Edicola – Opinioni

Lavorare costa

Lavorare costa

Ernesto Felli e Giovanni Tria – Il Foglio

Luca Ricolfi ha esposto con un articolo sulla Stampa (8 ottobre) una proposta per determinare un immediato aumento dell’occupazione senza costi per il bilancio dello stato. La proposta si basa sull’idea, fino a questo punto non nuova, che una riduzione sensibile del costo del lavoro, via detassazione fiscale o contributiva, avrebbe un impatto rilevante sulla propensione ad assumere. La parte nuova della proposta sta nel fatto che essa si basa su una ricerca quantitativa sulla reazione positiva delle imprese a un eventuale ribasso del costo del lavoro di nuovi assunti e sulle implicazioni di questa reazione sulla possibilità di finanziare, senza costi per il bilancio dello stato, la detassazione necessaria a provocare le nuove assunzioni.

La proposta, denominata job-Italia, si basa sul fatto che, in base alla ricerca menzionata., un’azienda disposta ad assumere per ipotesi 10 lavoratori addizionali a legislazione vigente ne assumerebbe il doppio qualora la busta paga, cioè la retribuzione netta percepita dal lavoratore, fosse non il 50 per cento del costo aziendale ma l’80 per cento. Secondo la proposta, questo 20 per cento aggiuntivo, rispetto al salario netto in busta paga, sarebbe destinato a pagare l’Irpef del lavoratore e parte dei contributi sociali. Lo stato dovrebbe coprire la parte restante dei contributi sociali affinché il lavoratore non abbia una minore copertura contributiva. I calcoli di Ricolfi sono che l’occupazione aggiuntiva produrrebbe un gettito addizionale di entrate che coprirebbe ampiamente il costo derivante dal minore gettito contributivo. Questo tipo di contratto si dovrebbe applicare, secondo la proposta, solo ai nuovi assunti che risultino addizionali rispetto al numero già occupato nell’impresa, per un periodo massimo di quattro anni e per salari netti tra i 10 e i 20 mila euro. Richiamiamo questo studio,sia perché interessante in sé, sia perché indica un metodo di lavoro. Ovviamente, se uno vuole, si possono avanzare tante possibili obiezioni, come quasi su ogni proposta. Se la reazione positiva delle imprese non fosse cosi ampia un costo vi sarebbe perché la detassazione contributiva opererebbe su assunzioni che si sarebbero in ogni caso verificate.

Forse è da approfondire cosa accadrebbe dopo i quattro anni. Ma è anche vero che qualcosa si deve fare. anche tenendo conto dei vincoli in cui si opera. La vera questione e uscire dai calcoli statici ragionieristici. Nel caso in questione si potrebbe determinare un deficit temporaneo o forse no, ma l’analisi si deve basare su una dinamica attesa. D’altra parte le previsioni ordinarie di bilancio e di crescita cui siamo abituati si rivelano ex post talmente divergenti dagli eventi che non ci sembra che non si possa affrontare il rischio insito in ogni previsione. Se fondata, quando si tratta di varare qualche provvedimento sensato. Ma vi è un aspetto della sua proposta che lo stesso Ricolfi non sottolinea abbastanza e che è importante per rispondere alla domanda sul cosa succede dopo i quattro anni, problema insito in ogni provvedimento temporaneo.

Aprire un’impresa o ampliarla è rischioso, ancora di più lo è con aspettative negative sull’economia. La proposta di Ricolfi è interessante, secondo noi, proprio perché entra nella categoria di provvedimenti tesi a ridurre il rischio e non a sostenere con aiuti l’impresa, Ciò giustifica il provvedimento limitato ai nuovi assunti per distinguerlo da quelli tesi a ridurre in generale il costo del lavoro. In fondo, più aumenta il numero di assunzioni più aumenta progressivamente il rischio per l’impresa che la decisione non si riveli fruttuosa in termini di risultati attesi. Quindi la tendenza è di attestarsi sul livello più basso possibile di occupazione. In questa categoria di provvedimenti, d’altra parte, entra anche l’abolizione dell’articolo 18, la cui ratio è, appunto, ridurre il rischio d’impresa, non ridurre il costo del lavoro o minacciare i diritti sul lavoro.

Il limite della proposta di Ricolfi
È intorno al concetto dinamico di rischio che si deve operare. Negli anni Ottanta, quando ci fu il grande dibattito negli Stati Uniti sul “productivity slowdown”, fu avanzata la proposta di ridurre le tasse sui profitti delle imprese che avessero aumentato la produttività. L’idea era che non si dovesse aiutare l’impresa decotta o in difficoltà a sopravvivere ma spingere le imprese a innovare e ad avere successo. Ma poiché solo ex post si può vedere chi è riuscito ad aumentare la produttività, la soluzione proposta era quella di non abbassare ex ante il rischio d’impresa ma di aumentare ex post il premio al rischio. La proposta di Ricolfi sul lavoro addizionale anche se agisce ex ante rappresenta già il premio a un’azione compiuta, quella di assumere nuovi lavoratori, ma perché non studiare un premio al rischio con una detassazione successiva, sui profitti, collegata al successo dell’impresa, cioè con il passaggio dal contratto job-Italia al contratto ordinario reso possibile, evidentemente, dall’aumento di produttività ottenuto nel frattempo?

Una dote ridotta

Una dote ridotta

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Rispetto al target di 16 miliardi di tagli indicato nel Def di aprile, sarà una “spending” in formato ridotto quella che troverà posto nella legge di stabilità. A confermarlo è l’obiettivo minimo di 3 miliardi, come effetto sull’indebitamento netto Pa, che si sono dati i ministeri con le loro proposte di riduzione della spesa.

