Edicola – Opinioni

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Angelo Cremonese – Il Mattino

Era dal 1959 che in Italia non si assisteva al fenomeno della deflazione. Ad agosto, secondo le stime preliminari dell’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,2% rispetto al mese precedente e diminuito dello 0,1% nei confronti di agosto 2013. Questa dinamica tendenziale fatta registrare dall’indice generale è da imputare, secondo l’Istituto di Statistica, principalmente all’accentuarsi della flessione del costo dei carburanti. La riduzione dei prezzi si sta estendendo, però, anche al carrello della spesa: i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una flessione tendenziale (-0,2%), più contenuta rispetto a quella rilevata a luglio (-0,6%), ma che giustifica una certa apprensione. Se non si riuscirà presto a trasmettere stimoli concreti all’economia reale, se gli acquisti e la fiducia dei consumatori non daranno segni di ripresa, se non si spezzerà il legame tra banche e titoli del debito pubblico, se gli effetti degli strumenti non convenzionali di politica monetaria predisposti dalla Bce non riusciranno a raggiungere le imprese, si potrebbe profilare all’orizzonte lo spettro di una vera e propria spirale deflazione-recessione-disoccupazione. 

Cos’è in concreto la deflazione? Con il termine deflazione gli economisti definiscono il fenomeno, opposto all’inflazione, in cui si verifica, per un certo lasso di tempo, una riduzione dei prezzi. Non sempre la deflazione ha effetti negativi e, anzi, può avere anche effetti positivi, soprattutto per i consumatori che possono comprare beni e servizi a prezzi inferiori rispetto al passato. Questa ipotesi si inquadra, però in un contesto in cui i costi di produzione si riducono per effetto della diminuzione dei singoli fattori produttivi dovuta, ad esempio, all’avvento di nuove tecnologie ovvero ad un miglior funzionamento dei mercati divenuti più concorrenziali. Nello scenario attuale, invece, la causa della deflazione va ricercata, purtroppo, nella debolezza della domanda aggregata che ha provocato una riduzione della produzione e dell’occupazione. 

Quali sono le possibili conseguenze? Quando sul mercato si verifica una riduzione della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i prezzi scendono e gli operatori sono incentivati a posporre gli acquisti non indispensabili, con l’aspettativa di ulteriori cali  dei prezzi. Questo comportamento rischia di innescare una spirale negativa: le imprese, infatti, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori. Questa riduzione dei prezzi si ripercuote sui ricavi e sui profitti delle aziende, che reagiscono con il tentativo di abbatterei costi, attraverso la diminuzione degli ordini per l’acquisto di beni e servizi da altre imprese e la riduzione del costo del lavoro, con conseguenti tagli all’occupazione e ai salari. I lavoratori a loro volta si ritrovano in condizioni d’incertezza e tagliano gli acquisti, con la conseguenza di un ulteriore indebolimento della domanda, di una più marcata riduzione della produzione.

Cos’è la spirale deflazionistica e come si può spezzare? In sostanza la minore domanda delle famiglie, dovuta al momento di crisi, genera minore offerta delle imprese che reagiscono contraendo l’occupazione dei salari, per effetto di ciò si provoca una ulteriore riduzione di spesa da parte dei consumatori e così via. La via d’uscita da questo circolo vizioso passa dall’approntamento di opportune politiche economiche da parte dello Stato che riescano a riportare la fiducia nel futuro e i presupposti per lo sviluppo economico. La strada di una politica espansiva, basata sulla domanda generata dalla spesa pubblica e da molti considerata una strada obbligata e i vincoli di bilancio imposti dalla partecipazione all’euro, rischiano di rendere più tortuosa questa via. A questo proposito andrebbe considerata con più attenzione dalle autorità europee il ruolo della spesa pubblica, differenziando quella destinata a far crescere e progredire i vari paesi, rispetto a quella improduttiva e clientelare. Per questo è necessario dare segnali di autorevolezza e di serietà varando importanti riforme strutturali. 

Com’era l’economia italiana nel 1959? Nel 1959 in Italia era esploso il “boom”, si registrata una sorprendente crescita di efficienza e prosperità del potenziale produttivo. Dopo la fase della ricostruzione postbellica (1946-48) e il decennio di crescita del capitale (1948-58) gli italiani conoscevano il benessere e il consumismo, la forza delle esportazioni, lo sviluppo della piccola impresa, le emigrazioni dal sud al nord. Il tessuto industriale era ricco di nomi di potenti gruppi come: Fiat, Eni, Olivetti, Pirelli, Falck, Italsider, Snia, Montecatini, Edison, Borletti. Dal 1955 al 1958 il reddito nazionale era aumentato in media del 7,5 per cento all’anno, l’industria privata cresceva al ritmo del 6,8 per cento, i titoli di Stato rendevano attorno al 5,5 per cento. Il confronto con i giorni nostri è improponibile soprattutto in tema di consumi: nel quadriennio del miracolo, dal 1959 al 1963, le famiglie in possesso d’un frigorifero passarono dal 13 al 55 per cento, quelle provviste di apparecchi televisivi dal 12 al 49 per cento, nello stesso periodo si triplica il numero di automobili in circolazione: da 1.392.525 nel 1958 a 3.912. 597 nel 1963. La breve stagione della deflazione in quell’anno così lontano non preoccupò davvero nessuno.

