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Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.
Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.

E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.

Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

Carlo Pelanda – Libero

Nel secondo trimestre 2015 è prevista l’inversione della crescita del Pil da negativa a positiva. La ripresa avrà effetti omogenei o differenziati per settori economici e territori? Saranno differenziati perché la stimolazione sarà incompleta: monetaria, ma non fiscale. Per capirci, se il governo decidesse di tagliare 100 miliardi di spesa pubblica (in tre o quattro anni) e di 70 miliardi le tasse, lasciando un margine di 30 per gestire l’equilibrio di bilancio statale, il capitale così liberato, via più investimenti e consumi privati, darebbe un impulso fortissimo e diffuso a tutta l’economia nazionale. Nel simulatore, una tale mossa, combinata con la megastimolazione monetaria attuata dalla Bce, porterebbe la crescita del Pil nel 2015 ad oltre il 4%, vicino al 6% nel 2016, per poi stabilizzarsi al 3% negli anni successivi (a condizione di una media stabilità globale). Per inciso, va considerato che un euro intermediato dallo Stato, in un modello politico socialistoide che alloca il più dei denari fiscali per finanziare apparati invece di investimenti modernizzanti, produce circa 0,90 euro per anno, cioè perde valore, mentre un euro lasciato nel mercato ne genera almeno 2. Da questo cenno si può intuire l’importanza stimolativa, nonché la diffusività sociale, di una defiscalizzazione massiva.

Vi sarebbero alcuni punti delicati: la minor spesa pubblica colpirebbe nel breve termine le aree meridionali, comporterebbe lo spostamento di una parte dei dipendenti pubblici al mercato privato, ecc. Da un lato, tali problemi sarebbero risolvibili in un momento di allentamento monetario che, rendendo possibili crescite forti e rapide, permetterebbe di assorbire velocemente più trasferiti dal pubblico al privato nonché di sostituire con capitale di investimento (incentivato) il minor denaro pubblico nelle aree meno sviluppate (se bonificate dalla criminalità). Dall’altro, non avverrà perché è impensabile che una maggioranza di sinistra voglia farlo e che il governo abbia la tecnicità per attuarlo in modo liscio, pur azione fattibile. Pertanto bisogna assumere la continuità del modello socialistoide e contare solo sull’effetto di maggiore liquidità e svalutazione competitiva.

Il punto: proprio l’inerzia riformatrice del governo produrrà un effetto selettivo sulle unità economiche, basato sulla maggiore vicinanza o lontananza dai settori-territori stimolati dalla Bce. La svalutazione dell’euro favorirà l’export delle aziende internazionalizzate ed il loro indotto nei territori dove queste sono più dense, cioè il Nord e parte della costa adriatica. L’effetto sarà maggiore o minore in relazione all’intensità e durata della svalutazione competitiva e, al riguardo dell’indotto, in base alla quantità di investimenti. L’effetto complessivo sarà espansivo, ma non così propulsivo e rapido per le reazioni contrarie del dollaro e di altre valute all’eurosvalutazione e perché prima di fare nuovi investimenti ed assunzioni le imprese useranno la capacità inutilizzata, questa rilevante. Un effetto positivo e spalmato è atteso dall’importazione di turismo da aree non-euro, moltiplicato dalla fortunata coincidenza dell’Expo. Ma la crescita in questi due settori non riuscirà a smuovere la stagnazione dei consumi e del settore delle costruzioni, lasciando milioni di piccole imprese industriali, artigianali e commerciali nei guai, complicati da una restrizione del credito che, pur di meno, continuerà.

In conclusione, la stimolazione solo monetaria e non fiscale causerà una ripresa incompleta che spaccherà l’Italia in tre settori: a) più ricchi, i territori ad alta densità di aziende internazionalizzate (Lombardia, Veneto, Piemonte e, meno, Emilia); b) galleggianti, ma senza vera ripresa, quelli con minore densità di imprese esportatrici, ma con certa capacità turistica (Centro italia); c) più poveri i territori meridionali nonostante un incremento del turismo stagionale. Come è sempre stato? Attenzione: la differenziazione per ricchezza tra persone e territori diventerà più marcata e ciò si trasformerà in un grave problema di governabilità della nazione. L’assenza della stimolazione fiscale (detassazione) in presenza di quella monetaria, oltre a ridurre i potenziali di ripresa, potrebbe disgregare l’Italia. Va segnalata a Mattarella la relazione tra integrità nazionale, di cui è tutore, e cambiamento di un modello economico inadeguato, esercitando la dovuta pressione su un governo orbo e/ o non ostacolando la sua sostituzione quando una destra inevitabilmente rinnovata ritroverà consistenza.