A sostenere il peso maggiore dei tagli sembrano destinati ad essere, ancora una volta, le Regioni e gli enti locali. Dopo aver deciso di azionare la leva del deficit per 11,5 miliardi, rimanendo comunque sotto il tetto del 3%, il Governo per completare la prossima legge di stabilità da 23-24 miliardi dalla fisionomia “espansiva” conta di recuperare almeno 10 miliardi dalla spending. E quasi la metà dei questa dote, ovvero 4-4,5 miliardi, dovrà essere garantita dai Governatori e dai sindaci. Questi ultimi avranno comunque in cambio un allentamento del Patto di stabilità interno per un miliardo. Il risultato dei ministeri, anche se dovesse essere superiore all’obiettivo minimo di 3 miliardi, appare quindi al di sotto delle aspettative, anche alla luce del pressing del premier per rendere operativa sulla maggior parte delle voci di spesa la regola del taglio secco del 3%. Regola che comunque in molti casi è stata recepita, come al ministero dell’Economia dove proprio con questo strumento sono fine nel mirino Agenzia fiscali e Guardia di finanza.

La mappa, ancora non definitiva, confezionata sulla base delle ipotesi di intervento mese a punto dai singoli dicasteri, e sulla quale sono chiamati a operare le scelte finali il premier Matteo Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan, mette comunque in evidenza un atteggiamento non passivo come in passato rispetto alla necessità di scovare sprechi e spesa inefficiente. Non a caso le proposte di intervento arrivate a palazzo Chigi produrrebbe un effetto superiore ai 6 miliardi sul saldo netto da finanziare. Anche se con contributi diversi: molto più alto e con scelte non sempre semplici da parte di ministeri come il Lavoro e l’Istruzione che hanno elaborato un pacchetto di tagli non del tutto soft, e a volte non proprio mirati, come dimostra l’ipotesi di intervento sugli sgravi contributivi per la contrattazione di secondo livello; ridotto al minimo e con proposte di intervento non proprio numerose da parte dei ministeri della Salute e delle Infrastrutture.

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Il summit europeo di Milano sui temi del lavoro non deve essere sottovalutato o addirittura dileggiato, come taluni hanno fatto. Perché ha segnato l’inizio di un possibile punto importante di svolta delle politiche economiche europee. Jean-Claude Juncker e il suo vice finlandese sono stati richiamati alla realtà e al rispetto dei patti, ossia a dettagliare l’annunciato ma non ancora varato piano di investimenti per il lavoro. Tali investimenti devono essere uno strumento non monetario ma strutturale, ossia fondato sulla creazione di stock di capitali governati dalla mano pubblica europea anziché nazionale che ora è sottoposta a inaudite e assurde limitazioni.

Un cambiamento neokeynesiano? Non è questione di nominalismi, ciascuna forza politica europea e ciascuna cultura nazionale interpreta la situazione con i suoi valori e i suoi strumenti culturali. E la cancelliera Angela Merkel può pure continuare ad attaccare Mario Draghi sulle misure non convenzionali che ha in animo la Bce, l’importante è che la Germania riconosca la gravità della crisi e agisca di conseguenza. Del resto, la crisi da deflazione si sta radicando sempre più e inizia a essere chiaro a tutti, anche ai falchi del Nord, che occorre cambiare linea economica in Europa. La Francia si sta risvegliando dall’immenso torpore in cui era caduta dopo l’eliminazione politica di Jacques Chirac e del gollismo di combattimento che ispirava i suoi fedeli. E Nicolas Sarkozy è stato una meteora che non ha spostato di un etto lo squilibrio dell’asse franco-tedesco, ormai tutto orientato verso la Germania.

Certo, la crisi economica è devastante e da qui il guizzo di orgoglio nazionale con la sfida francese sul superamento del parametro del 3% che l’Italia renziana si è affrettata a rilanciare, ricevendo prima un richiamo duro dalla Merkel e ora, con un cambiamento di toni radicale, un abbraccio caloroso per l’iniziativa parlamentare in corso sui temi del lavoro. Un’apertura di fiducia che non è casuale o solo frutto dell’iniziativa italiana: segnala che la crisi morde anche una Germania che esporta il 57% del Pil in Europa – sì, proprio in Europa – e che sta comprendendo che ora deve cambiare politica. Renzi può approfittarne, purché non fallisca sugli stessi terreni di gioco che si è scelto.

Qui siamo dinanzi alla tipica situazione del cosiddetto bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Mi spiego. Se sono gli investimenti che creano lavoro, bisogna credere sino in fondo in questa battaglia e l’Europa deve fare da volano e da corona. Ma poi ogni Stato deve fare la sua parte. In primo luogo con intermediari e istituzioni finanziarie pubbliche che allarghino il fronte degli investimenti a livello appunto nazionale. Ma se si accettano i parametri nuovi dell’investimento creatore di lavoro come strumenti essenziali anticrisi, non si può contestualmente continuare a sostenere che la liberalizzazione del mercato del lavoro di per sé sola crea occupazione.

A questo assunto, chiunque non abbia interessi di parte, non ci crede più. E i primi a non crederci sono gli imprenditori cui non piace licenziare tanto per farlo, se lo fanno ci sono costretti. Succede quanto capita in guerra. I militari – salvo qualche eccezione – sono gli ultimi a volerla fare perché sanno quanto sia terribile. Lo stesso vale per i licenziamenti: ciò che l’impresa chiede è poter decidere quando e chi assumere e, per converso, chi eventualmente licenziare. Due secoli di lotte sociali in Occidente hanno affermato il principio universale che anche i lavoratori debbono dire la loro su questo tema, allorché si tratta del loro futuro. È scritto nella storia: i sindacati dei lavoratori sono nati per questo, così come quelli dei datori di lavoro.

L’alternativa inevitabile a questo modello di confronto negoziale, se non si vuole sprofondare nel caos della microconflittualità e dello scontro sociale, è trasformare il modello di negoziazione e di confronto in un modello statualistico di regolazione del mercato del lavoro fondato sulla iperlegiferazione, la giurisprudenza, gli avvocati e i magistrati con danni immensi ai fattori di lavoro e di produzione. Non è un caso se l’Italia sino agli anni Settanta ha avuto alti tassi di crescita pur con forti livelli di negoziazione sindacale.

Certo, i dati macroeconomici non vanno ignorati ma vorrà pur dire qualcosa se dopo lo Statuto dei lavoratori l’Italia non ha più avuto una pace sociale vera, un sindacato negoziale associativo prevalente su quello classista e una rappresentanza imprenditoriale fondata sul self help e non invece sull’infausta cultura statualistica come quella dell’accordo del 1974 tra Giovanni Agnelli e Lucio Lama che portò al punto unico di scala mobile con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Renzi e i suoi ministri, in primis quello del Lavoro, devono avere chiaro l’obbiettivo finale: costruire finalmente un sistema di relazioni industriali di modello anglosassone, ossia intersindacale a più livelli di contrattazione non confliggenti e sovrapposti. Per fare ciò occorre una moratoria di tutte le leggi e leggine che uccidono un Paese di piccole imprese con decine di modelli di assunzione che fanno, altresì, dimenticare al sindacato che deve essere in primo luogo un agente contrattuale e non un portatore dell’invadenza statuale. I lavoratori l’hanno già capito.

Coloro che ricorrono al famoso e infausto articolo 18 in caso di licenziamento scelgono non il magistrato (con anni di attesa) ma il risarcimento economico. Senza questo il bicchiere di Renzi e Poletti resterà mezzo vuoto. Se non si farà questa svolta, che è l’unica vera modernizzazione, continueremo a essere nelle mani di avvocati, magistrati e parlamentari. Ma se ci sarà la svolta, si vedrà allora che più che il conflitto prevarrà l’ordine e la ragionevolezza. Anche queste virtù fanno aumentare il Pil.

La causa delle cause

La causa delle cause

Enrico Cisnetto – Il Foglio

L’Europa non sta collassando. Non ancora, quantomeno, e comunque non perché Francia e Italia non rispettano i vincoli di bilancio. Lo deduco non dall’esito del vertice Ue sul lavoro, del tutto inutile, ma da un’analisi sulla vera origine dei problemi dell’eurosistema. Che non risiedono nei vincoli di bilancio imposti dai trattati, o nelle politiche di austerità volute dai tedeschi e neppure in quelle opposte predicate dai paesi mediterranei, o nei limiti statutari della Bce, e in tutti quegli errori che con faciloneria disarmante vengono dati in pasto a opinioni pubbliche che, di conseguenza, sollecitano atteggiamenti sempre più nazionalistici alle proprie classi politiche. O meglio, tutti questi sono sì errori, ma nessuno è quello decisivo. L’errore epocale, da cui tutto discende, è aver preteso di dare una moneta unica a paesi che non avevano e tuttora non hanno una governance democratica comune. E senza mettere rimedio a questa tara genetica, poco importa se prevale la linea del rigore o quella espansiva: l’eurosistema è comunque destinato a non funzionare. Anzi, più si discetta intorno alla presunta dicotomia, risalendo fino allo scontro Hayek-Keynes, e più si stende un velo omertoso sulla causa della cause della crisi europea.

Prendete la scelta della Francia di far slittare il contenimento del deficit. Il grave non sta nell’aver violato patti che in quanto “stupidi” meritano questo e altro, ma di non avere il coraggio di metterli apertamente in discussione, ponendo il problema politico nei vertici Ue.E sapete perché non lo fanno? Perché sanno che la risposta sarebbe quella di andare oltre i trattati, ed essendo autolesionistico farlo tornando indietro alle monete nazionali, l’unico modo sarebbe andare oltre, cedendo definitivamente sovranità politica e istituzionale a un governo eletto direttamente dai cittadini che hanno la stessa moneta in tasca. Ma per i francesi esistono solo gli interessi nazionali. E pazienza se debito federale, Bce leader of last resort e così via, vanno a farsi benedire. D’altra parte, è falsa la convinzione secondo cui la loro sarebbe una prova di forza muscolare contro la Germania e la Ue a trazione tedesca. No, si tratta solo di una mossa di politica interna nel tentativo (utile ma un po’ disperato) di tagliare la strada all’ascesa della Le Pen all’Eliseo. Per carità, bene che riesca, meglio un po’ di deficit in più di quella funesta eventualità – così come meglio gli inutili (dal punto di vista economico) 80 euro di Renzi piuttosto che Grillo a Palazzo Chigi – ma se la destra populista e nazionalista è arrivata a insidiare socialisti e gollisti è colpa di una politica che, tanto con Sarkozy quanto con Hollande, è stata fallimentare. La Germania si è solo limitata a farsi i suoi interessi, e meglio di quanto gli altri non abbiano fatto i propri.

E veniamo a noi. Il semestre europeo a guida italiana ha superato la metà della sua durata senza aver lasciato alcun segno, nonostante si fossero alimentate grandi aspettative. Né s’intravede all’orizzonte nulla che possa far pensare che nella seconda parte la musica cambi. Inoltre, sul deficit stiamo facendo persino peggio della Francia: sforiamo rispetto agli impegni presi, ma facciamo tinta che non sia così. Invece, ora si affaccia un’opportunità straordinaria, che Renzi dovrebbe cogliere al volo: partire dall’inevitabile processo che in Commissione si aprirà nei confronti di Italia e Francia, per lanciare la proposta di una riforma strutturale dei trattati europei, una riscrittura finalizzata a rimettere in moto l’arenato – ma sarebbe più giusto dire, mai partito – processo di integrazione politico istituzionale ed economico-finanziaria dell’area euro.

Attenzione, non si tratta di costituire improbabili cartelli mediterranei “espansivi” contro i maledetti “rigoristi” del nord. Anche perché entrambe le politiche hanno buone ragioni, e sono necessarie entrambe in un mix che non sarà mai ottimale se ciascuno stato rimane pienamente sovrano. Chi mi segue sa che la mia e una posizione “liberal-keynesiana” – e non è un ossimoro, se si evita un approccio dogmatico – ma sa anche che ho sempre sostenuto che non si poteva uscire con nuovi surplus di spesa corrente dalla crisi causata da un eccesso di debito privato (la bolla scoppiata nel 2007 negli Usa e trasferitasi immediatamente al sistema bancario mondiale) è tamponata con una moltiplicazione di debito pubblico (quello servito a immettere liquidità ed evitare il default creditizio). Spesa sì, ma solo in conto capitale (investimenti pubblici), e non senza mettere in gioco il patrimonio degli stati, sottoponendoli così a un sano dimagrimento (senza per questo sposare le tesi ultra dello “stato minimo”). Dunque, evitiamo la puerile polemica anti tedesca e non illudiamoci che domattina possa nascere l’asse Parigi-Roma. Invece, Renzi prenda un’iniziativa forte: convochi a Roma, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, i leader continentali che pesano e sparigli un gioco in cui rischiano di finire stritolati prima di tutto gli italiani, ma con noi l’euro e l’Europa intera. La Merkel è una ragioniera? Bene, si dimostri di saper fare di meglio.

Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Mario Lavia – Europa

A un certo momento persino a uno mediaticamente perfetto come Maurizio Landini può capitare di spararla grossa. E se nessuno ha riso davanti alla sua ultima ineffabile minaccia di occupare le fabbriche deve essere stato perché è come se tutti si fossero guardati negli occhi con aria interrogativa: ma che sta dicendo? E facendo ironie fin troppo facili: occupare quali fabbriche, che sono tutte chiuse? C’è da chiedersi, insomma: è veramente Maurizio Landini questo? Accidenti, un leader con la “l” maiuscola, si è confermato di talk in talk, il sindacalista con la t shirt sotto la camicia spiegazzata. Uno che rende l’idea di un capo che ha le masse e non qualche direttivo di categoria dietro di sé, uno tosto, realista, pragmatico, insomma emiliano-emiliano. E allora com’è che gli sfugge una fregnaccia del genere?

Diciamola tutta. Se finanche i giornali, sempre in affanno nel riempire la pagina, non hanno per nulla scavato sulla “minaccia” landiniana, se l’hanno sì riportata nei catenacci, ma senza che ci sia stato uno straccio di cronista che si sia lontanamente posto la domanda “come funzionerà questa mega-occupazione?”, vuol proprio dire che a ’sta storia non ci ha creduto nessuno. Ma come, occupare le fabbriche? Chi? Dove? Come? Voleva incutere paura, il capo della Fiom? Ora, non conoscendolo personalmente, non è semplice diagnosticare cosa sia scattato nella sua testa: sarà stato – nulla di male – un affiorare di ansie, di istinti ribellistici, di pulsioni giovanili. Ma no, forse è successo semplicemente che – a un certo momento – gli è salito in groppo alla gola il rigurgito di un passato più o meno eroico, nell’intreccio ideologico di Bienni rossi e Autunni caldi su su fino al Berlinguer con megafono in mano davanti alla porta 5 di Mirafiori – «se i sindacati decideranno l’occupazione noi metteremo al loro servizio l’esperienza e l’organizzazione del partito comunista…» – cioè «un’altra batosta», come diceva Nanni Moretti a proposito delle elezioni studentesche di non so più quando. Già, batoste. Batoste operaie. Come quella, mitica, la madre di tutte le batoste quando tra il primo e il 4 settembre del 1920 oltre 500mila operai metallurgici occuparono la gran parte delle fabbriche, in prevalenza metallurgiche, a Milano, Genova, Roma, Napoli, Palermo e in altre città. Fu l’acme del Biennio Rosso. Roba grossa, di valenza storica. Con tutto il rispetto, Matteo Renzi pare ancora confinato nella cronaca.

All’epoca lo scontro tra operai e padroni (ma sì, padroni) era durissimo, salari di fame, orari impossibili. Altro che demansionamenti e giuste cause. Si usciva dal primo dopoguerra coi vestiti laceri, e il morale ancora peggio. C’era il socialismo da costruire, mentre si aggiravano le prime squadracce. Si occupò l’occupabile: eppure finì male, molto male. Il sogno dell’autogoverno dei produttori si infranse, l’assalto al cielo dell’autogoverno dei proletari evaporò in un soffio strozzato, e si vide prestissimo che la cuoca non sapeva dirigere non dico lo stato ma nemmeno lo stabilimento. Ma come ogni disfatta, anche quella contribuì ad alimentare il mito dell’occupazione delle fabbriche, che, insieme a tanti altri più o meno nefasti, fu custodito nella memoria operaia per riemergere, ancora più ricoperto da uno spesso strato di ideologia, quasi mezzo secolo dopo, sul finire dei Sessanta: l’Autunno caldo, le commissioni interne, i grandi cortei, le assemblee. Un altro punto alto. Un altro acme. Ecco l’artiglio della classe operaia, diceva Lenin, peraltro nel ’69 artiglio vincente. Ma fu l’ultima volta.

Quando nel 1980 a Enrico Berlinguer, scappò di evocare l’ipotesi dell’occupazione della Fiat (Piero Fassino, che quel giorno era presente a Mirafiori, scrisse anni dopo che fu una specie di incidente non premeditato), di fatto suonò la campana a morte di quel vecchio movimento operaio. Dalla sconfitta alla Fiat uscì un’altra classe operaia. E per sempre. Il mito dell’occupazione ha resistito, ma fra gli studenti, a cui in ossequio all’età dell’innocenza tutto è permesso. Ma agli operai, vaglielo a dire, oggi, di occupare lo stabilimento, di fare i picchetti, di andare avanti tutto il giorno ingollando caffè corretto col Fernet, come usava un tempo a Mirafiori. Chi glielo spiega, all’operaio del 2014, quello che non ce la fa a pagare il mutuo, che è sradicato socialmente, culturalmente, esistenzialmente e magari anche in quanto a passaporto, che deve rinunciare a giorni e giorni di paga solo perché lo chiede il leader sindacale, foss’anche quello più popolare e intelligente?

E allora, caro Landini. Si può capire l’esigenza, come si dice in gergo, di far montare il clima per evitare che la san Giovanni del 25 ottobre stia al Circo Massimo di Cofferati come Moccia a Thomas Mann e però la storia è andata troppo avanti, altro che Autunno caldo: non siamo più a quei tempi là, come cantava Guccini, tutta la vicenda si è fatta ancora meno semplice, perché non c’è più “la semplicità” del socialismo (Brecht) da fare né il padrone (il padrone!) da buttar giù, è tutto molto più complicato, bisogna vedere, bisogna tenere, bisogna trattare, bisogna ideare, bisogna avanzare piano piano. Dunque, nessuno si occuperà mai delle tue occupazioni: al massimo ne domanderanno con un pochino di curiosità i nipoti agli operai che le fecero quarant’anni fa, quelli che quando se ne ricordano corrugano la fronte e subito si mettono a parlar d’altro.

E intanto si sprecano le vere occasioni

E intanto si sprecano le vere occasioni

Michele Tiraboschi – Panorama

Garanzia giovani: se Matteo Renzi l’avesse fatta funzionare ora sarebbe molto più autorevole su art. 18 e.Iobs act. Perché se la svolta epocale sta nel passaggio dalla vecchia idea del posto fisso alle moderne tutele sul mercato del lavoro, occorre saper rassicurare i lavoratori che perdere l’impiego non è più un dramma. Ciò almeno nella misura in cui politiche di ricollocazione e riqualificazione professionale esistono davvero, attraverso una robusta ed efficiente rete di servizi al lavoro su cui l’Italia mai ha potuto contare anche dopo la fine del monopolio statale del collocamento. Gli oppositori del Jobs act hanno sempre obiettato a Renzi che, per superare il regime di apartheid tra garantiti e precari, il nodo centrale è quello delle risorse che non ci sono (o comunque non in misura sufficiente) per l’avvio di politiche attive del lavoro. Eppure non è esattamente così. Lo dimostra il fallimento di Garanzia giovani che si sta consumando in questi mesi nell’indifferenza della politica e del sindacato, anche perché offuscato dalla contesa sull’art. 18.

Il piano, pensato dall’Europa per fronteggiare disoccupazione e inattività giovanile, porta in dote all’Italia ben 1,5 miliardi di euro. Però il nostro Paese non ha saputo far altro che organizzare centinaia di convegni, promuovere qualche triste spot pubblicitario che mai i ragazzi vedranno e riattivare la storica polemica tra Stato e regioni sulle colpe della inefficienza dei nostri Centri per l’impiego. La lista di intese, protocolli, piani di attuazione è infinita. Si firma a ogni livello: nazionale, regionale, locale. Senza però che alle parole seguano i fatti. E cosi una azienda che voglia dare una vera occasione a un giovane, ancora oggi non riesce a capire se i fondi a disposizione siano attivi o no. Anche nel migliore dei casi, poi, la complessità per accedere agli stanziamenti è tale che il più delle volte viene voglia di lasciar perdere. A farne le spese sono ovviamente i giovani: vittime sacrificali dell’ennesimo annuncio che alimenta timide speranze che, subito, si traducono in rabbia e delusione. Per loro Garanzia giovani è oggi unicamente un grigio portale internet, costruito male tecnicamente e per di più incomprensibile. Le offerte di lavoro o di tirocinio sono contenute in quasi 500 pagine da consultare online, costruite senza ordine e logica. Orientarsi è pressoché impossibile.

