91 mila posti di lavoro in più negli ultimi 12 mesi), è precisamente nella seconda condizione. Dal momento che il nostro declino è lento (perdiamo l’1-2% del nostro reddito ogni anno), e la maggior parte della popolazione ha ancora riserve di denaro e di patrimonio, è molto facile cullarsi nell’illusione che basti aspettare, che prima o poi il sole tornerà e la ripresa dell’economia rimetterà le cose a posto.

Di fronte a questo deprecabile ma comprensibile stato d’animo dell’opinione pubblica, molto mi colpisce che anche la classe dirigente del paese, che pure dovrebbe avere occhi per cogliere il dramma del nostro declino, si mantenga tutto sommato piuttosto calma e compassata, limitandosi alle solite invocazioni che sentiamo da trent’anni (ci vuole un colpo di reni, dobbiamo fare le riforme), senza alcuna azione incisiva o idea davvero nuova. E qui non penso solo alla insostenibile leggerezza del premier, che un mese fa snobbava i primi dati negativi sul Pil («che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone»), e provava a tranquillizzare gli italiani con ardite metafore metereologiche (la ripresa «è un po’ come l’estate, arriva un po’ in ritardo ma arriva»). Penso anche alla mancanza di idee coraggiose da parte del sindacato, ancora impigliato nei meandri mentali del secolo scorso. O alla leggerezza con cui la Confindustria ha avallato il bonus da 80 euro, una misura che non ha rilanciato i consumi e in compenso ha bruciato qualsiasi possibilità futura di ridurre Irap e Ires, ossia una delle pochissime cose che un governo può fare per sostenere subito, e non fra 1000 giorni, la competitività e l’occupazione (per inciso: ieri Squinzi ha picchiato duro contro il bonus, scordandosi completamente delle sue dichiarazioni di giugno, quando aveva spiegato di non averlo contrastato per ragioni politiche, perché «le elezioni europee erano più importanti»).

Ecco perché mi è difficile essere ottimista. Se l’opinione pubblica è incline al vittimismo ma si limita a sperare in tempi migliori, se la classe dirigente vive di annunci e piccole manovre, è del tutto illusorio pensare di «fermare il declino», per riprendere il nome di una sfortunata lista elettorale. Ma, attenzione, il declino potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. La notizia che l’Italia è entrata in deflazione sarà probabilmente seguita da sempre più insistenti richieste di misure di «sostegno della domanda», anche a costo di aumentare ulteriormente il nostro debito pubblico. E’ possibile che tali misure vengano attuate. E che lo siano con il consenso dell’Europa, sempre più spaventata dallo spettro della stagnazione. Quello che nessuno sa, tuttavia, è come i mercati finanziari reagirebbero a un eventuale ulteriore peggioramento del nostro rapporto debito-Pil. Può darsi che stiano zitti e buoni, intimiditi dalla volontà di super-Mario di fare «qualsiasi cosa occorra» per proteggere l’eurozona. Ma può anche darsi che i mercati rialzino la testa, e qualcuno ci rimetta le piume.

Anzi, in realtà qualcosa è già successo, anche se in modo invisibile, perché oscurato dalla discesa degli spread con la Germania. Dal 9 aprile di quest’anno i rendimenti dei titoli di stato decennali dei principali paesi dell’euro hanno cominciato a muoversi in modo difforme, ossia a divergere sempre più fra di loro: è lo stesso segnale che, nel 2011, precedette e annunciò la imminente crisi dell’euro. Ma quel che è più grave è che a questo segnale, che indica che i mercati stanno ricominciando a distinguere fra paesi affidabili e paesi inaffidabili, se ne accompagna un altro che riguarda specificamente l’Italia: a dispetto del miglioramento dello spread con la Germania, la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri 4 Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è in costante aumento dal 2011, e nell’ultima settimana ha toccato il massimo storico. Tradotto in parole povere: tutti i paesi stanno beneficiando di tassi di interesse via via più bassi, ma nel cammino di generale avvicinamento alla virtuosa Germania noi siamo più lenti degli altri, perché i mercati si accorgono che non stiamo facendo le riforme necessarie per aumentare la nostra competitività.