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Filippo Santelli – La Repubblica

«Mi sono iscritto a maggio, aspetto ancora di essere contattato», si sfoga un 24enne sardo. A una ragazza di Roma, 23 anni, è andata poco meglio: «Sono stata chiamata per un colloquio, ma si sono limitati a illustrarmi il programma». Per un suo corregionale invece, 25 anni, il messaggio è stato diretto: «Mi hanno detto che offerte di lavoro non ci sono, le aziende che hanno aderito sono pochissime». Non sta funzionando Garanzia Giovani, il piano che avrebbe dovuto garantire agli under29 che non studiano né lavorano, i Neet, un’opportunità di formazione o impiego. Lo dicono le testimonianze, anonime ma numerose, raccolte dal centro studi Adapt e dal sito Repubblica degli Stagisti. E lo confermano pure i numeri ufficiali del ministero. Perché su un milione e 700mila giovani Neet italiani una frazione, 340mila, si sono registrati alla Garanzia, solo 139mila sono stati contattati da un centro per l’impiego per il primo colloquio e appena 11mila e 775 hanno ricevuto una proposta di stage, contratto o corso professionale. Uno ogni 30, su per giù. Con tempi di attesa ben superiori ai quattro mesi promessi.

«Anche solo per attivare un tirocinio, il processo è molto articolato», spiega Luigi Olivieri, 50 anni, dirigente dei servizi per il lavoro della provincia di Verona. Prima bisogna provare l’interesse del mercato per una determinata figura professionale e raccogliere la disponibilità di un certo numero di imprese. Quindi ottenere l’approvazione della Regione. E solo allora preparare una graduatoria dei giovani, organizzare un incontro con l’azienda e scrivere il loro progetto formativo. «Il tutto prende due mesi e mezzo», continua Olivieri. Ogni territorio ha definito regole e criteri diversi, è il federalismo delle politiche per il lavoro. Ma le difficoltà a avviare proposte concrete è una costante. In Veneto sono stati impegnati solo 8 milioni di euro, sui 40 ricevuti per corsi di formazione e programmi di inserimento lavorativo. In Sicilia solo 25 milioni su 178. «La modalità scelta, basata sulle candidature dei giovani, non permette di attirare le aziende», dice Olivieri.

Anche il governo sembra averlo capito. Due decreti del ministero del Lavoro, ora al vaglio della Corte dei Conti, cercano di rendere più appetibile per le imprese l’adesione a Garanzia Giovani. Il primo corregge l’attuale sistema di profilazione dei ragazzi, che li classifica in base alla loro occupabilità. Al momento sette su dieci finiscono nelle classi meno svantaggiate, con incentivi più bassi per chi li assume. Il secondo allarga il bonus anche ai contratti di apprendistato e a quelli a termine di durata inferiore ai sei mesi, e permette di cumularlo con altri tipi di facilitazioni economiche o contributive.

«Ma così Garanzia Giovani diventa ancora di più un sistema di incentivi a pioggia per le assunzioni, poco efficaci», ragiona il direttore di Adapt Michele Tiraboschi, secondo cui è l’impianto stesso della misura a non funzionare. «L’obiettivo iniziale era creare un sistema che prendesse in carico, orientasse e formasse i giovani, che li rendesse più occupabili », dice. Questo lavoro, almeno in prima battuta, lo dovrebbero fare i centri pubblici per l’impiego. Che però in Italia restano a corto di fondi (500 milioni di euro l’anno, contro i 5 miliardi stanziati della Francia) e di personale qualificato (solo il 25% dei dipendenti è laureato). E senza certezze sul domani, proprio come le Province da cui dipendono. Nascerà un Agenzia nazionale per il lavoro, ma non prima di aver riformato il Titolo V della Costituzione, riportando la competenza sulle politiche attive a livello centrale. Non a caso, la parte del Jobs Act che procede più lenta.

