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I distruttori del lavoro

I distruttori del lavoro

Maurizio Ferrara – Corriere della Sera

La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi ha preso avvio il programma “Garanzia giovani” cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa aspettativa. Quasi 100mila giovani si sono già inseriti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La “Garanzia” prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.

Il compito di attuare la “Garanzia” spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza»e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.

Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la “Garanzia” fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno. Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto dei criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la “Garanzia giovani” in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa trarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera “garanzia” che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.

Tagli, ritagli e frattaglie

Tagli, ritagli e frattaglie

Davide Giacalone – Libero

Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se cioè l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Fabio Tamburini – Corriere della Sera

Il film è di quelli più conosciuti. Il portafoglio dei conti bancari e degli investimenti in Italia è piuttosto vuoto, mentre i capitali veri vengono custoditi all’estero. Nella maggior parte dei casi neppure troppo lontano ma girato l’angolo, nel sempre accogliente Canton Ticino. Come farli rientrare evitando la solita trafila, decisamente logora, dei condoni e degli scudi fiscali? Sulla carta è l’uovo di Colombo: un nuovo provvedimento, ribattezzato voluntary disclosure, che funziona se contemporaneamente viene previsto un nuovo reato penale, l’autoriciclaggio. Insomma, è l’ultimo treno che può essere preso dagli esportatori clandestini di capitali. Prendere o lasciare. Si pagano le intere imposte evase (compreso gli interessi ma con riduzione delle sanzioni) riacquistando piena disponibilità dei beni, ma si evitano guai peggiori con la giustizia.

Peccato che un meccanismo tanto semplice, peraltro suggerito dall’Ocse, faccia tanta fatica a decollare. O, meglio, potrebbe di nuovo riproporsi un’anatra zoppa: sì alla voluntary disclosure ma rinvio a tempo indeterminato per l’autoriciclaggio, come dire vorrei ma non posso. Limitarsi alla voluntary disclosure, tra l’altro, significa andare in direzione opposta da quella di buona parte degli altri Paesi, in cui provvedimenti sul rientro di capitali hanno una cornice di contrasto anche penale all’evasione. Ora il pallino è nelle mani della maggioranza e della faccenda, a quanto pare, se ne occuperà personalmente Matteo Renzi. Il verdetto è tutt’altro che scontato. La lunga marcia della voluntary disclosure è cominciata all’epoca del governo Monti, con ministro della Giustizia Paola Severino. La scelta fu di nominare un gruppo di lavoro, affidandolo alla guida di Francesco Greco, procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, specializzato nei reati economici e finanziari, sostenitore convinto dell’opportunità d’introdurre il reato dell’autoriciclaggio, come ha concluso la commissione nella relazione finale.

Scritto e confermato dalla stessa commissione nel prolungamento dei lavori (su base volontaria) richiesta dal governo Letta. La sorpresa è poi arrivata nel momento in cui si è passati dalle parole ai fatti, con la prima edizione dell’anatra zoppa. Il decreto che prevedeva la voluntary disclosure è stato approvato nel gennaio scorso ma le disposizioni sul reato di autoriclaggio si sono perse per strada. Al loro posto sono subentrate le promesse di rimediare al momento della conversione in legge del provvedimento. Promesse rimaste sulla carta per causa di forza maggiore perché il governo Letta è caduto poche settimane prima della scadenza del decreto legge e il giro dell’oca è ricominciato. Proprio in questi giorni è in corso il confronto suoi nuovi provvedimenti. A parole, nella maggioranza, prevalgono i sostenitori dell’accoppiata tra voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio. Nei fatti lo si vedrà. Di sicuro la posta in gioco è di quelle che pesano perché i capitali custoditi all’estero rappresentano una ricchezza importante. E negli anni seguiti alla grande crisi economica sono aumentati invece di ridursi.

Riportali in Italia significa anche evitare la trafila di sempre, che punta a risolvere le emergenze picchiando i bambini, cioè tassando sempre di più chi paga già tanto al fisco, dai lavoratori dipendenti ai pensionati passando dalle imprese. La conferma che si tratta di un fiume di denaro da cui è possibile attingere ottenendo soddisfazioni adeguate risulta evidente dal bilancio degli ultimi sei mesi di voluntary disclosure effettuate senza certezze di legge. In tutto l’Agenzia delle Entrate, con patti sulla parola, ha avviato le procedure per il rientro di 1,5 miliardi di euro. Troppa grazia, verrebbe da dire. Perché non osare di più evitando la riedizione di un’altra anatra zoppa?

Moralisti masochisti

Moralisti masochisti

Francesco Pacifico – Il Foglio

Lo Stato moralizzatore sta uccidendo lo Stato biscazziere. Già, perché il prezzo delle campagne salutiste contro il fumo, contro l’uso smodato dell’auto o contro la dipendenza dal gioco lo paga direttamente l’erario in termini di minore gettito. Lo scorso anno si sono incassati 670 milioni di euro in meno di tasse sulle sigarette. Dal capitolo carburanti manca all’appello circa un miliardo. Mentre 1,2 miliardi è l’introito perso dal gioco. In totale si sfiora un deficit di tre miliardi. Un po’ troppo per un paese che ha lanciato il lotto su scala nazionale appena due anni dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, anche per ripagare la ricostruzione e i debiti contratti dopo le campagne sabaude.

Di solito, gli economisti consigliano di tagliare i costi fissi per riequilibrare i ricavi. Lo Stato invece persevera nella direzione opposta, un brutto vizio. Siccome gli italiani comprano marche di sigarette meno note pur di risparmiare, il governo si accinge a riequilibrare il sistema delle accise nella parte fissa, con il risultato che le cosiddette “nazionali”, le bionde a buon mercato, potrebbero costare da ottobre anche un euro in più. Questo almeno prevede la delega fiscale, alla quale è legata anche la proposta di un balzello fisso di 6,5 euro sulle ricariche di nicotina liquida per le sigarette elettroniche. Al riguardo i produttori dell’Anafe (Associazione nazionale produttori fumo elettronico) hanno fatto notare che ogni confezione costa 6 euro, ergo il costo complessivo raddoppierebbe. E se per la benzina si attende di capire cosa dirà l’Europa, la delega porterà in autunno l’esecutivo ad aumentare la tassazione sui giochi per finanziare un apposito fondo contro la ludopatia. Intanto i sempre litigiosi Federvini, Assodistil, l’Istituto nazionale grappa e Assobirra si sono unite per bloccare le nuove accise sui lieviti e fermentati, che entro il 2015 dovrebbero salire del 30 per cento.

Carlo Lottieri, filosofo libertario che in “Credere nello Stato?” (Rubbettino) ha analizzato tutti i limiti del centralismo e della regolamentazione statuale sorda e settaria, vede qui «un’applicazione pratica della curva di Laffer (che arriva a un punto morto quando una tassa non produce più il gettito sperato, ndr.). Ma oltre a disincentivare i consumi, lo Stato, con la sua ipocrisia, prova anche a dissimulare i suoi veri obiettivi. E non lo fa soltanto con la leva più pratica, quella delle accise. Vedi ad esempio la campagna per portare al 20 per cento la percentuale di succo concentrato nelle bibite a base di arancia, campagna concretizzatasi con un primo passaggio parlamentare in queste settimane. La motivazione non è tutelare la salute dei bambini, perché assumono poche vitamine, ma assecondare le lobby dei produttori di agrumi» dice Lottieri al Foglio. Più che la vicenda in sé, quello che irrita Lottieri è «la scarsa considerazione dello Stato verso i suoi cittadini: cosa credono, che gli italiani sono così stupidi che quando comprano la Fanta pensano poi di bersi una spremuta di arance fresche?». Gli italiani forse saranno meno sensibili dell’allievo prediletto di Sergio Ricossa e Gianfranco Miglio. Certo è che hanno risposto all’elevata pressione fiscale dello Stato nella maniera più aggressiva a loro disposizione: complice la crisi, hanno smesso (o quasi) di fumare, prendono i mezzi pubblici o fanno lunghe camminate per risparmiare carburante, o hanno iniziato a diffidare della potenza del Superenalotto.

La deriva della clandestinità, secondo l’Ibl

Il fallimento delle campagne moralizzatrici, come detto, è tutto nei numeri. Lo scorso anno gli ex fumatori sono saliti a quota 6,6 milioni, anche perché circa mezzo milione è passato alle sigarette elettroniche. Risultato? Nonostante Iva e accise coprano il 76,5 per cento del prezzo totale di un pacchetto, l’erario ha incassato 670 milioni in meno rispetto all’anno precedente. Una perdita alla quale va aggiunto lo smacco subìto dopo che il Tar del Lazio ha bloccato la maxi aliquota del 58,5 per cento sulle sigarette elettroniche, con la quale lo Stato pensava di incassare un miliardo di euro. Sono diminuiti anche il consumo di benzina (meno 5,7 per cento) e quello di gasolio (del 4,7 per cento), facendo crollare di un miliardo il prelievo fiscale e dell’11 per cento il fatturato del settore. Uno stato di cose che ha spinto grandi famiglie del settore come i Garrone a riconvertirsi alle energie rinnovabili. Sul versante del gioco soltanto il Poker online mantiene alto (87 miliardi di euro) il livello delle entrate. Ma gli economisti Andrea Giuricin e Lucio Scudiero in un focus scritto per l’Istituto Bruno Leoni, think tank torinese di stampo liberista, sostengono che «ulteriori incrementi delle imposte potrebbero nuovamente rendere attrattivo il gioco illegale». Qualcosa del genere sta già accadendo con il contrabbando di sigarette.

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Federico Fubini – La Repubblica

Lo Stato ha sempre ragione, salvo quando ha torto. E gli succede di aver torto molto spesso quando accusa un’impresa, specie se piccola, di evadere le tasse: più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo. I numeri pubblicati alla fine di giugno dal ministero dell’Economia rivelano tutta l’intensità della battaglia fra gli uffici del fisco e le imprese. Solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. Anche quando alla fine i giudici le danno ragione, episodi del genere non sono affatto facili da affrontare per un’azienda. Lo stesso ministero dell’Economia calcola come in media, quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni. Specie nelle piccole imprese, è tutto tempo sottratto alla produzione, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti o all’apertura di nuovi mercati. E nella società italiana si tratta di un fenomeno endemico: solo l’anno scorso gli imprenditori hanno presentato più di 250mila ricorsi fiscali perché si sentivano ingiustamente accusati di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

Naturalmente l’evasione resta un’emergenza del Paese: secondo le stime più accettate, ogni anno vengono sottratti al fisco circa 120 miliardi ed è dunque evaso un euro ogni quattro pagati (come documentato da Repubblica il 18 aprile 2014). Ma gli ultimi dati pubblicati dal Tesoro sullo stato del contenzioso tributario obbligano a chiedersi se la strategia del fisco stia funzionando. Non ci sono solo i numeri a farne dubitare, benché questi siano di per sé già eloquenti. L’anno scorso il 45% dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41% a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto. Ma appunto, non ci sono solo i numeri. Alla radice di questa endemica litigiosità tributaria nella società italiana ci sono metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei paesi industrializzati ad uno Stato autoritario. Con l’effetto di erodere la base fiscale, perché le imprese colpite dagli accertamenti chiudono anziché far emergere gli abusi. Negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione. Ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali e riavrà indietro il proprio denaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà a essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

C’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda, l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale finisce per far inaridire e distruggere posti di lavoro.