I problemi informatici sono comunque poca cosa rispetto alla qualità degli annunci contenuti. Nessuno sembra occuparsi di verificare quanto immesso nel portale governativo. E così basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito www.garanziagiovani.gov.it non fa altro che rimbalzare offerte già presenti su altri siti. Il programma è pensato per giovani disoccupati, da tempo inattivi o comunque alle prime armi. Ma quasi tutte le offerte del portale, generalmente veicolate da agenzie di lavoro interinale, pongono come requisito l’esperienza pregressa nella mansione o nel settore. Alcuni esempi tra i tanti? «Cerchiamo meccanico con esperienza per gestire autonomamente la manutenzione di escavatori cingolati, gommati, pale auto, furgoni e camion». E ancora: «Cerchiamo per azienda cliente operaio specializzato produzione di calzature. Si richiede esperienza pregressa e pluriennale». Per non parlare del «fotografo, dotato di propria macchina fotografica professionale», che viene ricercato per un lavoro giornaliero. Un piano europeo di 1,5 miliardi si traduce così in un grande spot nazionale maldestramente alimentato da un modesto motore di ricerca di quel poco che è già presente sulla rete, senza farsi carico dell’orientamento dei nostri ragazzi e senza mantenere l’impegno, importantissimo per un giovane, rispetto alla parola data: e cioè la promessa di non lasciarli soli.

La battaglia sull’art. 18 avrà un vincitore certo: quel Matteo Renzi abile nel mettere con le spalle al muro quanti hanno saputo dire solo «no» a ogni cambiamento. Il rischio, tuttavia, è che all’esito della battaglia Renzi avrà perso la parte migliore del suo esercito: i tanti ragazzi italiani sempre più scoraggiati e delusi dalle istituzioni e dalla politica. Ragazzi che hanno smesso di sognare il loro futuro anche perché privati dell’unica garanzia possibile: quella di poter dimostrare a qualcuno che meritano fiducia e anche rispetto.

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Ester Faia – Panorama

Gli Stati Uniti d’America hanno attraversato molte crisi dell’unione prima di raggiungere il punto attuale. Lo stesso succede e succederà per l’Europa fino al momento in cui l’unione sarà completa. Il referendum scozzese dimostra che nessuno Stato o regione appartenente a un’unione vuole tornare indietro: i costi sono troppo alti e le persone imparano a capirsi meglio stando insieme. Si può solo andare avanti. La situazione attuale con alcuni paesi, come l’Italia e la Francia, che non riescono a mantenere gli impegni di bilancio e altri come la Germania, che hanno un surplus eccessivo di partite correnti, è solo un’altra crisi di questo processo di integrazione.

Quando la crisi finanziaria ha mostrato la debolezze del sistema europeo, in cui il controllo dei rischi così come i meccanismi di risoluzione degli istituti di credito in crisi non erano omogenei tra i paesi dell’area, la soluzione adottata è stata la creazione dell’unione bancaria. Un passo avanti che ha indotto molte banche a ricapitalizzare e rendersi più sicure. Ma per capire quale dovrebbe essere il prossimo passo (che non è necessariamente l’unione fiscale, non attuabile in questo momento secondo il principio per il quale non ci può essere tassazione senza rappresentanza) bisogna analizzare le ragioni degli attuali squilibri di bilancio.

La ragione per cui alcuni paesi soffrono squilibri nei bilanci pubblici e altri nei bilanci delle partite correnti è paradossalmente la stessa. La mancanza di efficienza nella produzione di beni e servizi. Nel caso dell’Italia questo genera scarsa crescita facendo quindi scendere le entrate fiscali e salire il rapporto debito-pil. Nel caso della Germania l’inefficienza del settore dei servizi tiene bassa la domanda interna e spinge i tedeschi a investire all’estero: è il flusso di capitali verso l’estero che tiene alto il surplus delle partite correnti. Problemi diversi ma con la stessa diagnosi: la mancanza di efficienza. Per migliorare quest’ultima c’è bisogno di riattivare il processo avviato dal Trattato di Lisbona (noto anche come trattato di riforma) rimasto dormiente fino a oggi in quanto nessuna crisi aveva reso palese la necessità di questo ulteriore passo verso l’integrazione.

Le riforme necessarie per liberalizzare il mercato di beni e servizi o per migliorare e uniformare l’investimento in educazione sono difficili da attuare tramite il normale processo politico. I governi tendono a evitare parti delle riforme che possono scontentare le loro piattaforme elettorali. Ma se le riforme sono indicate dall’alto, così come e avvenuto per la moneta unica, che ha fermato i processi inflattivi di alcuni paesi, o l’unione bancaria, che ha già indotto molte banche a ricapitalizzare, allora la loro attuazione diventa più facile. Non solo, ma il coordinamento tra paesi nell’attuare le riforme aiuterebbe a ridurre la sensazione di disparità tra cittadini europei. Riforme imposte a un solo paese per volta provocano reazioni negative nei residenti. Allo stesso modo riforme attuate senza sincronia temporale possono garantire ad alcuni paesi posizioni dominanti in alcuni settori. Il coraggio richiesto ai politici per andare verso il processo di integrazione (riducendo quindi il loro potere) è più forte e più duraturo del coraggio necessario per attuare le riforme stesse. Queste ultime sono state spesso fatte ma anche modificate a breve distanza per esigenze di elettorato; al contrario dal processo di integrazione non si torna indietro.

Incentiviamo chi investe

Incentiviamo chi investe

Bruno Villois – La Nazione

No patrimonio, no credito bancario, parafrasando una nota pubblicità televisiva. Questa è la sintesi della diminuzione dell’erogazione dei prestiti bancari. Il sistema creditizio è stato obbligato ad accantonare miliardi di euro, per crediti inesigibili, imputabili per oltre i due terzi alle piccole imprese, le quali a causa della crisi e in non pochi casi al mancato pagamento da parte delle PA di forniture e servizi, stanno vivendo la loro peggior stagione.

L’inadeguata patrimonializzazione e l’insufficiente ricorso al capitale di rischio, da parte della stragrande maggioranza delle piccole aziende, è all’origine del costante aumento della contrazione dell’erogazione dei prestiti. Per rianimare i processi espansivi della nostra economia e fondamentale alimentare una dose massiccia di investimenti. Le norme fiscali hanno sempre favorito l’indebitamento bancario consentendo la detrazione degli interessi passivi dalle tasse, nessuna agevolazione, né incentivo, sono stati concessi a favore del conferimento di capitale di rischio, con il risultato di allontanare il versamento di capitale proprio degli imprenditori. La crisi ha fatto emergere la debolezza patrimoniale della maggioranza delle nostre imprese, il ridotto accesso al credito ne è stata la conseguenza naturale.

Per riattivare un flusso importante di prestiti è indispensabile che le imprese si patrimonializzino, così da poter garantire, in misura appropriata, quanto loro concesso dalle banche. Un’importante ondata di nuovi prestiti creerebbe le condizioni per rilanciare gli investimenti in modernizzazione, innovazione, ricerca e formazione, tutte componenti indispensabili per consentire alle imprese di poter competere a livello internazionale. Il governo insiste ad operare su linee strategiche che non tengono conto della reale situazione del sistema imprenditoriale nostrano, perché non pone in atto politiche a sostegno delle imprese. Le banche non possono caricarsi il fardello di ulteriori crediti inesigibili, servono politiche fiscali che favoriscano la patrimonializzazione delle imprese, premiando i soci che conferiscono capitale, come accade in molti altri Paesi, con la detrazione dai loro redditi di quanto versato. Per aiutare la ripresa bisogna rilanciare il sistema imprenditoriale, favorirne la crescita è una condizione essenziale.

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Nel giorno in cui l’Italia lascia alle spalle il ‘900 e solennizza al Senato la presa d’atto che l’impresa non è l’«arma dei padroni», ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità; per le vie di Milano la Fiom minacciava l’occupazione delle fabbriche. E a Palazzo Madama c’era chi occupava fisicamente lo scranno, dopo essere stato formalmente espulso, o chi gettava libri contro il banco della Presidenza creando un sovrappiù di tensione di cui certo non si sentiva il bisogno.

Una preoccupante aria di violenza (verbale in Aula, più concreta sulle strade), ancora una volta, ha segnato una giornata che resterà importante. E non basta a giustificarla il rimando subliminale alla “mitologia” di Enrico Berlinguer ai cancelli Fiat nell’80: la situazione non ha nulla di paragonabile. Semmai è proprio il continuo sguardo a un passato rigido socialmente, immutabile e schematico che ha portato a un mercato del lavoro “narrato” come il più garantista e tutelato del mondo ma che invece è nella realtà il più duale, il più distante dai giovani, il più ipocrita perché devastato dal sommerso, il più diseguale quanto a patto generazionale perché ha tolto la stabilità ad almeno tre generazioni di giovani per lasciare l’ipertrofia di un welfare e di garanzie disegnate negli anni 70 a misura di pochi e senza vera lungimiranza.

Il Jobs act, come era inevitabile, ha portato allo scoperto questo cambio di passo “ideologico”: la recessione ha indotto questa operazione verità perché la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori. Accadrà quando lo sguardo strategico si sposterà su un taglio drastico al cuneo fiscale su lavoro e imprese, unica vera terapia per creare occupazione attraverso una nuova stagione di investimenti. La detassazione è la strada indicata esplicitamente anche ieri al vertice europeo di Milano da Van Rompuy, Barroso, Hollande. Di questa rivoluzione fiscale c’è per ora solo una traccia nel Jobs act, va tutta tradotta e (molto) finanziata. Tolta l’enfasi dello scontro oratorio tra fazioni opposte, è importante guardare al dettaglio di ciò che è stato votato in Senato. E la fase attuativa di una delega a maglie tanto larghe potrebbe portare a risultati anche diametralmente opposti a quelli attesi, se non attentamente vigilata nella sua fase adattativa.

È importante l’attenzione alle politiche attive e la scelta di ancorare i nuovi ammortizzatori sociali universali a percorsi di formazione e di reinserimento secondo standard che funzionano bene all’estero. È una svolta vera quella di stabilire che il contratto a tempo indeterminato, nella sua nuova veste di contratto flessibile a tutele crescenti, sarà la forma principale di ingresso al lavoro e sarà anche una forma contrattuale particolarmente conveniente e incentivata. È importante che la delega intenda disboscare le modalità di “ingaggio” in nome della semplificazione, tema altrettanto rilevante anche nella riduzione di adempimenti tra imprese e amministrazioni di cui il testo del provvedimento si fa carico. È novità rilevante e di altissimo impatto sui conti pubblici, oltre che sul regolare svolgimento delle relazioni industriali, l’introduzione del salario minimo.

Di articolo 18 non si fa mai cenno. Astuzia politica forse, ma in ogni caso sarebbe escamotage di breve periodo. Non è «l’alfa e omega del provvedimento» – come ha detto il ministro Poletti – ma certo ha catalizzato l’asprezza del confronto politico e sindacale. La “politica del carciofo” con cui finora, riforma dopo riforma, si è cercato di ridurre le possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (compensata con un congruo risarcimento) conosce ora una nuovo capitolo: è stata tolta per il caso di licenziamento economico introdotto dalla riforma Fornero, ma viene ora riconfermato per i licenziamenti disciplinari (in un primo tempo erano esclusi, ma la mediazione dentro il Pd li ha alla fine ricompresi) oltre che, naturalmente, per i licenziamenti discriminatori.

Il Governo si è impegnato a “tipizzare” i casi per i quali diventi possibile il reintegro in caso di licenziamento disciplinare, ma è chiaro che, a fronte di ogni definizione legislativa, sorge naturale il contenzioso giurisdizionale per dirimere ambiguità o interpretazioni strumentali. Se si doveva ridurre l’alea delle sentenze non è affatto sicuro che l’obiettivo sia a portata di mano, senza contare che gran parte di chi è licenziato per motivo economico potrebbe avere interesse a farsi riconoscere dal giudice la fattispecie disciplinare.

Ieri Renzi ha girato la boa “europea” con il vertice di Milano che ha sancito in modo esplicito il plauso dei leader rispetto a una riforma di cui hanno colto la portata rifomista. Doveva essere anche un’operazione-immagine per il Governo Renzi e da questo punto di vista è stata un successo. Perché non resti solo il ricordo di una pacca sulla spalla, ora il Governo deve dare corso ai decreti delegati in modo coerente alle premesse e trasformarli in “moneta sonante” nella gestione della flessibilità nei conti pubblici anche per trovare parte delle risorse necessarie a finanziare questa stessa riforma. È la fase più delicata. E sarà il vero test, per il premier, per smentire l’accusa di eccessivo ricorso alla politica degli annunci senza fatti. Nel frattempo – triste revival – chi contesta le riforme prepara l’autunno caldo.

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Ora lo scambio tra stimoli e riforme

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

In Europa la disoccupazione sfiora il 12%, un livello doppio di quello americano, e l’economia rischia di fermarsi di nuovo. In un contesto tanto degradato nessun vertice europeo dedicato all’occupazione può essere liquidato come un puro esercizio rituale. Bisogna sforzarsi di guardare sotto il pesante velo dialettico, sotto la cortina di impegni poco concreti, e ragionare su che cosa davvero bisognava aspettarsi nel giorno in cui il governo italiano ha presentato la sua rilevante riforma del lavoro.

Per capirlo, aiuta una frase pronunciata da Mario Draghi ad agosto: «La strada per tornare all’alta occupazione è un insieme di politiche composto da politiche monetarie, fiscali e riforme strutturali a livello sia nazionale sia europeo». Per ritrovare la crescita serve cioè che gli auspicati interventi della Bce siano contestuali ad altre scelte politiche: il coordinamento delle politiche di bilancio, con i paesi in migliore condizione che offrono più stimolo e gli altri che rispettano le regole; il rilancio della domanda attraverso il finanziamento europeo degli investimenti; e riforme strutturali possibilmente coordinate. Dal vertice sull’occupazione, in una congiuntura economica tanto difficile, bisognava attendersi che progressi su tutti questi fronti fossero presi con un impegno comune. Bisognava sollecitare la Germania a utilizzare i propri margini di bilancio, esaminare la concretezza del piano Juncker sui 300 miliardi di investimenti e dell’impegno della Bei, verificare la solidità delle politiche per l’occupazione giovanile.

Le dichiarazioni dei capi di governo a conclusione del vertice non hanno rassicurato. La Germania si sa non intende offrire stimoli fiscali, inoltre, come altri, osserva con giustificato sospetto gli altisonanti 300 miliardi di investimenti promessi da Bruxelles. Il presidente Hollande ha negato addirittura di aver parlato di politiche di bilancio. Se al frontone del tempio mancano diverse colonne, spiccano ancor più quelle che lo tengono in piedi: Renzi si è presentato con una importante riforma del mercato del lavoro e ha assicurato il mantenimento degli impegni fiscali onorando la credibilità italiana. Se l’obiettivo del vertice era questo, allora è andata come doveva.

La credibilità italiana è importante ed è stato bello sentirla riconoscere dai partner. Ma è difficile non pensare che la realizzazione delle riforme strutturali da parte dell’Italia fosse l’occasione giusta per chiedere il conto anche ai paesi partner. Una riforma che rende “dinamici” i rapporti di lavoro è nell’interesse italiano qualunque sia lo stato dell’economia, ma è meglio che avvenga in un contesto di crescita e non di paura recessiva che afferra tutta l’Europa. Questo scambio politico tra stimoli e riforme è rimasto poco chiaro. Eppure è in questi termini che può essere interpretato lo stesso uso dei margini di bilancio da parte del governo italiano: quest’anno il deficit strutturale peggiora dello 0,9% con un effetto di espansione fiscale pari allo 0,3% del pil rispetto alla restrizione prevista dagli accordi con Bruxelles, a fronte però di riforme strutturali che prendono forma.

Forse anche per chi lo ha convocato il vertice di ieri non rappresentava l’ultimo appuntamento possibile per mettere a fuoco una strategia europea di ritorno alla crescita. Ma in tal caso non è stato opportuno dedicarlo a un tema tanto doloroso agli occhi dei cittadini come la lotta alla disoccupazione, né farne l’unico appuntamento del nostro semestre di presidenza. Per combattere la piaga della mancanza di lavoro sarà necessaria una strategia molto più ambiziosa, che ponga al centro i doveri reciproci di tutti i paesi nella costruzione di quello che Draghi chiamerebbe un “policy mix” per la crescita e che comporta avanzamenti molto coraggiosi sulla strada dell’integrazione europea: la formulazione di una politica fiscale coordinata dei paesi dell’euro area; il coordinamento delle riforme strutturali; un serio impegno sugli investimenti anziché il solito irritante sventolio di promesse di carta.

Fa parte delle difficoltà culturali europee non saper valutare la politica economica come un insieme, anziché come la collezione poco allineata degli impegni nazionali. Eppure è stato solo quando i paesi si sono saputi ritrovare attorno a progetti di integrazione, come l’unione bancaria o i fondi di solidarietà, che è stato possibile muovere tutte le politiche che possono salvare l’euro “a qualunque costo”.