C’è qualcosa di nuovo

C’è qualcosa di nuovo

Giuliano Cazzola – La Nazione

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole». Dalle statistiche ufficiali, di solito molto severe, arrivano primi segnali positivi per quanto riguarda il lavoro. A dicembre è diminuito il tasso di disoccupazione e sono aumentati gli occupati (di quasi centomila su novembre) e nello stesso tempo sono molti di più gli italiani che cercano lavoro (perché sperano di trovarlo), Per parlare di svolta occorrerebbero dati più stabili. L’aspetto incoraggiante viene, però, dal versante dell’economia.

Secondo l’autorevole Centro studi di Confindustria, il 2015 si annuncia come l’anno dello spartiacque, perché dovrebbe terminare la lunga crisi dando corso a incrementi del Pil e dell’occupazione che si riveleranno migliori delle previsioni correnti, «persino di quelle più recenti». Determinare la svolta a lungo attesa sono essenzialmente fattori esterni (la ripresa del commercio mondiale, il crollo del prezzo del petrolio, il cambio dell’euro). Si guarda. poi, con fiducia alle conseguenze dei nuovi criteri di flessibilità dei bilanci e delle misure della Bce sul Quantitative Easing (ma si sottovaluta l’effetto-contagio della Grecia), tra i fattori positivi c’è anche, per l’Italia il drastico ridimensionamento dei tassi di interesse sui titoli di nuova emissione. Bisognerà pur ammettere, allora, che le politiche condotte fino a oggi all’interno della Ue, sono state le sole che (se ne saremo capaci) consentiranno all’Italia di afferrare il ciclo della ripresa. Un posto di riguardo va riservato alle politiche del lavoro (lo ha riconosciuto anche il governatore Ignazio Visco), a partire dalla riforma del contratto a termine, mediante l’eliminazione della causale nell’ambito dei 36 mesi consentiti e con la possibilità di avvalersi di ben 5 proroghe.

Del Jobs Act Poletti 2.0 sono in corso le procedure per i decreti attuativi. Forte è l’interesse che le nuove norme stanno suscitando nelle imprese e negli investitori esteri. Se il testo dello schema non subirà delle modifiche sostanziali è doveroso riconoscere che vi saranno dei cambiamenti consistenti per quanto riguarda sia il licenziamento economico che quello disciplinare. Al contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) si accompagna un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare allo Stato la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015.

Province, il piano per il 20mila esuberi

Province, il piano per il 20mila esuberi

Andrea Bassi – Il Messaggero

Per il governo è qualcosa in più di un passaggio delicato. È una prova. Uno spartiacque. Riuscire a gestire il più grande processo di mobilità di dipendenti pubblici mai tentato in Italia. Sono i 20 mila lavoratori delle Province che da qui al 2016 dovranno trovare una nuova collocazione. Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ieri ha messo a punto il primo importante passaggio di questo percorso, una circolare che detta le linee guida per determinare il destino di questi 20 mila statali. In realtà, alla fine, il processo di mobilità potrebbe riguardare una platea meno ampia di personale, circa 15mila in tutto. Dai 20mila di partenza, infatti, vanno sottratti i dipendenti delle Province che lavorano nei centri per l’impiego. Personale che sara ricollocato nella nuova Agenzia prevista dal Jobs act. Vanno anche sottratti tutti coloro che entro il 2016 avranno, con le regole vigenti, i requisiti per andare in pensione. Non sono pochi.