La conseguenza è molto semplice, ma terrificante: se ci fosse un’altra crisi finanziaria, noi saremmo più vulnerabili di Spagna e Irlanda. Ecco perché rallegrarsi degli spread bassi può essere molto fuorviante. E continuare a rimandare le scelte difficili, come finora hanno fatto un po’ tutti i governi, potrebbe rivelarsi catastrofico. Lo so: Cassandra dixit, direte voi. Ma a differenza di Cassandra non vedo nel futuro, e continuo a pensare che il futuro che verrà sarà esattamente quello che ci saremo meritati.

Privatizzazioni col trucco

Privatizzazioni col trucco

Davide Giacalone – Libero

Parte malissimo, se riparte da Eni ed Enel, il programma governativo delle privatizzazioni. Parte malissimo perché parte con un falso: quelle non sono privatizzazioni, ma vendite. In quelle due società la mano pubblica ancora ha il controllo, con quote che si aggirano sul 30%, il resto è già in portafogli privati che agiscono in Borsa. Quindi nessuna privatizzazione, nessuna apertura di mercato, nessuna sollecitazione alla competizione. Solo e soltanto una vendita. Ed è questa la ragione per cui ancora spero che non abbiano la faccia tosta di spacciare questa operazione per quello che non è, debuttando nel peggiore dei modi.

Vendere un ulteriore 5% di Eni ed Enel dovrebbe portare nelle casse dello Stato una cifra nell’intorno di 5 miliardi. La metà di quanto previsto, per l’anno in corso, da operazioni di questo tipo o da vere e proprie privatizzazioni. Ed è anche il valore dell’operazione a destare i peggiori sospetti: come verranno impiegati i proventi della vendita? E’ un punto fondamentale, perché va benissimo alienare patrimonio per ridurre e possibilmente abbattere il debito, mentre non va affatto bene usarli per compensare il deficit, che, detto in modo diverso, significa usarli per non dovere fare altri debiti. Sono due cose opposte: la prima può non essere esaltante, ma è virtuosa, perché si prende quel che è di tutti e lo si usa per alleggerire tutti dal debito pubblico; la seconda e viziosa, perché si vende quel che è di tutti al fine di finanziare la spesa che porta benefici solo ad alcuni.

Né ci saranno benefici di mercato, visto che si modificano le leggi sul controllo delle società quotate in modo da assicurarne il dominio a chi non ha più i soldi per poterlo acquistare o detenere. Attribuendo il voto plurimo a chi detiene da più tempo le azioni lo Stato legislatore assegna un valore superiore allo Stato azionista, sicché questo modo di procedere è l’opposto di quel che caratterizzerebbe delle vere privatizzazioni. Senza contare che nel caso di Eni ed Enel ci sono paletti statutari che escludono la perdita di controllo. Immorale della favola: attenzione, perché così ci si ritrova meno ricchi, sempre pazzescamente indebitati e con lo Stato che continua ad amministrare il feudo.

Queste non sono privatizzazioni, né basterebbe lo fossero per considerarle automaticamente buone. Si guardi a RaiWay, la società pubblica degli impianti Rai: vogliono quotarla, quindi privatizzarla, al solo scopo di avere i soldi per coprire i buchi che la Rai continua a fare, il tutto mantenendo ampiamente il controllo statale della società. Soldi presi al mercato per poi buttarli nella fornace clientelare, lasciando che nel mercato agiscano strutture da socialismo non reale, ma letale.

O si guardi al collettivismo municipale, che come tutti i collettivismi genera privilegi per una ristretta minoranza di buropolitici: anziché accorpare e vendere si pensa di quotare sempre di più, allargando lo zoo di animali misti, nei quali la parte municipale domina e quella di mercato soccombe a logiche che la avvelenano.