Non che poi presentare ricorso sia così semplice. Per fare causa allo Stato su un contenzioso fiscale si doveva pagare una tassa di circa 150 euro fino a pochi anni fa ma ora è diventata un “contributo unificato” da 4.500 euro. L’evasione in Italia resta dunque una piaga, ma a volte una cura sbagliata può anche aggravare la malattia.

Divergenze collidenti

Divergenze collidenti

Davide Giacalone – Libero

Nella gestione degli affari economici il governo mette in evidenza posizioni non solo divergenti, fra i suoi più importanti componenti, ma incompatibili fra loro. È in atto un moltiplicarsi di divergenze collidenti. È capitato anche ad altri governi ed è sempre finita male. Il fatto è che, questa volta, nella squadra non c’è solo qualche fantasista solitario, qualche giocatore che non passa mai la palla e qualche altro che non riesce neanche a toccarla: qui c’è gente che galoppa verso la propria rete.

Guardiamo alcuni fatti, per meglio comprendere l’accelerazione di queste ore. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, promise il pagamento di tutti i debiti della pubblica amministrazione, verso privati fornitori, entro settembre. Tecnicamente non era impossibile, usando la garanzia bancaria della Cassa depositi e prestiti. Ma intervenne il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ovvero il teoricamente più stretto collaboratore del presidente, Graziano Delrio, è chiarì che sarebbe andata già bene se si fosse pagato entro marzo del 2015. Renzi non ha ritenuto di tornarci su, segno che ha ragione Delrio. Aggiungo che quando si dice “marzo 2015” si dice una sola cosa: a valere sul bilancio dell’anno prossimo, “marzo”, a quel punto, non è neanche una previsione, ma una mera speranza.

Durante tutta la tornata degli incontri europei, resi necessari dal rinnovo della Commissione e degli altri incarichi, Renzi non ha fatto altro che parlare di “flessibilità” e di contenuti che devono precedere i nomi. I giornali italiani lo hanno quasi tutti seguito, mentre noi abbiamo osservato che la conquistata flessibilità era già nei trattati. Nulla di nuovo, quindi. Ora, nel mentre l’unica posizione italiana fissa sembra essere la richiesta di un incarico per il nostro ministro degli esteri, Federica Mogherini, quindi una nomina che prescinde da un contenuto (inesistente in quel posto), il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, conferma la nostra tesi: basta leggere i trattati per sapere che abbiamo margini da sfruttare, ma anche impegni da mantenere. Appunto.

E qui arriva la questione più grossa. Renzi ripete che i conti tornano, non ci sono problemi, e la flessibilità da lui agguantata ci consentirà di fare bidibodibù sul soffice materasso di deficit e debito. Ma Delrio interviene a gamba tesa e prima afferma che si devono usare gli euro-bond per federare il debito pubblico, poi mette il piede in un terreno terribile e minato: sarà il presidente del Consiglio a valutare se necessaria una ristrutturazione del debito, magari anche tenendo conto dell’esperienza greca. Questa è una bomba atomica, tanto potente quanto potenzialmente credibile (al Corriere della Sera, non a caso il quotidiano che ha raccolto quelle parole, hanno anche fatto un seminario, per approfondire i dettagli di un simile possibile sprofondo). Quella sui debiti verso i fornitori sembra una sfumatura d’opinione, rispetto all’enormità di questo contrasto. Interviene Padoan e sostiene che della flessibilità e del caso italiano non s’è neanche parlato e che gli euro bond non erano e non sono all’ordine del giorno. Semmai i project bond, per i quali ci vogliono i progetti. Quindi Delrio delirava. E aggiunge che se il prodotto interno lordo dovesse avere un andamento diverso da quello previsto, allora anche il resto dei conti andrebbero rivisti (ed è ovvio). Siccome il pil, a volere essere ottimisti e salvo novità, si mostra in crescita al massimo per la metà di quel che il governo ha previsto, ne deriva la certezza di una manovra correttiva. Padoan lo nega, ma pro forma.

Quindi, riassumendo: per Renzi va tutto bene; per Padoan si devono rifare i conti; per Delrio non è escluso il default. Mettiamo che siano vere le voci che vogliono Renzi impegnato a trovare un incarico europeo, o internazionale, per Padoan, in modo da liberarsi dal controllo quirinalizio sulle faccende economiche, e mettiamo che ci riesca: resterebbero lui e Delrio, ovvero il tutto va bene e non è esclusa la bancarotta. E, pensate, senza neanche le slides, che visto il successo della prima volta hanno opportunamente pensato di ritirarle dal commercio.

Al contrario di altri, probabilmente più intelligenti e veloci di me, non ho coltivato alcuna prevenzione nei confronti di questo governo, nato, sebbene in modo bislacco, da un accordo di larghe intese sulle riforme costituzionali. Ma osservo non tanto che le riforme ancora non ci sono, o che quelle che si profilano sembrano frutto di una riffa, bensì che le divergenze collidenti mettono pericolosamente in dubbio l’esistenza di una linea sul governo del debito. Senza quella il resto non è neanche illusionismo: è come se fosse antani.

Vendetta fiscale

Vendetta fiscale

Davide Giacalone – Libero

Da oggi è operativa la maggiorazione fiscale che colpisce il risparmio. Altri prelievi che saranno travasati nel vaso senza fondo del debito pubblico. Il governo s’è accorto che quello è il vero e grande problema, sostenendo, con Graziano Delrio, la creazione di un fondo europeo. Indirizzo corretto, ma impreciso: non siamo ancora agli union-bond per federare il debito, inutile chiederlo, mentre può essere interessante per tutti un fondo che scambi liquidità contro abbattimento del debito pubblico, prendendo in carico patrimonio da vendere. Ne abbia qui scritto. Provino a pensarci e a proporlo. Al contempo stiano attenti, perché anche solo ipotizzare il default è come chiamarlo.

Quel che oggi prende corpo è un incubo: maggiore tassazione del risparmio a cura di uno Stato che non riesce a risparmiare; cittadini che rinunciano ai consumi devono privarsi dei frutti della parsimonia per dare soldi a uno Stato che non rinuncia alla spesa improduttiva e non sa distinguere la spesa essenziale da quella superflua. A questo s’aggiunge l’abominio del canone Rai, chiesto con azioni estorsive verso partite iva e famiglie in cui i coniugi hanno residenze diverse. Qui non si tratta di trovare scappatoie, è il ministro dell’economia che ha il dovere di convocare i dirigenti di una società statale, diffidandoli dal continuare in una condotta oltraggiosa.

Non bastasse tutto ciò, sta anche prendendo piede un nuovo genere, quello della vendetta fiscale. Consiste nel sottrarre per via fiscale quel che si era ingiustamente o esageratamente dato, talora in termini patrimoniali, qualche altra in agevolazioni fiscali o contributi statali. Si può credere (o far credere) che una cosa compensi l’altra, in realtà entrambe scompensano tutto. La vendetta fiscale funziona come le faide fra famiglie mafiose: non si raggiunge mai nessun equilibrio, cresce il numero dei morti, si mietono vittime collaterali e ci si allontana sempre più dalla legalità.

Prendiamo due casi: a. la tassazione della rivalutazione delle quote Banca d’Italia; b. la tassazione del reddito da energie rinnovabili. Nel primo caso si realizzò una grande porcheria, che qui avversammo e che non ha ancora smesso di generare effetti negativi. Matteo Renzi, all’epoca, era “solo” segretario del Partito democratico e non volle in nessun modo intervenire. Lasciò che si facesse. Divenuto capo del governo e alle prese con i problemi di cassa, decise di aumentare la tassazione di quelle rivalutazioni, che erano altrettanti vantaggi per alcune (mica tutte) banche, portandola dal 12 al 26%. Provvedimento con effetto retroattivo, visto che l’operazione era già formalmente conclusa, ma i cui effetti fiscali dovevano ancora prodursi. Già che ci si trovavano hanno aumentato la tassazione sul risparmio, per l’occasione ridenominato “rendita”, facendola passare dal 20 al 26%. Sul primo punto sfruttando la suggestione che si colpissero quegli affamatori dei banchieri, in realtà venendo meno a quanto il governo della Repubblica aveva promesso, stabilito e decretato qualche settimana prima. Sul secondo alimentando la suggestione che le rendite siano una specie di furto alla collettività, quando, in realtà, si tratta anche di risparmi generati da redditi sui quali si erano già pagate le tasse. Il tutto a cura di un governo il cui ministro dell’economia sostiene che si dovrebbe far scendere la pressione fiscale.

Nel secondo caso, invece, si è partiti dal fatto (qui altre volte documentato) che i contributi alle energie rinnovabili (con diversificazioni interne al settore) erano stati ed erano, in Italia, troppo alti rispetto alla media europea. Anzi, per la precisione, erano alti e insicuri, spingendo gli investitori a massimizzare il profitto nei primi anni. Anziché mettere mano a quel sistema, anche aggredendo i “diritti acquisiti”, il governo ha preferito far salire la tassazione, presumendo redditi irreali e facendo finta di non sapere che dei troppo succosi contributi s’erano giovati i venditori e installatori di apparati (in gran parte costruiti in Cina o Germania), mentre i gestori degli impianti, anche quelli di medie e piccole dimensioni, sono imprenditori, specie agricoli, impegnatisi con finanziamenti a dieci anni. Cambiare le carte in tavola, quindi, ha penalizzato l’anello italiano di quella catena produttiva, spingendo taluni a portare i libri in tribunale e convincendo tutti a non fare più investimenti nel settore. Anche in questo caso la suggestione è: chi ha avuto troppo è giusto che si veda togliere qualche cosa.

Invece non è giusto affatto, perché con l’arma della vendetta è fiscale, senza cambiamento delle regole sbagliate, si ottiene il solo risultato di certificare come inaffidabili le regole e le leggi italiane, quindi lo Stato. E se sono inaffidabili, mutevoli nel tempo, sottoposte al vindice sciabordio degli umori popolari e delle speculazioni populiste, e se oltre a essere inaffidabili sono anche (come sono) appoggiate da una giurisprudenza che segnala come per i giudici italiani la retroattività delle norme fiscali è da considerarsi prassi virtuosa, anziché oltraggiosa, è evidente, direi “solare”, che nessuno sano di mente verrà a investire quattrini in un Paese in cui non puoi fidarti delle autorità, né ha senso invocare un giudice. A meno che non venga per portare via qualche cosa. Il che dovrebbe suggerire la stoltezza di una simile dottrina.

Doppio gioco fiscale

Doppio gioco fiscale

Il Foglio

Oggi scatta l’aumento dal 20 al 26 per cento dell’aliquota sui proventi di natura finanziaria (dividendi, cedole e interessi per i conti correnti, depositi bancari e postali) con eccezione di quelli soggetti a regimi agevolati; ossia i titoli di Stato, gli interessi corrisposti a intermediari finanziari non residenti per obbligazioni internazionali e i proventi dei fondi di previdenza complementare italiani e di quelli di previdenza europei. Queste limitazioni generano distorsioni che tendono ad accrescere il costo delle emissioni obbligazionarie e dell’erogazione del credito bancario. Ma soprattutto il loro effetto distributivo è opinabile. Sono misure che spaventano e confondono il piccolo risparmiatore, cioè il contribuente medio: lo sgravio di 80 euro per i percettori di redditi bassi (sotto i 26mila euro) viene finanziato con l’aumento della tassazione sulle rendite; e così il sollievo per uno sgravio viene “compensato” da un aumento della tassazione che riguarda il medesimo ipotetico soggetto. Cosa si vuole ottenere con un messaggio così ambiguo per il risparmiatore/consumatore? Non c’è dunque da meravigliarsi se non si vedono gli effetti benefici sulla domanda interna di uno sgravio di per sé opportuno: la politica di finanziare la riduzione d’imposte ad ampia diffusione con altre imposte – anch’esse operanti su un’ampia massa di contribuenti – genera una contrazione dei consumi che può sterilizzare gli effetti positivi del corrispondente sgravio fiscale. Può anzi dare luogo non a un risultato nullo, ma a uno negativo. Il solo modo di effettuare riduzioni fiscali benefiche perla crescita consiste nel coprirne il costo con il contenimento della spesa.

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Roberta Amoruso – Il Messaggero

Soltanto la concorrenza, quella basata sui meriti e non sulle rendite di posizione, può salvare la crescita. Ma va eliminato il nemico peggiore, mette subito in chiaro il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, presentando al Senato la relazione annuale dell’Authority: va «scardinato» quel capitalismo di relazione fondato su «alcuni grandi poteri economici», sui «rapporti privilegiati con gli apparati pubblici», sulle lobbies ma anche sulla protezione dai concorrenti, compresi quelli esteri. Pitruzzella ce l’ha con gli ex-monopolisti, con quei «privilegi» tutt’ora sanciti da norme di legge e da atti amministrativi e con quei meccanismi complessi che favoriscono «intrecci perversi tra pubblico e privato». Gli interessi dei «cacciatori di rendite» allargano le disuguaglianze e sono responsabili della crescita del debito pubblico e di pesanti «danni» all’economia, per il numero uno dell’Antitrust. Certo, «un cambiamento significativo è in atto», ammette Pitruzzella. Ma è inutile farsi «illusioni»: le politiche di stimolo fiscale non bastano, non funzionano «per uno Stato debitore». Soltanto riforme strutturali e liberalizzazioni possono spingere su competitività e crescita. E se poi ci sono dei costi sociali da pagare (questa è la principale critica) per la concorrenza, ci pensi un welfare migliore a tamponarli, dice a chiare lettere l’Antitrust. Che poi insiste ancora: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari sono i settori più controllati dai «poteri forti» e anche quelli con maggiori potenzialità di crescita. Nel dettaglio. il Garante della concorrenza e del mercato punta il dito sul capitalismo municipale che blocca la crescita delle utilities. Ecco perché è necessario un riordino «radicale» delle società pubbliche, con tanto di dismissioni da mettere in calendario o comunque con lo stop «al rinnovo degli affidamenti per le società che registrano perdite o forniscono beni e servizi a prezzi superiori a quelli di mercato». Nello stesso tempo, sembrano «maturi i tempi per inserire nell’agenda delle riforme la disciplina dei servizi pubblici locali». Il modello generale andrebbe «superato» con l’elaborazione «di discipline particolari adeguate alla natura dei diversi servizi, in modo da aprire spazi alla concorrenza in quegli ambiti in cui non trova giustificazione tecnica il mantenimento di diritti di esclusiva». Per il resto, Pitruzzella è convinto che sia arrivato il tempo di una riforma della legge sul conflitto di interessi ma anche del mercato della Rc auto, visto che «i prezzi pagati dai consumatori sono tra i più alti d’Europa». Sul fronte bancario, rescindere «i legami personali» tra diversi istituti rimane una missione. Ma va anche «rafforzata» la separazione tra Fondazione e banca conferitaria, estendendo il divieto di detenere partecipazioni di controllo in società bancarie anche ai casi in cui il controllo è esercitato, di fatto, congiuntamente ad altri azionisti. Un punto molto caro anche al governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Quanto alle Fondazioni, anche qui va introdotto il divieto di sedere in diversi cda degli stessi enti.

Al di fuori degli ambiti tradizionali di azione dell’Antitrust c’è poi un altro insidioso mondo sul quale la vigilanza non può mollare: l’e-commerce, dove si annidano nuove forme di «sfruttamento del consumatore». Internet, insomma, per l’Antitrust non può essere un Far West. Più in generale, però, l’apertura del mercato nazionale è «insufficiente», avverte l’Antitrust, se non inserita in un quadro europeo. Insomma, se l’Italia fa la sua parte l’Ue non può tirarsi indietro, dice Pitruzzella. Lo stesso che, non a caso, ha appena aperto un’istruttoria su Google, Apple, Amazon company.

La bestia affamata delle Spa locali

La bestia affamata delle Spa locali

Massimo Giannini – La Repubblica

Tra i tanti capitoli del romanzo gotico della spending review, dimenticati o stralciati da Palazzo Chigi, ce n’è uno che inquieta più degli altri. È quello che riguarda le società partecipate degli enti locali. Una giungla di clientele, sperperi e corruzione. Il premier aveva tuonato contro quelle “8 mila Spa” che mungono la generosa mammella statale e municipale senza vantaggi per il cittadino contribuente. Ora lo scomodo commissario Carlo Cottarelli, che ogni tanto almeno in qualche convegno riesce ad uscir fuori dalla “clandestinità” alla quale lo obbliga il premier, ci informa che le cose stanno peggio di come le immaginavamo.
«Le società pubbliche – annuncia il responsabile della task force taglia-spese al quale hanno momentaneamente sottratto le forbici – sono almeno 10 mila, e non le 8 mila censite finora, e perdono 1,2 miliardi». A questo falò di denaro pubblico vanno aggiunti «i costi nascosti da contratti di servizio gonfiati e quelli a carico dei cittadini per tariffe eccessive». Uno scandalo nello scandalo. Non si capisce perché il capo del governo non ci metta mano, come per altro aveva annunciato fin dalle prime slide-conference. O meglio, si capisce benissimo. Basta ascoltare ancora Cottarelli: «Quello delle partecipazioni locali è un mondo molto differenziato. Ci sono le “strumentali”, spesso a rischio abuso perché costituite solo per creare occupazione, e ci sono quelle che gestiscono i servizi pubblici locali, che rappresentano il 20% delle partecipate ma raccolgono il 60% del fatturato». Dunque, almeno l’80% delle 10 mila aziende pubbliche partecipate dagli enti locali, oltre a generare ricavi irrisori, non servono a produrre alcunché, ma solo ad occupare gente. Bisognerebbe chiuderle: ma poi dove mandi le madri e i padri di famiglia che ci lavorano, e che magari ti votano pure? Bel problema. Com’è un problema la gestione di quel 20% delle partecipate che gestiscono i servizi pubblici, dall’energia al gas, dall’acqua ai rifiuti. Hanno un fatturato da 40 miliardi, ma staccano un dividendo annuo di appena 604 milioni agli enti locali, e soprattutto sono la bellezza di 1.100. Troppe anche queste, e soprattutto poco efficienti e non redditizie come dovrebbero e potrebbero essere. Ora, in un impeto nietzschiano di “volontà di potenza”, Cottarelli si sbilancia e promette che entro luglio scatterà il piano di “disboscamento” delle Spa locali. Speriamo che non sia l’ennesima fuga in avanti, e che almeno stavolta il presidente del Consiglio – al contrario di quello che è avvenuto con la manovra del bonus Irpef da 80 euro copra politicamente le indicazioni di razionalizzazione della spesa formulate dal suo commissario. Spiace citarlo, perché è stato lo slogan dei conservatori americani di Bush, ma soprattutto in quello zoo mangiasoldi c’è davvero bisogno di “affamare la bestia”.