Per le province il blocco del turn over è stato molto incisivo. L’età media del personale è alta e dunque i numeri sarebbero consistenti. Ed ancora, i 20mila, vanno decurtati da coloro che potranno essere pensionati in base alle regole pre-Fornero. Per la Pubblica amministrazione, in effetti, fino al 2016 è in vigore una norma inserita nel cosiddetto «Decreto D’Alia» che permette in caso di dichiarazione di esuberi, di poter mandare in pensione il personale con i requisiti più favorevoli previsti dalle vecchie norme, che fino al 2015 prevedevano il pensionamento con 61 anni di età e tre mesi, e 36 anni di contributi. Insomma, al netto di pensionati, prepensionati e dipendenti dei centri per l’impiego, il numero totale dei dipendenti delle Province da ricollocare sarebbe ben inferiore ai 20mila e più vicino ai 15mila. Cosa sarà di questi dipendenti? L’intenzione del governo, indicata nella circolare Madia, è di concentrare sul loro riassorbimento tutte le forze e le risorse disponibili. Con qualche effetto collaterale, come la necessità di spostare di un biennio, dal 2016 al 2018, il termine per la stabilizzazione dei lavoratori precari del pubblico impiego.

Per assorbire il personale delle Province entreranno in campo, in prima battuta, le Regioni. Quelle che negli anni scorsi hanno trasferito delle loro funzioni agli enti provinciali, dovranno riprendersele indietro con tutto il personale adibito a quelle stesse funzioni. Nel caso in cui questo trasferimento di deleghe non ci sia stato, allora le Regioni dovranno destinare tutte le risorse per le assunzioni del biennio 2015-2016, al netto solo di quelle necessarie per i vincitori di concorso, per assorbire i dipendenti provinciali. In pratica tutto il turn over sarà vincolato all’assunzione dei lavoratori delle Province. Una misura simile la dovranno attuare anche le altre amministrazioni dello Stato, Comuni compresi. La Presidenza del Consiglio avvierà un monitoraggio sui fabbisogni di personale e sulle risorse disponibili di tutta l’articolazione della macchina statale. Anche in questo caso, sempre al netto dell’assunzione dei vincitori di concorso, le risorse dovranno tutte essere destinate ad assorbire i dipendenti provinciali. Stesso discorso vale anche per gli uffici giudiziari. Il bando per la mobilità per coprire 1.031 posti da cancelliere, dovrà essere prioritariamente destinato a quei lavoratori in mobilità delle Province che ne facciano richiesta.

Basterà questo a dare un posto tutti i dipendenti in mobilità? Al ministero della Funzione pubblica ne sono convinti. Eppure nella circolare è stata inserita una sorta di «clausola di salvaguardia». Se alla fine di questo processo dovessero rimanere dei lavoratori in esubero, c’è scritto, ci saranno solo due strade per gestirli. La prima sarà quella dei «contratti di solidarietà», con riduzione per tutti delle paghe e dei tempi di lavoro. Se nemmeno questo dovesse bastare scatterà il collocamento in disponibilità. Significa due anni all’80% dello stipendio e poi, eventualmente, il licenziamento. Ma questa, dice la circolare, è solo la «extrema ratio».

L’Europa non cresce perché ha deciso così

L’Europa non cresce perché ha deciso così

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Il primo ministro italiano ha un sogno: la parità tra dollaro e euro. Questo significa una svalutazione di almeno il 20% rispetto alla fine del 2014. E non c’è dubbio che la manovra della Bce denominata Qe (quantitative easing) vada in questa direzione. Certo, una svalutazione dell’euro aiuta una parte delle imprese europee (e italiane) che esportano fuori dell’Europa e quelle che temono la concorrenza da parte di paesi dell’area del dollaro, ossia da parte di molti paesi emergenti. Ma una simile svalutazione ha fondamenta economiche?

Facciamo finta di porre questa domanda a un’ipotetica Agenzia di Rating Interplanetaria (Ari) che guardasse la Terra e volesse dare un voto complessivo al nostro Mondo. Ebbene, un analista dell’Ari non avrebbe difficoltà a verificare che i paesi dell’euro (Eurolandia) hanno conti con l’estero attivi (per circa il 2,5% del Pil), ossia esportano più di quanto importino, mentre gli Usa con il loro dollaro hanno un disavanzo di circa un’analoga entità (2,6% del Pil). Se poi guardassero ai costi salariali di produzione, scoprirebbero che Eurolandia sta riducendo il costo unitario del lavoro rispetto ai suoi concorrenti (-0,7% nel 2014), mentre gli Usa lo stanno aumentando (+0,2%). Non solo, ma Eurolandia ha un disavanzo pubblico sotto la famosa soglia del 3% (2,6%), mentre gli Usa la superano alla grande (4.9% ). Di fronte a questi dati, il nostro analista dell’Ari troverebbe bizzarro che gli europei puntino a una svalutazione dell’euro. «Ma come» direbbe l’analista «qua bisogna fare l’inverso: svalutare il dollaro per correggere squilibri nei conti con l’estero americani, mentre l’euro andrebbe rivalutato per le ragioni opposte». Di fronte a queste tendenze. l’analista sarebbe indotto a degradare il rating della Terra per manifesta incongruenza delle azioni dei maggiori governi del Globo!