Privatizzazione, invece, sarebbe la vendita di Poste Italiane, perché totalmente in mano pubblica. Come lo sarebbe quella della Rai. La prima è in programma, alla seconda non pensano proprio, per continuare a sognare verdi pascoli. Solo che quando metti mano alla privatizzazione di Poste scopri che non puoi quotare società il cui bilancio ancora si compone di aiuti pubblici e sovvenzioni di servizi altrimenti in perdita. Perché privatizzare non significa consentire a privati di fare i soci di minoranza (o senza poteri) dello Stato, ma far scemare la presenza dello Stato nel mercato, rendendolo più libero e più aperto alla concorrenza, nonché coerente con le regole della competizione fra eguali. Significa cambiare le società, non solo la composizione della proprietà. Scopri, allora, l’evidente: non puoi portare nel mercato un dinosauro dello statalismo. Allora si deve cambiarlo, il che, però, fatalmente allontana la privatizzazione.

Poco male, in condizioni normali: ci vorrà più tempo, ma ne verrà fuori un risultato migliore. Non siamo, però, in condizioni normali. Abbiamo confermato che chiuderemo il bilancio senza venir meno agli impegni presi, ma i tagli alla spesa non ci sono. Semmai ci sono i suoi aumenti. Ecco, allora, che per far quadrare i conti si vende. Travestendo, per giunta, la vendita da privatizzazione. Spero che al ministero dell’Economia prevalga la serietà e il rispetto di sé, non prestandosi a raggiri che umiliano. Senza neanche risolvere i problemi.

Chi fa la guerra al ceto medio

Chi fa la guerra al ceto medio

Michele Ainis – L’Espresso

L’Italia unita non è mai stata troppo unita. Dalla questione cattolica a quella meridionale, sono molteplici le fratture che hanno diviso in due il popolo italiano. Fino al divorzio fra governanti e governati, con i primi accusati in blocco d’essere una casta, un ceto di rapaci e d’incapaci. Però, attenzione: sta divampando adesso un’altra lotta intestina, più articolata, più feroce; e quest’ultima coinvolge esclusivamente i cittadini. Nella società civile è esplosa la guerra civile.

Le prove? Basta tendere l’orecchio alle reazioni che montano da ogni categoria sociale quando c’è da pagare il conto della spesa, quando incombe una nuova tassa, una sforbiciata agli stipendi, un pensionamento anticipato. O altrimenti quando s’annuncia una riforma, per redistribuire poteri e favori. Giovani contro vecchi. Figli contro genitori. Disoccupati contro occupati. Inquilini contro proprietari (se denunci il nero hai uno sconto sull’affitto). Giudici contro avvocati (chi ci rimetterà con il nuovo processo?). Imprenditori contro burocrati. Burocrazia comunale contro burocrazia regionale. Liberi professionisti contro dipendenti. Dipendenti privati contro quelli pubblici. Impiegati contro dirigenti. Lavoratori contro pensionati. Pensionati contro tutti.

Non che in passato fossero sempre rose e fiori. L’italiano, si sa, ama l’Italia però detesta gli italiani. E poi siamo pur sempre un Paese di lobby e camarille, di corporazioni armate fino ai denti per difendere il proprio territorio. Nell’estate 2008, per dirne una, si consumò uno scontro fra notai e commercialisti. Oggetto del contendere: un codicillo inventato dal governo Berlusconi per consentire il passaggio di quote nelle srl attraverso una scrittura privata, siglata dalle parti con la firma digitale, e quindi senza timbro notarile. Sicché il Consiglio nazionale del notariato sferrò il contrattacco con una pubblicità che elencava le insidie della firma digitale, mentre l’Ordine dei commercialisti rispose con un comunicato per esaltare le virtù della semplificazione.

Ma adesso è un’altra storia. Non singoli episodi, bensì un Vietnam che fiammeggia in lungo e in largo, senza tregue, senza prigionieri. Non rivalità fra categorie professionali, piuttosto un corpo a corpo fra gruppi sociali. Ciascuno per se stesso, strappando dalle mani del vicino il salvagente mentre la nave affonda. Sicché quando il governo prospetta una cura dimagrante per chi percepisce 3.500 euro di pensione, tutti d`accordo (tranne i pensionati). Quando promette d`abolire i segretari comunali, s’alza un respiro di sollievo dal popolo dei non aboliti. Quando taglia gli stipendi dei dirigenti pubblici, nessuno (salvo i dirigenti) lo accuserà d`aver tagliato troppo, semmai troppo poco.

In questa mischia fratricida è arduo distinguere i vessilli delle diverse truppe in armi. Ma è possibile isolare il teatro di battaglia: il ceto medio. È la sua crisi – economica, e forse anche morale – che sta frantumando quel po’ che ci restava di coesione nazionale. È il grumo d`angosce che ti frulla in capo quando ti senti ricacciato giù nella scala sociale, è lo spettro d’un futuro ben peggiore del passato che scoperchia il vaso di Pandora degli egoismi collettivi. Ed è infine questa crisi che può risucchiare dentro un vortice la stessa democrazia italiana. Perché non c’è democrazia senza ceto medio, come ci ha spiegato Amartya Sen. O meglio c’è una democrazia apparente, tal quale in America latina. Con il popolo delle favelas che assedia un manipolo di ricchi, mentre un govemo muscolare tiene in ordine le piazze.

C’è modo d’arrestare la deriva? E che poteri ha il potere esecutivo? Sarebbe già tanto se la smettesse di seminar zizzania. L’ha fatto Berlusconi, accanendosi sulle pensioni pubbliche mentre lasciava indenni quelle private. Ma in generale si può tassare il reddito, non singole categorie contributive. Lo vieta l’universalità della tassazione, principio scolpito nella Déclaration del 1789. Se tasso i soli pensionati, è come se decidessi di tassare esclusivamente i salumieri. E dell’ltalia rimarrebbero salsicce.

Ora diamoci un taglio

Ora diamoci un taglio

Maurizio Maggi – L’Espresso

Duemilacentosessantotto miliardi di curo. È il debito pubblico-monstre accumulato dall’Italia. Una zavorra, in costante aumento, pronta a raggiungere a fine anno, a bocce ferme, l’impressionante livello del 135 per cento rispetto al prodotto interno lordo, cioè al totale della ricchezza prodotta dall’intero Paese. Economisti e commentatori invitano l’Italia ad affrontare sul serio il tema della riduzione dell’indebitamento, ma l’argomento non pare in cima ai pensieri del governo guidato da Matteo Renzi. Da anni piovono sul tappeto le ricette taglia debito e, anche se l’impressione è che l’esecutivo non abbia intenzione di intervenire nel breve, prima o poi anche chi sta a Palazzo Chigi e chi comanda al ministero dell’Economia il nodo dovrà provare a scioglierlo. I suggerimenti, anche fantasiosi, fioccano, però si sa che l’Italia è riottosa quando è il momento di mettersi a tagliare. “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria, a metà agosto, è salito in cattedra e di proposte ne ha addirittura avanzate tre.

Le strade maestre per alleggerire il debito sono tre: tagliare la spesa, per avere meno bisogno di emettere nuovi titoli pubblici; vendere società e immobili controllati dallo Stato; consolidare-ristrutturare il debito pubblico esistente. Quest’ultima strada la si imbocca riducendo le cedole, oppure allungando la scadenza dei Btp e degli altri titoli del Tesoro e degli enti locali in circolazione, ma è politicamente la più sensibile. La necessità di intervenire alla svelta sul debito è il cavallo di battaglia di Lucrezia Reichlin. Docente alla London School of Economics, già direttore della ricerca alla Banca Centrale Europea, Reichlin dice che la limatura andrebbe fatta in seguito a un’intesa a livello europeo, certo, ma anche che l’idea che uno Stato possa non pagare una parte delle proprie obbligazioni non dev’essere ritenuta un tabù. Lo ha dichiarato tre mesi fa a “l’Espresso” e lo ha ribadito qualche giorno fa a “la Repubblica”. Giacché, sostiene, «acquistare un titolo di Stato comporta dei rischi, è una leggenda metropolitana che il capitale sia garantito». D’altronde Daniel Gros, che dirige il Centre for European Policy Studies di Bruxelles, a “Class Cncb” ha sottolineato come il rapporto debito-Pil pericolosamente vicino al 140 per cento sia una mannaia che per ora resta sospesa ma è pronta ad abbattersi non appena il mercato dovesse volgere al brutto. Da questo orecchio, però, il governo non ci sente. Il viceministro dell’Economia e delle Finanze, per esempio, di ristrutturazione proprio non vuol sentir parlare: per Enrico Morando, infatti, le conseguenze sarebbero peggiori del problema che si intende risolvere. Meglio puntare, eventualmente, sulla cessione di una fetta del patrimonio immobiliare pubblico.

Gira e rigira, si va sempre a finire lì, sulle taumaturgiche doti del mattone di Stato da vendere. «L’idea di costruire un fondo è in pista da molti anni, ma non sboccia mai e l’esperienza delle cartolarizzazioni targate Giulio Tremonti è stata un fiasco», commenta Emilio Barucci, economista del Politecnico di Milano e figlio di Piero, ex ministro del Tesoro. Sul fronte delle privatizzazioni di società pubbliche, poi, secondo Barucci non è rimasto granché da fare. «Anche cedendo quote di Eni ed Enel, o privatizzando le Poste e le Ferrovie, operazioni peraltro assai complicate, al massimo si può sperare di incassare 10 o 20 miliardi». Inoltre, aggiunge Tito Boeri, prorettore alla Ricerca della Bocconi, già consulente di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, «con il calo del costo al servizio del debito, anche cessioni che erano vantaggiose fino a un anno fa ora non lo sono più, visto che i rendimenti offerti dai titoli di Stato risultano sensibilmente inferiori ai rendimenti delle partecipazioni in Eni ed Enel». Per Boeri, bisognerebbe riuscire a vendere non solo i pezzi pregiati – come ha fatto il Milan con Mario Balotelli, esemplifica l’economista da grande tifoso rossonero deluso – ma cercare di alienare tutte le società dove si annida l’inefficienza, che abbonda nelle partecipate e nelle municipalizzate. «Temi», dice Boeri, «su cui ha lavorato molto il commissario Carlo Cottarelli e che dovrebbero rappresentare buona parte della politica di spending review». Per il banchiere Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, il mirino va puntato proprio sulle municipalizzate e bisogna far di tutto, intanto, perché il debito smetta di crescere: «Nel decreto Salva Italia c’era una norma perfetta, che andrebbe immediatamente resa operativa. In sintesi: se perdono, le municipalizzate vanno cedute e per gli stessi servizi il Comune si rivolgerà ad altri. Così pagando ciò che gli serve, senza avere una struttura inefficiente sulle spalle. Non dimentichiamoci che l’Argentina è fallita a causa dei debiti locali, non di quelli statali». Sulla vendita degli immobili, invece, Garbi è perplesso: «I prezzi del mattone sono già bassi e le compravendite languono: se lo Stato aumenta l’offerta di immobili in assenza di domanda, la situazione non può che peggiorare».

Barucci, Boeri e Garbi, come tanti altri esperti di finanza e conti pubblici, si schierano senza se e senza ma contro qualsiasi gioco delle tre tavolette, come il passaggio delle passività dall’Esfs (il fondo europeo di stabilità finanziaria) all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, noto come fondo salva Stati). Un trasferimento che permetterebbe di far uscire dal debito pubblico italiano una quarantina di miliardi. «Parliamo di operazioni puramente contabili e l’Italia non deve convincere l’Europa ma i mercati, che certo non si farebbero ingannare da soluzioni non in grado di risolvere i problemi reali», è il monito di Boeri. Il quale, in realtà, è convinto che il debito non sia in cima ai pensieri del governo e neppure delle autorità europee: «Credo che a Bruxelles diano per scontato che l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi sulla riduzione del debito». C’è da sperare che il governo non lo prenda come un via libera alla galoppata dell’indebitamento pubblico. Altrimenti, quando mai dovesse arrivare, la ristrutturazione del debito sarà ancora più dolorosa di quanto sarebbe adesso.

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Sergio Soave – Milano Finanza

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della Riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli Stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla decisione congiunta nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania.

In Italia invece di una dialettica tra l’interesse generale e quelli particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi. Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava Stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano. Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa e la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche.

Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi concorrenti politici e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica.Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo, ma non possono certo sostituirlo.

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Antonio Pitoni – La Stampa

Per carità, il dato e ancora parziale e riguarda solo 2.178 comuni italiani. Circa un quarto del totale. Ma dopo le polemiche che avevano investito la transizione dalla vecchia Imu alla nuova Tasi è certamente sorprendente. Perché nelle amministrazioni che hanno già deliberato (entro la prima scadenza del 23 maggio) l’aliquota del nuovo tributo, il gettito stimato a fine 2014 sulle prime case è di 1,2 miliardi di euro, il 29,3% in meno rispetto agli 1,6 miliardi del 2012, ultimo anno in cui si pagava ancora l’Imu. Mentre i versamenti sulle seconde case e sugli «altri immobili» fanno registrare una sostanziale stabilità, con una crescita dello 0,15% (11 milioni). Insomma, almeno per ora, chi aveva ventilato il rischio di rincari e nuove stangate con il passaggio alla Tasi, sembra essere stato smentito. Ma è bene precisare che si tratta, per adesso, solo di una tendenza. Dal momento che mancano ancora all’appello i dati dei restanti Comuni (circa i tre quarti del totale). Quelli che, verosimilmente, aumenteranno le aliquote per far quadrare i bilanci. Ed è molto probabile che il gettito complessivo torni a salire compensando parte di quel gap di quasi il 30% che oggi separa, per difetto, gli introiti della Tasi rispetto all’Imu. Insomma, una buona notizia per i cittadini, certamente meno per le amministrazioni.

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Antonio Signorini – Il Giornale

Gli ottanta euro sono rimasti in banca o nei portafogli. Se non fosse un controsenso, verrebbe da pensare che la misura fatta per rilanciare i consumi, in realtà li abbia rallentati; ma è più probabile che il bonus sia andato a rimpinguare i risparmi di cittadini con poca fiducia nella ripresa. I dati Istat parlano chiaro e confermano i timori espressi non molto tempo fa dalle associazioni del commercio. In giugno, quindi in coincidenza con l’arrivo degli ottanta euro in busta paga, le vendite al dettaglio sono rimaste ferme rispetto al mese precedente, ma sono calate rispetto allo steso mese dell’anno precedente (quando non c’era il bonus) del 2,6%. Gli italiani hanno speso meno sia per i prodotti alimentari (-2,4%) sia peri non alimentari (-2,8%). In calo la grande distribuzione (meno 1,3%), un salasso per i piccoli (-3,9). 

Non è una sorpresa per i commercianti. Per Confcommercio i dati Istat confermano «quanto già anticipato dal nostro indicatore consumi e cioè che le misure prese fino ad oggi non hanno prodotto gli effetti sperati sui consumi e non sono state idonee a sostenere la fiducia delle famiglie, in calo anche ad agosto». Per la confederazione «è presumibile che anche la seconda parte del 2014 possa mancare l’appuntamento con la ripresa economica, confermando, dunque, l’urgenza di interventi più incisivi». Segnali negativi anche sui salari (le retribuzioni contrattuali orarie in giugno sono aumentate dell’1,1% rispetto all’anno scorso, la crescita annua più bassa dal 1982) e sul fronte delle imprese (in agosto l’indice della fiducia è passato a 95,7 da 99,1). 

Importanti elementi di riflessione per il premier Matteo Renzi che oggi guiderà il Consiglio dei ministri per l’approvazione dello Sblocca Italia e delle misure per la scuola. Ieri il premier è andato al Quirinale a illustrare le misure del Consiglio dei ministri. Prima, un vertice con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi per cercare le coperture alle infrastrutture. La soluzione trovata è approvare in parte oggi e in parte con la legge di Stabilità le misure.Le coperture disponibili da subito si confermano i 3,7 miliardi. Sono 1,26 miliardi dal fondo delle opere incagliate, e 2,54 miliardi dal fondo di coesione In tutto 3,8 miliardi da destinare soprattutto a nuove linee ferroviarie di alta velocità o alta capacità. Lo Sblocca Italia «non sostituisce la legge di Stabilità» ha dichiarato Lupi, è un pacchetto di «dieci punti» e «confermo le coperture per i provvedimenti contenuti in es SU». 

Nella bozza in entrata al Consiglio le linee citate sono solo quelle del Sud: la Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, con poteri straordinari per Fs e burocrazia limitata. In via di riscrittura di un articolo che rendeva più facile installare antenne su tralicci preesistenti per la contrarietà del ministero dei Beni culturali (che ha bocciato più articoli del ministero dell’Economia). Tra le novità in entrata, un piano per la costruzione di nuovi inceneritori di rifiuti e semplificazioni a favore dell’edilizia. Per le grandi locazioni e le costruzioni nei campeggi. Anche ieri è continuato il tiro alla fune sulla privatizzazione delle società partecipate da Comuni, Province e Regioni. L’accelerazione e gli incentivi (meno vincoli di bilancio) ai Comuni che vendono o accorpano – nonostante il pressing dello stesso Renzi- potrebbero essere rinviati. Sullo sfondo la partita delle pensioni e del lavoro, rinviata forse a fine anno. «Nessun intervento sulle pensioni in legge Stabilità», ha assicurato ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione. Ad avere ipotizzato un taglio delle rendite più alte per finanziare misure per gli esodati o l’estensione degli 80 euro ai pensionati era stato lo stesso Poletti, che ha smentito attriti con il premier: «Sono stabilissimo», ha assicurato.

Il capitale di Renzi

Il capitale di Renzi

Il Foglio

Un prodotto degli ottanta euro è il consenso, è ora di spenderlo. Le ultime statistiche direbbero che avere messo ottanta euro in più nella busta paga degli italiani non incentiva i consumi né incoraggia la popolazione a spendere più di prima. Le vendite al dettaglio nel mese di giugno, il primo mese di disponibilità del bonus, sono rimaste ferme confermando il calo tendenziale di maggio del 2,6 per cento, dice l’lstat. La fiducia dei consumatori vacilla: dopo il picco di maggio, in agosto l’indice è tornato ai livelli di mano, quando il premier Renzi ha annunciato lo sgravio. Un andamento a parabola che autorizza molti commentatori a certificare che del “miracolo” proclamato con enfasi dal governo non c’è traccia. Certo, i numeri sarebbero stati peggiori senza quel sollievo: parte degli ottanta euro sono finiti in spese mediche o piccoli acquisti. O migliori, se non fossero serviti a pagare quel filotto di tasse su casa e affini di questi mesi o se la congiuntura recessiva (drammatizzata dai media) non avesse convinto molti a risparmiare. Oppure, soprattutto, se il governo avesse detto credibilmente agli elettori che si tratta di uno sgravio permanente, e non one shot. E’ ancora presto e non deve stupire se non si spende. Ciò detto, il prodotto degli ottanta euro non è soltanto il consumo ma anche il consenso politico. Consenso capitalizzato alle europee che va investito: ora Renzi dovrebbe spendere i suoi “ottanta euro” e assumersi la responsabilità di misure anche impopolari, le sole capaci di invertire una tendenza grave. Partire da un’opera di revisione della spesa che non faccia prigionieri e i cui proventi vadano poi a ridurre la pressione fiscale più alta d’Europa.

Lucciole in Europa

Lucciole in Europa

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Occhio a non prendere lucciole per lanterne, in Europa. Il rischio è credere che siano illuminate strade che in realtà sono buie 0 addirittura non esistono, e farsi male. Per esempio, in molti hanno creduto di vedere, o comunque di ritenere possibile, un’aggregazione mediterranea contro la Germania in nome dello sviluppo e della tutela del Welfare. Ora, a parte che non c’e nessuno nell’Eurozona che più e meglio dei tedeschi pratica la crescita e tutela lo stato sociale, comunque ecco il risultato: Hollande licenzia i ministri più ostili alla politica tedesca, a costo di spaccare il suo partito, genuflettendosi ancora una volta al cospetto del mai rinnegato, nei fatti, asse franco-alemanno; la Merkel e Rajoy si giurano amore imperituro e mostrano i denti ai, veri o presunti, nemici dell’austerità. Alla faccia di chi immaginava che nell’eurosistema in salsa berlinese si potesse fare a meno della Germania o anche solo mettersi di traverso. 

Stesso discorso, seppure rovesciato, vale per chi insegue la chimera dell’economia Ue a trazione tedesca. Così non è per due semplici motivi. Il primo è di carattere strutturale: il successo dell’economia teutonica è dovuto alla sua capacità di competere sui mercati mondiali con prodotti hi-tech e servizi d’alta gamma, ed è quindi basato sulle esportazioni verso le aree extra Uc del mondo – un export, non dovremmo mai dimenticarcene, in cui c’e un pezzo importante di made in Italy – e non sui consumi interni, che dunque non trascinano le esportazioni degli altri paesi europei. Scelta intelligente e per certi versi obbligatoria – sia perché questo e il destino dell’Europa nella divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione, sia perché per troppo tempo un po’ tutti noi del Vecchio Continente, chi più (paesi del Sud) chi meno (paesi del Nord), abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità – che comunque non cambia anche se ora l’Spd spinge la Merkel ad aumentare i salari minimi. Il secondo motivo è di natura congiunturale: per le riforme a suo tempo fatte e per come si è configurata l’integrazione (solo monetaria) europea, la Germania lucra un doppio vantaggio, la bilancia commerciale patologicamente in avanzo e un basso costo di accesso ai capitali, cui non intende – comprensibilmente – rinunciare. E questo non la rende certo una trainante locomotiva per le altre economie continentali.

Lucciole per lanterne stiamo rischiando di prendere anche sulle conseguenze delle recenti dichiarazioni di Mario Draghi. Non ci voleva certo il ruvido ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, per capire che sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore c’è stato un clamoroso misunderstanding. Anzi, Draghi ha detto che dopo averlo fatto negli ultimi due anni, la Bce non e più disposta a “comprare tempo” a favore dei governi europei senza che questi facciano i compiti a casa delle riforme strutturali. Un messaggio inequivocabile – la politica monetaria la sua parte l’ha fatta e continuerà a farla, ma non pensiate che abbia anche il compito di scongiurare la ricaduta nella recessione, quello spetta alle politiche economiche nazionali – su cui quasi certamente il presidente della Bce aveva acquisito preventivamente il consenso dei tedeschi. Allora, perché far finta che abbia detto altro? Perché non guardare in faccia la realtà, la quale ci dice che la Bee non può andare oltre, anche volendo. La diga eretta da Francoforte è stata preziosa, tagliando le gambe agli spread e alla speculazione che scommetteva contro l’euro, ma non ha risolto, né poteva, alcun problema di fondo che compone il puzzle delle eurocontraddizioni. Ha solo aperto un ombrello protettivo sulla testa dei governi, lasciando a loro il compito di approfittarne, pena essere esautorati dalla cosiddetta Troika. Così non è stato, per lo più. Non ne ha approfittato l’eurosistema nel suo insieme – per colpa dei diversi ma convergenti retaggi tedeschi e francesi – e non ne ha approfittato l’Italia, pur avendo nel frattempo sperimentato tre governi (Monti, Letta, Renzi), o forse proprio per questo. 

Insomma, nessun aiutino in vista. Perché non sta nelle cose, e perché comunque non ce lo meriteremmo. Si dice: ma avremo – ormai è pressoché certo – la guida della politica estera europea. Peccato che sia materia di piena sovranità nazionale e che dunque quel ruolo sia solo formale. Inoltre, per quel poco che conta, l’incarico arriva proprio mentre lo scenario geopolitico, con gli annessi e connessi energetici, si sta facendo maledettamente complicato. Anche qui, vietato scambiare lucciole per le lanterne: a decidere se fare o meno accordi con Putin, e di che tenore, e a parlarne con gli americani, sara la Merkel – che deve decidere se mantenere o far saltare la sempreverde ostpolitik tedesca (niente nemici a oriente) – non la Mogherini (come ieri non era la Ashton). Così, giusto per sapere con che carte si gioca.