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

La guerra dei prezzi e l’arma del debito

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Ieri il Consiglio dei ministri ha dovuto registrare l’entrata dell’Italia nella deflazione, in senso tecnico, ovvero la caduta dei prezzi che dura da più di un anno. Molti analisti si ostinano a fare il verso alla Bce chiamando questo processo inflazione negativa, ma ogni cittadino che sa quanto costa un litro di latte e deve programmare il rientro dalle vacanze comprende ciò che sta dietro questo calo dei prezzi: la contrazione della produzione, per il calo dei profitti, e quindi dell’occupazione. Ed ecco la conferma nei dati della disoccupazione, che a luglio è risalita, dopo il lieve calo di maggio, al 12,6%. Un dato fortemente negativo se lo mettiamo a confronto con quello del novembre 2013, quando venne toccato il massimo storico con il 12,7%. Inoltre, non solo la disoccupazione si mantiene alta ma cala soprattutto la componente maschile dell’occupazione, mentre quella giovanile oscilla attorno al 43% con una stabilità che desta preoccupazione. Va pure sottolineato che la disoccupazione colpisce soprattutto i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e che gli unici aumenti sono nel part-time e nei lavori stagionali. Deperisce quindi la qualità degli occupati, ossia vengono espulsi i lavoratori anziani e altamente qualificati, non trovano lavoro i giovani altamente scolarizzati, aumentano i divari territoriali con alcune aree del Nord che addirittura registrano un calo della disoccupazione mentre nel Sud essa sta dilagando. Pensare che nell’oceano della disoccupazione ci sono isole che potrebbero essere abitate da lavoratori volonterosi che non si trovano, come gli operai specializzati, i fresatori, i manutentori, gli operatori cad-cam, eccetera.

Come risolvere il problema? Dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale si continuano a suonare le trombe delle riforme strutturali. La gente ha qualche speranza. Siamo infatti abituati a pensare che le riforme migliorino la situazione. Il punto è che tutte le riforme ventilate sono a mio avviso il contrario del cambiamento positivo, perché poggiano sul parametro dell’abbassamento del debito pubblico e quindi della riduzione della spesa tout-court, dell’aumento delle tasse e infine delle privatizzazioni che dovrebbero togliere qualche ditale d’acqua dall’oceano del debito. Il contrario, insomma, di ciò che richiederebbe un progetto di crescita. Intravedo perciò il pericolo che il premier Renzi perda di vista il suo compito originario, e che risponda a questi dati arretrando politicamente e non invece spingendosi a «cambiare verso». Ma è proprio questo cambiare verso di cui l’Italia e l’Europa avrebbero bisogno per contrastare tanto la deflazione quanto la disoccupazione, così intimamente legate. E oggi ne avremo la prova durante il Consiglio europeo. 

E’ una presidenza italiana che inizia in un contesto non proprio desiderabile, vista la precarietà dei rapporti interni e di quelli con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la disastrosa divisione avvenuta nel recente summit della Nato. Da un lato gli Usa, la Polonia e i Paesi Baltici che vogliono dare all’alleanza un tono sempre più spiccatamente antirusso, sfregiando così irreversibilmente non solo l’Europa ma il cuore del mondo che è nell’Eurasia; dall’altro lato Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e  Germania che non vogliono approfondire il divario con la Russia ma che però non sanno che pesci pigliare e perciò si muovono in ordine sparso. Su tutto ciò aleggia il dramma del crollo delle spese per la Difesa, che coinvolge tutta l’Europa perché anche qui l’austerity ha provocato danni che potrebbero riflettersi sugli stessi europei. Vale infatti ricordare che i “mozzateste” del autoproclamato califfato non sono al Polo Nord, ma a 50 chilometri da Pantelleria, a 200 chilometri da Malta, lungo il confine della Turchia. Insomma, sono dietro l’angolo. E forse anche dietro l’angolo di casa. 

Abbandonare l’ordoliberalismo che mitizza l’austerity è perciò un dovere non solo verso la deflazione e la disoccupazione, ma anche per rispetto alle vite stesse degli occidentali, sempre più in pericolo. Renzi dovrebbe rileggersi i discorsi di Winston Churchill, quando sferzava un’aristocrazia inglese che voleva venire a patti con la Germania nazista. Da grande statista, giunse addirittura a fare abdicare un re, a travolgere il pacifismo dei laburisti, a suscitare l’energia creatrice di un’isola che era consapevole di dover continuare a governare il mondo, difendendo l’Occidente. Se avesse dato ascolto al Cancelliere dello Scacchiere, scacciato sdegnosamente, l’equilibrio dei conti non gli avrebbe consentito quelle alzate d’ingegno. A questo Churchill pensavo recentemente, quando uno studente mi ha chiesto se Renzi abbia o meno la caratura da statista. Gli ho risposto che statisti non si nasce, si diventa. Per Renzi è giunto il momento di diventarlo, perché solo a chi ha questa ambizione vengono concesse le mediazioni e i grandi compromessi. Si cerchino tutte le alleanze possibili, ma si ricordi che solo smontando dall’interno e lavorando per eliminare gli sprechi, le rendite parassitarie, il clientelismo, i mille corporativismi, si può rimettere in moto la macchina della crescita, in Italia e in Europa. E per farlo occorre cambiare musica, il che vuol dire che occorre cambiare i trombettieri. Così non si salverà soltanto l’Italia e l’Europa, ma si porranno anche le basi per salvare l’Occidente.

La prova del trapezio

La prova del trapezio

Leonardo Becchetti – Avvenire

I dati Istat sui consumi nel primo mese del bonus degli 80 euro indicano calma piatta, e questo proprio mentre l’Italia entra in deflazione. Il vero difetto del bonus è stato parlarne così tanto, quando lo stesso Governo Renzi attribuiva a tale misura un effetto marginale sui consumi dello 0,1%. Ora che l’opinione pubblica comincia a capire i guasti del “rigorismo”, il timore è che i nostri governanti (e chi li consiglia) non siano ancora del tutto liberi da quell’errore di prospettiva.

Nel novembre 2012, su queste colonne, abbiamo cominciato a scrivere del «dividendo monetario della globalizzazione». I Paesi ad alto reddito sottoposti a una concorrenza feroce di Paesi poveri ed emergenti potevano e dovevano difendersi con politiche monetarie molto espansive che controbilanciassero il calo della domanda aggregata. Agendo così, l’inflazione non sarebbe decollata come negli anni 80, perché il vento della concorrenza globale è un vento deflattivo che limita le possibilità di rialzo dei prezzi. Prova ne sia che l’Italia è entrata ufficialmente in deflazione, per la prima volta dopo il 1959, con i dati di ieri sui prezzi di agosto (vale la pena di ricordare che il governatore della Bce Mario Draghi, ancora nel febbraio scorso, gettava acqua sul fuoco escludendo il rischio di un calo dei prezzi). Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno deciso di sfruttare pragmaticamente il “dividendo monetario”. I risultati si sono visti, sono stati riconosciuti da tutti e l’inflazione non è ripartita in nessuno dei tre Paesi nonostante le massicce iniezioni di moneta effettuate dalle rispettive Banche centrali. La Ue è invece rimasta al palo, perché Draghi, aristotelicamente parlando, è stato abilissimo in potenza (quando ha sconfitto la speculazione contro l’euro avvertendo che la Bce sarebbe intervenuta con qualunque misura possibile), ma non in atto (per attuare una politica monetaria espansiva avrebbe dovuto varare due anni fa una strategia di acquisto dei titoli pubblici dei 18 Paesi dell’area euro).

Il premier italiano Matteo Renzi e Draghi si sono incontrati quest’estate per cercare di dare risposte alla crisi nella quale continuiamo a esser immersi, e ne è uscito quello che i mass media definiscono un «nuovo accordo». In cambio delle riforme strutturali italiane la Ue varerà le attese politiche fiscali (Juncker e i suoi famosi 300 miliardi di investimenti) e monetarie espansive. Il rischio insito nell’accordo è quello di un’interpretazione rigorista delle nostre riforme strutturali che le riduca al taglio dei salari e della spesa pubblica. Ovvero a due interventi che deprimeranno ulteriormente la domanda aggregata e che saranno drammaticamente controproducenti se non bilanciati effettivamente da europolitiche espansive. In questo passaggio, Renzi è simile al trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il suo partner che si dondola sull’altalena dal lato opposto tenda la mano per afferrarlo. Il partner Draghi lo farà con solerzia o si fermerà al primo ostacolo interno affidandosi alla rete di protezione sotto il trapezio che lui stesso ha steso? In quel caso, la brutta figura sarebbe solo del trapezista Renzi.

Si dice che dobbiamo continuare nella spending review per ridurre tasse su lavoro e imprese, e l’obiettivo è sacrosanto. Ma un Paese come il nostro che ha un’imposizione di quasi 20 punti percentuali superiore all’Irlanda quanta produzione effettiva e contabile pensa di poter recuperare con gli interventi di uno o pochi punti consentiti dai tagli di spesa e dai vincoli del pareggio in bilancio? Se in Italia le Marche abbassassero di 20 punti le imposte sulle imprese tutti correrebbero a fissare lì la propria sede legale. Il problema dell’armonizzazione fiscale nella Ue (e non solo) è il problema del momento e il governo deve sostenere lo sforzo che le istituzioni internazionali e le ong (Ocse e Transparency in primis) stanno facendo per porre fine a una corsa al ribasso che rende concreto lo spettro di una ricchezza senza nazioni e di nazioni senza ricchezza.

I sostenitori della versione rigorista e semplificata delle riforme strutturali fanno spesso l’esempio della Spagna, che ha registrato nell’ultimo trimestre una variazione positiva del Pil. Ma la Spagna è uno dei casi peggiori di sostenibilità del debito con un rapporto corrente deficit/Pil al 6.6% e un debito che è esploso dal 37% del 2007, all’inizio della crisi finanziaria, fino al 94% dell’ultimo dato ufficiale del 2013. E la sua crescita dell’ultimo trimestre è drogata da deflazione e crollo dell’import. Se noi italiani avessimo seguito il “miracolo spagnolo” nella dinamica del debito, saremmo oggi già in bancarotta. Per tutti questi motivi, ripetiamolo ancora una volta, il nostro futuro si gioca in Italia e (soprattutto) in Europa. Abbiamo bisogno di un governo che superi il bias rigorista (qualcuno ha ancora dubbi sul fatto che si tratti di un errore sistematico?) e che dimostri coi fatti che le riforme davvero strutturali sono la riduzione dei tempi della giustizia civile (bene, nonostante alcune tutt’altro che marginali questioni, l’insieme della riforma), una scuola e un’università moderne che ci consentano di ridurre il gap di anni di scolarizzazione con i maggiori Paesi europei, investimenti sulla banda larga che ci tolgano dalle ultime posizioni nella classifica Ue, riduzione dei costi della burocrazia pubblica e dei tempi di avviamento di attività d’impresa. E che faccia capire che per fare queste riforme (che neanche la Germania ha operato senza allentare temporaneamente i vincoli di spesa) la camicia di forza del Fiscal Compact e il pareggio di bilancio (che un referendum per il quale si stanno raccogliendo le firme in questi giorni vuole abolire) sono anticaglie del passato e residui della sbornia rigorista.

Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è una misura prudenziale che basta e avanza, ma senza la mano del trapezista Draghi sarà difficile uscire dalla crisi economica. L’economia è come una macchina da guidare artigianalmente con perizia sui terreni sempre nuovi ed accidentati della congiuntura mondiale. Per di più, nella Ue, alcuni comandi della macchina (tasso di cambio, politica monetaria) non li azionano i singoli Paesi. Pensare di farcela da soli, senza un serio impegno in Europa per far prevalere riforme sensate che correggano le asimmetrie tra gli Stati membri, sarebbe un grave errore.

A passettini sparsi

A passettini sparsi

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.

Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.

Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza – infine – è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere.

Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni. Già in passato altri governi avevano giocato con gli annunci del varo di grandi opere spostando e mescolando impegni già presi con pure intenzioni, vecchie risorse con nuovi piccoli stanziamenti. È uno di quei famosi casi in cui il diavolo ha da sempre la capacità di nascondersi nei dettagli.

Dove Matteo Renzi sembra essersi arreso, almeno in questa fase, è il disboscamento della giungla delle municipalizzate. Dopo tante parole spese nelle settimane e nei giorni precedenti, il decisionismo del presidente del Consiglio si è fermato davanti alle remore dei sindaci e così il socialismo municipale italiano è riuscito ancora una volta a evitare la rottamazione. Per una misura che alla fine è mancata all’appello ne va segnalata un’altra che invece è sicuramente positiva e riguarda la ratifica del piano straordinario per accrescere il numero delle aziende italiane che esportano con continuità, predisposto da tempo dal viceministro Carlo Calenda. In materia di competitività delle imprese, Renzi ha riproposto anche ieri nella conferenza stampa l’idea che ha maturato sull’evoluzione del costo del lavoro nella manifattura. Per difendere la scelta – peraltro giusta – di mettere 80 euro in più in busta paga, il premier, fresco dell’incontro con il leader della Fiom Maurizio Landini, ha sostenuto che l’Italia deve puntare sull’industria di qualità e sugli alti salari. In linea di principio niente da obiettare solo che se si vuole difendere l’occupazione sarà forse meglio adottare come Paese una strategia più articolata. Perché ci sono settori e aziende sicuramente in grado di creare una quota significativa di valore aggiunto e di ridistribuirlo ai propri dipendenti – come ha fatto di recente la Ferrero – ma ci sono anche settori labour intensive come elettrodomestici e auto nei quali la competizione internazionale si gioca anche sui costi della manodopera. Ignorarlo vuol dire rassegnarsi presto o tardi a veder emigrare questo tipo di lavorazioni oppure a sussidiarle con vagonate di cassa integrazione e provvedimenti ad hoc di decontribuzione. È bene saperlo.

Un passo alla volta

Un passo alla volta

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Turbo-Renzi si trasforma in Turbodiesel-Renzi e «passo dopo passo» diventa lo slogan molto poco renziano di questa seconda fase di vita del governo, quello che succede all’iniziale «una riforma al mese» di marzo, e in apparenza fa assomigliare il premier a un Bersani o un Letta qualunque. Ma non è detto che sia un male, anzi. Renzi scopre la fatica del governare e non poteva non essere così perché, nonostante l’energia del premier, il suo ottimismo, la sua capacità di entusiasmarsi e di comunicare, l’uomo della Provvidenza non esiste e i problemi di un’Italia avvitata su se stessa si risolvono con fatica e perseveranza. In politica, e per i politici che di sé vogliono lasciare un segno ai posteri, il consenso non è un fine, ma un mezzo, e per impiegarli, i mezzi, serve tempo. D’altra parte i dati economici sono disastrosi e le critiche iniziano ad arrivare anche da chi fino a questo momento al governo aveva lisciato il pel0, vedi il presidente di Confindustria, e ricordano a Renzi che il tempo delle promesse e degli annunci è finito. Ecco quindi il senso del «passo dopo passo» pronunciato ieri e la tempistica, ricordata esplicitamente, dei «mille giorni» nei quali attuare il programma dell’esecutivo. Segno che il presidente del consiglio si rende conto dello stringere del tempo, e che stavolta è qualcosa di concreto che occorre portare davanti all’opinione pubblica.

La riforma del Senato è stato un buon risultato. ancorché in prima lettura, ma con il nuovo Senato non si mangia, e il Paese sente invece bisogno di qualcosa di efficace per smuovere l’economia e far ripartire i consumi. E il primo dei passi da fare è stato ieri la riforma dell’arretrato nel processo civile, quello sì che incide davvero sulla vita di tanti cittadini e di tante imprese, e l’ormai famoso Sblocco Italia per buttare un po’ di miliardi nell’edilizia e nei lavori pubblici, da sempre il vero volano dello sviluppo. Certo, sono rimasti accantonati o rimandati a una delega temi importanti, primo fra tutti la scuola e le assunzioni dei precari (Renzi ha detto che sarà affrontato mercoledì prossimo, e vedremo come), il taglio o il riordino delle partecipate che tutti si aspettavano, interventi efficaci sull’ormai mitica spending review, per non parlare poi di argomenti non meno significativi come la riforma del processo penale. Ma se ormai la logica è, appunto, quella del «passo dopo passo», in qualche modo occorre guardare all’oggi pensando al prossimo step da superare. In tempi di magra lo spirito non va dove vuole, ma si posa dove può.

Cono d’ombra

Cono d’ombra

Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economicaogni giorno più devastante.

Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa.

Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitori non sanno che farsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare. Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.

Ottimismo espediente o necessità?

Ottimismo espediente o necessità?

Elisabetta Gualmini – La Stampa

Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche. Poi pero non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne. E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare – ancora una volta – un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune. C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se – soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita – non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.

Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre. Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega. Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di la di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. ll decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?

Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative?

Non basta sperare che passi

Non basta sperare che passi

Luca Ricolfi – La Stampa

Italia di nuovo in recessione, Italia in deflazione, fiducia dei consumatori di nuovo giù, disoccupazione ai massimi. La raffica di dati negativi che arrivano dall’Istat non è di quelle che tirano su il morale. E tuttavia, a mio parere, la notizia non c’è, o meglio c’è solo per il governo e per gli osservatori più ottimisti, che hanno passato mesi a intravedere una svolta di cui non si aveva alcun indizio concreto. Dapprima non si è voluto credere alle ripetute revisioni delle previsioni sul Pil pubblicate dagli organismi internazionali, senza accorgersi che non erano troppo pessimistiche ma semmai ancora troppo ottimistiche. Poi si è alimentata l’ingenua credenza che i 10 miliardi stanziati per il bonus avrebbero potuto rilanciare i consumi, salvo poi amaramente confessare che «ci aspettavamo di più». Infine non si è voluto dare alcuna importanza ai drammatici dati sul debito pubblico, cresciuto di 100 miliardi in appena 6 mesi, una cosa che non era mai successa dall’inizio della crisi.

Nonostante tutto ciò, e nonostante i dati Istat dei giorni scorsi non mancheranno di suscitare qualche reazione, penso che torneremo presto a infischiarcene e ad ascoltare la canzoncina del paese che «cambia verso», dello sblocca-Italia, della svolta epocale, dell’Europa che deve fare la sua parte, di papà Draghi che deve proteggerci da lassù (per chi non lo sapesse, il governatore della Banca Centrale Europea abita in una torre altissima, detta appunto Eurotower).

La ragione per cui penso che poche cose cambieranno è molto semplice, ed è che una cosa è la crisi, una cosa diversa è il declino; una cosa è una società povera, una cosa diversa è una società ricca. Una società povera che incappa in una crisi ha molte possibilità di rialzarsi perché non può non accorgersi della gravità di quel che le succede, e non può non sentire la spinta ad automigliorarsi. Una società ricca che è in declino da due decenni (ma secondo molti studiosi da più tempo ancora) può benissimo sottovalutare quel che le succede, e avere ormai esaurito la spinta all’automiglioramento. L’Italia, se si eccettua il segmento degli immigrati (che alla crisi hanno reagito e continuano a reagire molto bene: 91 mila posti di lavoro in più negli ultimi 12 mesi), è precisamente nella seconda condizione. Dal momento che il nostro declino è lento (perdiamo l’1-2% del nostro reddito ogni anno), e la maggior parte della popolazione ha ancora riserve di denaro e di patrimonio, è molto facile cullarsi nell’illusione che basti aspettare, che prima o poi il sole tornerà e la ripresa dell’economia rimetterà le cose a posto.

Di fronte a questo deprecabile ma comprensibile stato d’animo dell’opinione pubblica, molto mi colpisce che anche la classe dirigente del paese, che pure dovrebbe avere occhi per cogliere il dramma del nostro declino, si mantenga tutto sommato piuttosto calma e compassata, limitandosi alle solite invocazioni che sentiamo da trent’anni (ci vuole un colpo di reni, dobbiamo fare le riforme), senza alcuna azione incisiva o idea davvero nuova. E qui non penso solo alla insostenibile leggerezza del premier, che un mese fa snobbava i primi dati negativi sul Pil («che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone»), e provava a tranquillizzare gli italiani con ardite metafore metereologiche (la ripresa «è un po’ come l’estate, arriva un po’ in ritardo ma arriva»). Penso anche alla mancanza di idee coraggiose da parte del sindacato, ancora impigliato nei meandri mentali del secolo scorso. O alla leggerezza con cui la Confindustria ha avallato il bonus da 80 euro, una misura che non ha rilanciato i consumi e in compenso ha bruciato qualsiasi possibilità futura di ridurre Irap e Ires, ossia una delle pochissime cose che un governo può fare per sostenere subito, e non fra 1000 giorni, la competitività e l’occupazione (per inciso: ieri Squinzi ha picchiato duro contro il bonus, scordandosi completamente delle sue dichiarazioni di giugno, quando aveva spiegato di non averlo contrastato per ragioni politiche, perché «le elezioni europee erano più importanti»).

Ecco perché mi è difficile essere ottimista. Se l’opinione pubblica è incline al vittimismo ma si limita a sperare in tempi migliori, se la classe dirigente vive di annunci e piccole manovre, è del tutto illusorio pensare di «fermare il declino», per riprendere il nome di una sfortunata lista elettorale. Ma, attenzione, il declino potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. La notizia che l’Italia è entrata in deflazione sarà probabilmente seguita da sempre più insistenti richieste di misure di «sostegno della domanda», anche a costo di aumentare ulteriormente il nostro debito pubblico. E’ possibile che tali misure vengano attuate. E che lo siano con il consenso dell’Europa, sempre più spaventata dallo spettro della stagnazione. Quello che nessuno sa, tuttavia, è come i mercati finanziari reagirebbero a un eventuale ulteriore peggioramento del nostro rapporto debito-Pil. Può darsi che stiano zitti e buoni, intimiditi dalla volontà di super-Mario di fare «qualsiasi cosa occorra» per proteggere l’eurozona. Ma può anche darsi che i mercati rialzino la testa, e qualcuno ci rimetta le piume.

Anzi, in realtà qualcosa è già successo, anche se in modo invisibile, perché oscurato dalla discesa degli spread con la Germania. Dal 9 aprile di quest’anno i rendimenti dei titoli di stato decennali dei principali paesi dell’euro hanno cominciato a muoversi in modo difforme, ossia a divergere sempre più fra di loro: è lo stesso segnale che, nel 2011, precedette e annunciò la imminente crisi dell’euro. Ma quel che è più grave è che a questo segnale, che indica che i mercati stanno ricominciando a distinguere fra paesi affidabili e paesi inaffidabili, se ne accompagna un altro che riguarda specificamente l’Italia: a dispetto del miglioramento dello spread con la Germania, la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri 4 Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è in costante aumento dal 2011, e nell’ultima settimana ha toccato il massimo storico. Tradotto in parole povere: tutti i paesi stanno beneficiando di tassi di interesse via via più bassi, ma nel cammino di generale avvicinamento alla virtuosa Germania noi siamo più lenti degli altri, perché i mercati si accorgono che non stiamo facendo le riforme necessarie per aumentare la nostra competitività.

La conseguenza è molto semplice, ma terrificante: se ci fosse un’altra crisi finanziaria, noi saremmo più vulnerabili di Spagna e Irlanda. Ecco perché rallegrarsi degli spread bassi può essere molto fuorviante. E continuare a rimandare le scelte difficili, come finora hanno fatto un po’ tutti i governi, potrebbe rivelarsi catastrofico. Lo so: Cassandra dixit, direte voi. Ma a differenza di Cassandra non vedo nel futuro, e continuo a pensare che il futuro che verrà sarà esattamente quello che ci saremo meritati.

Privatizzazioni col trucco

Privatizzazioni col trucco

Davide Giacalone – Libero

Parte malissimo, se riparte da Eni ed Enel, il programma governativo delle privatizzazioni. Parte malissimo perché parte con un falso: quelle non sono privatizzazioni, ma vendite. In quelle due società la mano pubblica ancora ha il controllo, con quote che si aggirano sul 30%, il resto è già in portafogli privati che agiscono in Borsa. Quindi nessuna privatizzazione, nessuna apertura di mercato, nessuna sollecitazione alla competizione. Solo e soltanto una vendita. Ed è questa la ragione per cui ancora spero che non abbiano la faccia tosta di spacciare questa operazione per quello che non è, debuttando nel peggiore dei modi.

Vendere un ulteriore 5% di Eni ed Enel dovrebbe portare nelle casse dello Stato una cifra nell’intorno di 5 miliardi. La metà di quanto previsto, per l’anno in corso, da operazioni di questo tipo o da vere e proprie privatizzazioni. Ed è anche il valore dell’operazione a destare i peggiori sospetti: come verranno impiegati i proventi della vendita? E’ un punto fondamentale, perché va benissimo alienare patrimonio per ridurre e possibilmente abbattere il debito, mentre non va affatto bene usarli per compensare il deficit, che, detto in modo diverso, significa usarli per non dovere fare altri debiti. Sono due cose opposte: la prima può non essere esaltante, ma è virtuosa, perché si prende quel che è di tutti e lo si usa per alleggerire tutti dal debito pubblico; la seconda e viziosa, perché si vende quel che è di tutti al fine di finanziare la spesa che porta benefici solo ad alcuni.

Né ci saranno benefici di mercato, visto che si modificano le leggi sul controllo delle società quotate in modo da assicurarne il dominio a chi non ha più i soldi per poterlo acquistare o detenere. Attribuendo il voto plurimo a chi detiene da più tempo le azioni lo Stato legislatore assegna un valore superiore allo Stato azionista, sicché questo modo di procedere è l’opposto di quel che caratterizzerebbe delle vere privatizzazioni. Senza contare che nel caso di Eni ed Enel ci sono paletti statutari che escludono la perdita di controllo. Immorale della favola: attenzione, perché così ci si ritrova meno ricchi, sempre pazzescamente indebitati e con lo Stato che continua ad amministrare il feudo.

Queste non sono privatizzazioni, né basterebbe lo fossero per considerarle automaticamente buone. Si guardi a RaiWay, la società pubblica degli impianti Rai: vogliono quotarla, quindi privatizzarla, al solo scopo di avere i soldi per coprire i buchi che la Rai continua a fare, il tutto mantenendo ampiamente il controllo statale della società. Soldi presi al mercato per poi buttarli nella fornace clientelare, lasciando che nel mercato agiscano strutture da socialismo non reale, ma letale.

O si guardi al collettivismo municipale, che come tutti i collettivismi genera privilegi per una ristretta minoranza di buropolitici: anziché accorpare e vendere si pensa di quotare sempre di più, allargando lo zoo di animali misti, nei quali la parte municipale domina e quella di mercato soccombe a logiche che la avvelenano.

Privatizzazione, invece, sarebbe la vendita di Poste Italiane, perché totalmente in mano pubblica. Come lo sarebbe quella della Rai. La prima è in programma, alla seconda non pensano proprio, per continuare a sognare verdi pascoli. Solo che quando metti mano alla privatizzazione di Poste scopri che non puoi quotare società il cui bilancio ancora si compone di aiuti pubblici e sovvenzioni di servizi altrimenti in perdita. Perché privatizzare non significa consentire a privati di fare i soci di minoranza (o senza poteri) dello Stato, ma far scemare la presenza dello Stato nel mercato, rendendolo più libero e più aperto alla concorrenza, nonché coerente con le regole della competizione fra eguali. Significa cambiare le società, non solo la composizione della proprietà. Scopri, allora, l’evidente: non puoi portare nel mercato un dinosauro dello statalismo. Allora si deve cambiarlo, il che, però, fatalmente allontana la privatizzazione.

Poco male, in condizioni normali: ci vorrà più tempo, ma ne verrà fuori un risultato migliore. Non siamo, però, in condizioni normali. Abbiamo confermato che chiuderemo il bilancio senza venir meno agli impegni presi, ma i tagli alla spesa non ci sono. Semmai ci sono i suoi aumenti. Ecco, allora, che per far quadrare i conti si vende. Travestendo, per giunta, la vendita da privatizzazione. Spero che al ministero dell’Economia prevalga la serietà e il rispetto di sé, non prestandosi a raggiri che umiliano. Senza neanche risolvere i problemi.

Chi fa la guerra al ceto medio

Chi fa la guerra al ceto medio

Michele Ainis – L’Espresso

L’Italia unita non è mai stata troppo unita. Dalla questione cattolica a quella meridionale, sono molteplici le fratture che hanno diviso in due il popolo italiano. Fino al divorzio fra governanti e governati, con i primi accusati in blocco d’essere una casta, un ceto di rapaci e d’incapaci. Però, attenzione: sta divampando adesso un’altra lotta intestina, più articolata, più feroce; e quest’ultima coinvolge esclusivamente i cittadini. Nella società civile è esplosa la guerra civile.

Le prove? Basta tendere l’orecchio alle reazioni che montano da ogni categoria sociale quando c’è da pagare il conto della spesa, quando incombe una nuova tassa, una sforbiciata agli stipendi, un pensionamento anticipato. O altrimenti quando s’annuncia una riforma, per redistribuire poteri e favori. Giovani contro vecchi. Figli contro genitori. Disoccupati contro occupati. Inquilini contro proprietari (se denunci il nero hai uno sconto sull’affitto). Giudici contro avvocati (chi ci rimetterà con il nuovo processo?). Imprenditori contro burocrati. Burocrazia comunale contro burocrazia regionale. Liberi professionisti contro dipendenti. Dipendenti privati contro quelli pubblici. Impiegati contro dirigenti. Lavoratori contro pensionati. Pensionati contro tutti.

Non che in passato fossero sempre rose e fiori. L’italiano, si sa, ama l’Italia però detesta gli italiani. E poi siamo pur sempre un Paese di lobby e camarille, di corporazioni armate fino ai denti per difendere il proprio territorio. Nell’estate 2008, per dirne una, si consumò uno scontro fra notai e commercialisti. Oggetto del contendere: un codicillo inventato dal governo Berlusconi per consentire il passaggio di quote nelle srl attraverso una scrittura privata, siglata dalle parti con la firma digitale, e quindi senza timbro notarile. Sicché il Consiglio nazionale del notariato sferrò il contrattacco con una pubblicità che elencava le insidie della firma digitale, mentre l’Ordine dei commercialisti rispose con un comunicato per esaltare le virtù della semplificazione.

Ma adesso è un’altra storia. Non singoli episodi, bensì un Vietnam che fiammeggia in lungo e in largo, senza tregue, senza prigionieri. Non rivalità fra categorie professionali, piuttosto un corpo a corpo fra gruppi sociali. Ciascuno per se stesso, strappando dalle mani del vicino il salvagente mentre la nave affonda. Sicché quando il governo prospetta una cura dimagrante per chi percepisce 3.500 euro di pensione, tutti d`accordo (tranne i pensionati). Quando promette d`abolire i segretari comunali, s’alza un respiro di sollievo dal popolo dei non aboliti. Quando taglia gli stipendi dei dirigenti pubblici, nessuno (salvo i dirigenti) lo accuserà d`aver tagliato troppo, semmai troppo poco.

In questa mischia fratricida è arduo distinguere i vessilli delle diverse truppe in armi. Ma è possibile isolare il teatro di battaglia: il ceto medio. È la sua crisi – economica, e forse anche morale – che sta frantumando quel po’ che ci restava di coesione nazionale. È il grumo d`angosce che ti frulla in capo quando ti senti ricacciato giù nella scala sociale, è lo spettro d’un futuro ben peggiore del passato che scoperchia il vaso di Pandora degli egoismi collettivi. Ed è infine questa crisi che può risucchiare dentro un vortice la stessa democrazia italiana. Perché non c’è democrazia senza ceto medio, come ci ha spiegato Amartya Sen. O meglio c’è una democrazia apparente, tal quale in America latina. Con il popolo delle favelas che assedia un manipolo di ricchi, mentre un govemo muscolare tiene in ordine le piazze.

C’è modo d’arrestare la deriva? E che poteri ha il potere esecutivo? Sarebbe già tanto se la smettesse di seminar zizzania. L’ha fatto Berlusconi, accanendosi sulle pensioni pubbliche mentre lasciava indenni quelle private. Ma in generale si può tassare il reddito, non singole categorie contributive. Lo vieta l’universalità della tassazione, principio scolpito nella Déclaration del 1789. Se tasso i soli pensionati, è come se decidessi di tassare esclusivamente i salumieri. E dell’ltalia rimarrebbero salsicce.