Anche noi dobbiamo domandarci perché una della aree più ricche del mondo, quella dell’euro, con oltre 300 milioni di abitanti istruiti, protetti da sistemi sociali avanzati, residenti prevalentemente in zone urbane, sofisticati come consumatori e risparmiatori, con i conti pubblici mediamente in buon equilibrio, per crescere debbano puntare solo sulle esportazioni verso un paese indebitato come gli Usa e verso paesi più poveri come quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. E, per raggiungere questo obiettivo, debbano frenare la propria domanda interna per consumi e investimenti, riducendo i salari della propria popolazione e la spesa pubblica. Possibile che abbiamo costruito l’Europa affinché dipenda dalla crescita della Cina o si difenda dalla competitività dei poveri vietnamiti? Dov’è che abbiamo sbagliato e dove continuiamo a sbagliare?

In realtà, paradossalmente, con l’adozione dell’euro non siamo andati avanti nel costruire un’Europa unita, ma siamo clamorosamente scivolati indietro. Siamo tornati ad essere la somma di 19 piccoli paesi (area dell’euro) che, invece di costruire una nuova istituzione sovranazionale, si sono impegnati a “mettere ordine a casa propria”. L’illusione è che la somma di tanti piccoli paesi competitivi dia luogo a un grande paese competitivo. Ma non sarà così. Per essere rapidamente competitivi non si può che comprimere i costi interni (salari e spesa pubblica) e cercare di invadere gli altri mercati, a cominciare da quelli dei vicini. È quello che ha fatto la Germania prima della grande crisi. Se tutti in Europa avessimo fatto come la Germania, nessuno avrebbe ottenuto quei risultati (neppure la Germania), la domanda interna europea sarebbe crollata ed Eurolandia sarebbe sprofondata in una crisi recessiva ben prima della grande crisi finanziaria.

Ma, poiché continuiamo a ripeterci che la salvezza sta solo nell’essere competitivi, ecco che esultiamo per la svalutazione dell’euro che invece impoverisce i nostri paesi. Il modello di sviluppo dell’Ue non dovrebbe essere quello trainato dalle esportazioni come risultante della somma delle competitività dei singoli paesi, ma quello di un grande paese capace di trovare al suo interno il motore della crescita, per migliorare il patrimonio infrastrutturale. la qualità della vita dei propri cittadini, il livello di sicurezza e di benessere generale. Questo non significa affatto rinunciare ad essere competitivi sui mercati mondiali, ma implica assumersi la responsabilità di generare una crescita mondiale che non può che partire dalle aree più ricche della terra.

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Massimo Blasoni – Senzafiltro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali).
Incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, il Centro studi “ImpresaLavoro” ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!).
Risultato? Il nostro stock di debito è rimasto sostanzialmente invariato, restando così il maggiore a livello europeo sia in termini nominali che relativi. Già dal 2010, l’Italia ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con la PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). Le conseguenze di questa situazione sono pesantissime: il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha infatti finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013.
L’onere complessivo a carico del sistema grava inoltre sul tessuto produttivo economico fino a coinvolgere imprese subfornitrici e dipendenti. In questi numeri non sono infatti ricompresi gli effetti legati ad altri aspetti comunque rilevanti quali i minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale; la riduzione di dipendenti e quindi della distruzione di posti di lavoro; i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della PA, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento; i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti. In merito a quest’ultimo aspetto va infatti ricordato che, a partire dal 1° gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato la Pubblica Amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento BCE maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno.