Edicola – Opinioni

I consumi immobili di un paese in attesa

I consumi immobili di un paese in attesa

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Per i tanti che sono stati abituati a considerare l?inflazione come un mostro, cambiar passo e mettere nel mirino la deflazione equivale ad operare su di sé una torsione per imparare a guardare da un’altra parte. Eppure gli ultimi dati sull?andamento dei prezzi ci dicono che è un’operazione che dobbiamo fare e purtroppo non per una breve stagione. Immergendoci in questo nuovo scenario non possiamo però dimenticare quello che dice la Bce ovvero che nell’Eurozona non esiste un vero problema-deflazione perché i prezzi scendono per la gran parte a causa dell’effetto combinato di basso costo del petrolio e euro forte.

In Italia comunque non ci vuole un genio per cogliere un’altrettanta evidente correlazione tra bassa inflazione e consumi al lumicino. La stagione estiva non promette grandi cose, il periodo di ferie si va concentrando sempre di più attorno alle due settimane centrali di agosto e la spesa media dei vacanzieri tende pericolosamente verso il basso, con soggiorni che diventano più brevi. Si va diffondendo anche una forma di turismo pendolare con gli autobus che prendono al mattino i bagnanti in città, li scaricano sulle spiagge e li riprendono appena dopo il tramonto. Non dimentichiamo poi che luglio – il mese delle rilevazioni Istat rese note ieri – è stato condizionato dal cattivo tempo che ha ulteriormente amplificato tutti i fenomeni di cui sopra.

La verità è che la tendenza a rinviare gli acquisti dei beni durevoli sembra non aver cambiato verso nonostante gli 80 euro in busta paga. Lo straordinario successo del car sharing nelle grandi città indica anche un mutamento culturale di medio periodo che sarebbe un errore sottovalutare e che promette di andare al di là delle sole autovetture, la cultura della condivisione ci sorprenderà. Intanto gli armadi degli italiani restano pieni («Siamo legati agli oggetti, non buttiamo mai niente» sottolinea il sociologo dei consumi Italo Piccoli) e il ricambio avviene con il contagocce. Lo stesso vale quantomeno per gli elettrodomestici e per l’ arredo. Nella grande distribuzione, e non solo, intanto si intensificano le promozioni. In provincia ci sono persino negozi che si chiamano «Sottocosto», Carrefour ha lanciato una campagna-sconti a sensazione legata alle partite dell’Italia durante i Mondiali di calcio e Ikea ha promesso sconti per il 40% ma secondo il professor Piccoli i risultati non sempre sono all’altezza dell’impegno profuso. I volumi venduti per ripagare i tagli di prezzo devono crescere almeno del 20%. «Il consumatore ha imparato a fare zapping tra le varie promozioni e ha cominciato ad essere sospettoso. Se un giorno trova che un pacchetto di caffè costa 3 euro e poi lo vede in promozione a 1,90 perde completamente la percezione del valore di quel prodotto. Il risultato è che compra di meno e che non è più disposto ad acquistare a prezzo pieno». Un boomerang per le aziende produttrici.

Il rinvio degli acquisti è anche legato a considerazioni più di fondo. Secondo l’economista Fausto Panunzi bisogna sempre ricordarsi che sono cambiate profondamente le aspettative, «nelle famiglie si trepida per la disoccupazione dei figli o per il rischio che il padre a 50 anni venga tagliato e licenziato dall’azienda in cui lavora» e di conseguenza si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario. E non c’è promozione che tenga nei confronti di un mood così negativo. Che settembre avremo, allora, se l’orientamento dei consumatori rimane lo stesso? Gli 80 euro ci saranno ancora ma Piccoli crede che non sarebbe sensato da parte del governo lanciare campagne pro-consumi: «Anche gli spot che Berlusconi fece a suo tempo alla fine non portarono a nulla di significativo».

Il perimetro della sovranità

Il perimetro della sovranità

Antonio Polito – Corriere della Sera

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire. Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno. Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro. Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

Il convitato di pietra è la domanda interna

Il convitato di pietra è la domanda interna

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

A guardare alle grandezze finanziarie, l’economia italiana non sembra messa male: la Borsa, malgrado gli inciampi delle ultime settimane, segna un +17% rispetto a un anno fa, i tassi dei titoli pubblici (vedi l’asta BoT di ieri) sono ai minimi storici, i tassi pagati da famiglie e imprese sono anch’essi più bassi di un anno fa… Ma quando si passa alle grandezze reali la musica cambia.

L’inflazione ha cambiato pelle ed è diventata deflazione: dieci città vedono il segno “meno” nella dinamica dei prezzi. Anche se parte della discesa dei prezzi viene da una “deflazione buona” (legata alla tecnologia – vedasi il -9% sui 12 mesi dei prezzi delle comunicazioni), non vi è dubbio che la parte maggiore è una “deflazione cattiva”, figlia della debolezza della domanda. E il resto dell’economia reale? Il calo del Pil fotografa un Paese che prende una polmonite quando il resto del mondo prende un raffreddore.

Come risolvere questa discrasia fra economia finanziaria ed economia reale? Prima di rispondere menzioniamo un’altra discrasia, anzi due. Primo, non tutti i dati recenti sono negativi: alla fine dello scorso trimestre la produzione industriale è risalita, e la disoccupazione è scesa. Secondo, e più importante: i dati “fisici” e quelli della fiducia danno due letture completamente diverse. Sia gli indici Pmi che le inchieste sulla fiducia (delle famiglie e delle imprese), sia le attese di produzione che i “superindici” anticipatori dell’Ocse danno l’immagine di un’Italia che avanza. Anche se alcune di queste buone notizie devono essere prese con le pinze (per esempio, il livello degli indici Ocse indica, per ragioni tecniche, che l’Italia farà meglio rispetto a un “prima” desolante e che non che fa meglio degli altri Paesi), non vi è dubbio che le due letture sono diverse. Insomma, i dati non rimano. Cosa c’è, allora, «sotto ‘l velame de li versi strani»?

A questa domanda si può dare una risposta tecnica e una politica. La risposta tecnica riposa sul fatto che troppe statistiche sono ancora basate su un’economia di “grano e acciaio” e non colgono appieno il divenire di un apparato produttivo che – proprio sotto la sferza della recessione – cambia pelle: cambia la composizione dei prodotti, che non è catturata da indici a pesi fissi, cambiano i segmenti di valore aggiunto e le quantità fisiche sono inadeguate a raffigurare colori e contorni di un’economia che cerca nuove strade.
La risposta politica guarda a una società che ha riposto troppe e messianiche speranze nel nuovo Governo. Le riforme istituzionali, come il superamento del bicameralismo perfetto, sono importanti, anche per l’economia. Ma non hanno effetti immediati e consumano capitale politico.

Altre riforme, come quelle della pubblica amministrazione, sono – era inevitabile – annunci che attendono la fase decisiva dell’applicazione. E il Jobs Act potrebbe – e non è detto – migliorare il mercato del lavoro se detto mercato ricevesse il carburante della domanda. È la (mancanza di) domanda il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Quando il Governo Renzi decise di destinare risorse a far ripartire l’economia, poteva agire sulla domanda (sgravi alle famiglie) o sull’offerta (sgravi alle imprese). L’investimento risponde al profitto netto atteso, e avrebbe potuto rispondere a sgravi su imposte e/o costo del lavoro; ma risponde anche e forse soprattutto alle prospettive di domanda, e in questo caso gli sgravi alle famiglie potevano aiutare.

Nella fattispecie, i famosi 80 euro non sembrano aver avuto molto effetto, anche se è presto per giudicare (sono arrivati a fine trimestre) e in ogni caso il giudizio dovrebbe prendere a paragone l’inconoscibile, cioè quel che sarebbe accaduto senza sgravio. Sulle prospettive della domanda pesa anche il futuro. Una piena adesione alle regole cieche del Fiscal Compact impartirebbe un altro duro colpo all’economia italiana. La strategia del Governo Renzi sembrava essere quella di affidarsi alla ripresa per validare a posteriori una politica di bilancio arrischiata, fondata su stime ottimistiche dei risparmi di spesa. E la ripresa non poteva che arrivare dal traino esterno, dato che l’economia italiana non può sollevarsi da sola. Questa scommessa era – ed è – l’unica possibile nell’immediato, e non è ancora persa. L’economia americana tira e la Cina non si ferma. Il punto interrogativo sta nel Paese motore dell’economia europea: una Germania che rallenta restringe sbocchi al nostro export. C’è solo da sperare che il rallentamento favorisca atteggiamenti meno sordi rispetto alle giuste richieste di flessibilità nelle regole di bilancio.

Ma l’economia non è fatta di solo export. La parte maggiore è la domanda interna, anche se l’export può fare da volano. E ci sono modi di favorire la domanda interna: le riforme a costo zero, da tempo proposte. In cima alle quali c’è l’allentamento della più pesante palla al piede che da troppi anni azzoppa l’economia: l’oppressione burocratica, l’incertezza e le lungaggini delle autorizzazioni, le frustranti litanie di ritardi e di veti… Nodi intricati che attendono ancora chi sappia porli in cima alla lista delle cose da fare.

Il frutto più subdolo e velenoso della crisi

Il frutto più subdolo e velenoso della crisi

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Gli italiani stanno facendo un corso accelerato di economia. A loro spese, purtroppo. A proposito di spesa, ora tocca alla parola deflazione. Vuol dire che i prezzi continuano a diminuire mese dopo mese. Il contrario dell’inflazione, che prevede un aumento dei prezzi. Detto così sembra una bella cosa: non è il sogno di ogni consumatore fare la spesa a buon mercato? Purtroppo no, non va bene. I prezzi sono un po’ come la febbre. Va male se salgono troppo o troppo velocemente, va malissimo anche se scendono sotto un livello minimo.

L’Italia è in deflazione perché gli italiani hanno sempre meno soldi da spendere. E chi dovesse averli, cerca di spendere con attenzione perché teme di perdere il lavoro o di guadagnare meno, insomma perché guarda al futuro con preoccupazione. L’immediata conseguenza di questo comportamento è la diminuzione dei prezzi. I commercianti mantengono il prezzo finché possono: poi cominciano a ridurlo progressivamente pur di incassare e pagare tasse, fornitori, dipendenti e fare margine anche per se stessi. Un margine sempre più basso. E su quel margine pagano, naturalmente, meno tasse. E sulle merci vendute lo Stato incassa progressivamente meno Iva man mano che le merci si deprezzano al punto che diventa antieconomico produrle.

Ecco perché la diminuzione dei prezzi non è una buona notizia: si impoveriscono tutti, anche chi spende meno. Perché chi spende meno a sua volta vede il reddito minacciato dai mancati guadagni del suo datore di lavoro (che sia lo Stato o un privato). La deflazione è dunque un circuito negativo. Il frutto più velenoso e subdolo della crisi. Perché colpisce tutte le categorie sociali in modo trasversale. E perché ha anche una componente psicologica che è la più difficile da invertire.

Ma si può dare torto al famoso padre di famiglia che decide di ridurre i consumi dal momento che vede – ad esempio – la metà dei suoi compagni di lavoro perdere il posto? Quindi sgombriamo subito il campo dalla più facile delle tentazioni: la colpevolizzazione della vittima. Se gli italiani non spendono non è colpa loro. Hanno ragione. Vediamo crollare intorno a noi tutte le certezze sulle quali abbiamo basato le nostre vite. Il minimo che può accadere è decidere di gestire le risorse certe in attesa di tempi migliori.

Che cosa fare, allora? E, soprattutto, chi può fare qualcosa? Intanto il grande sconfitto della deflazione è la Banca centrale europea, che ha come compito statutario quello di mantenere un livello di inflazione tendente al 2% annuo (insomma la febbre a 36,5 ogni giorno).
Qui la faccenda si complica, ma non poi tanto come si può temere. La Bce è il soggetto regolatore della circolazione dei soldi nell’Unione europea. In pratica, stampa i nostri soldi. Visto che un pezzo di Europa si sta impoverendo sempre più, potrebbe stampare più soldi ma per farlo dovrebbe avere l’autorizzazione di tutti i Paesi dell’Unione. Così hanno fatto le banche centrali di Usa, Gran Bretagna, Giappone. Così ha fatto in passato anche la Banca d’Italia con la lira. Ma la Bce non ha l’autonomia per farlo e i Paesi forti dell’Unione si guardano bene dal cambiare le cose.

Il presidente (italiano) della Bce, Mario Draghi, ha provato a forzare la mano. Come? Prestando danaro praticamente a costo zero alle banche, nella speranza che le banche a loro volta lo prestino a imprese e famiglie a tassi ragionevoli e dunque facendo circolare più soldi nelle tasche degli italiani (degli irlandesi, degli spagnoli, dei greci, dei portoghesi, dei francesi). Non ha funzionato. Le banche inizialmente si sono tenute in cassa quasi tutto quel danaro, esattamente come molte famiglie conservano in casa i risparmi e non spendono. Perché tutti hanno paura, anche le banche. Con una variante, però: le banche alla fine in questa situazione ci stanno guadagnando, a differenza delle famiglie. Perché le banche hanno il mondo intero come mercato sul quale investire i propri soldi (e quelli prestati dalla Bce) e guadagnarci comunque.

Articolo 18, un brutto disco per l’estate

Articolo 18, un brutto disco per l’estate

Gaetano Pedullà – La Notizia

A voler usare un paradosso, adesso sì che abbiamo una possibilità di farcela. Se iniziano a vedere nero anche le agenzie di rating – le stesse che da Parmalat a Lehman Brothers non hanno mai azzeccato una previsione giusta – forse allora c’è davvero luce in fondo al tunnel dell’economia italiana. In realtà però l’orizzonte si fa più cupo. Dopo un lungo silenzio, nonostante l’inattesa discesa del Pil nell’ultimo trimestre a -0,2%, ieri è tornata a farsi sentire Moody’s, una delle grandi società che con i loro rating (cioè una valutazione della solidità patrimoniale) orientano i mercati.

Grazie ai loro giudizi, queste agenzie provocarono la grande crisi che nel 2011 fece impennare lo spread italiano, portando alla caduta del governo dell’epoca (Berlusconi) e presentando un conto miliardario sugli interessi del nostro debito pubblico. Per quella stagione Moody’e insieme a Fitch e Standard & Poor’s sono sotto processo. Ora la nuova sortita, a stretto giro dalla richiesta del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, di cedere sovranità all’Europa per fare quelle riforme che noi non facciamo.

Un brutto segno che lascia intravedere il riattivarsi di quegli stessi centri di potere che solo tre anni fa, orchestrando proprio in agosto la tempesta perfetta dei mercati mondiali, ci misero in braghe di tela. Nel frattempo Alfano suona il solito disco per l’estate contro l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e mezzo Pd è contrario. Il ministro Poletti deve essere andato in vacanza in un luogo lontano, come lontana è l’armonia nell’esecutivo. Moody’s & co. si leccano i baffi.

Il paradosso del nostro benessere

Luca Ricolfi – La Stampa

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale. Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

È così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare. Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori. Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

Si può riformare l’Italia con il concorso delle élite? Si possono con il loro consenso cambiare le regole che ci stanno strangolando? È questo l’interrogativo che oggi il Paese si trova di fronte, e in particolare che si trova di fronte il presidente del Consiglio, stando anche a quello che si legge nel colloquio di ieri con La Stampa.
Le élite italiane non amano Matteo Renzi. Lo hanno guardato con crescente simpatia nella sua fase per così dire «retorica», quando combatteva per conquistare la leadership e si è subito segnalato per la novità del suo linguaggio, delle cose che diceva (alcune delle quali fino a poco tempo prima a sinistra inconcepibili) e per come le diceva. Ma quando dalle parole si è cominciato a passare ai fatti le cose sono mutate. Allora hanno preso a fioccare via via prima i distinguo («È giovane e simpatico ma ha troppa fretta e troppa ambizione»), poi le obiezioni («Non ha una squadra all’altezza», «Vuol mettere troppa carne al fuoco», «Conta eccessivamente sul potere delle parole»; tra parentesi: tutte cose in cui c’è del vero), infine le critiche vere e proprie.

Tra le quali bisogna distinguere. Da un lato ci sono le critiche di natura più spiccatamente politico-ideologica, il più delle volte assurdamente eccessive come quella di autoritarismo. Queste critiche come è ovvio vengono quasi esclusivamente dalle élite di sinistra, egemoni in settori importanti come la cultura, la comunicazione, lo spettacolo – che incarnano peraltro una peculiarità italiana: la forte simpatia-importanza-presenza che per ragioni storiche e/o di puro opportunismo opinioni e abiti mentali di sinistra, a volte anche radicaleggiante, hanno in tutti i piani alti della società -. Di Renzi tali élite di sinistra mettono ferocemente sotto accusa soprattutto un aspetto: la sua intesa con la Destra berlusconiana. Intesa certo anomala, ma che a pensarci bene può essere vista come la risposta a quella altrettanto anomala, tipica dell’Italia, tra la suddetta élite intellettuale di sinistra e il potere socio-economico tradizionale. In realtà soprattutto l’élite intellettuale si sente specialmente colpita, io credo, da altri aspetti del «renzismo»: per esempio dalla palese indifferenza del presidente del Consiglio per i «venerati maestri», dal suo mancato omaggio alla loro persona, nonché dalla sua evidente avversione per le pratiche di cogestione-lottizzazione-influenza tipiche di tale élite specie in istituzioni pubbliche come la Rai, l’Università e tante altre.
Ma accanto a queste ci sono le critiche provenienti dalle élite dell’economia, delle professioni, dell’amministrazione pubblica. Qui la forte ambizione riformatrice di Renzi e il suo piglio valgono a mettere il dito su una evidente contraddizione che da anni è al fondo del modo di pensare di questi gruppi sociali, ma che aveva potuto finora rimanere comodamente nascosta.

In gran parte essi nutrono propositi di cambiamento anche radicali, ripetono più o meno da sempre che «così non si può andare avanti», sono a ogni momento pronti a mettere sotto accusa la politica per i suoi ritardi e incapacità. Ma della politica essi hanno vitalmente bisogno. Storicamente, infatti, lo status e i relativi privilegi grandi e piccoli di medici, avvocati, magistrati, alti dirigenti pubblici, professori universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte grazie per l’appunto alla protezione loro offerta dalla politica. Non parliamo dell’industria, della banca, del commercio. Qui sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze – tutto dipendente dalla politica – hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo.

Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi – i cui vari settori per giunta sono generalmente dominati da gruppi di comando di età avanzata – sebbene possa talvolta esprimere opinioni e desideri di cambiamento, ne tema al tempo stesso moltissimo ogni reale ed effettiva avvisaglia? Come meravigliarsi se esso cerchi di esorcizzarla celando il proprio malumore dietro le critiche mascherate da una delusione di maniera?

In realtà la sessantennale vicenda della democrazia italiana ci ha lasciato un’eredità avvelenata: vale a dire una compagine sociale per la quale è oggi difficile immaginare una qualunque riforma, o quasi, che non colpisca in modo significativo interessi forti e ramificati. Capaci di agitare lo spauracchio, in termini di consenso, che è stato sempre fatto valere contro ogni governo riformatore: il prezzo delle riforme lo si paga subito, mentre i vantaggi si vedono solo dopo.

Manca in questa rassegna un ultimo protagonista: la stampa. I giornali amano Renzi? Ovviamente a seconda dei giornali, risponderei io. Per il presidente del Consiglio e i suoi seguaci – specie quelli della 24esima ora – ho l’impressione che invece la risposta sarebbe: no, per nulla; o comunque mai abbastanza. Ma il potere, qualunque potere, pensa sempre così a proposito dei giornali e di chi ci scrive. Questi però, sebbene facciano parte anch’essi di un’élite privilegiata, cercano, per lo più, in realtà, di fare solo il loro mestiere, che per sua natura è – giustamente! – un mestiere daltonico: abituato cioè a vedere più il nero che il bianco, e a scorgere sempre anche nel bianco qualche traccia di grigio. Renzi perciò se ne convinca: «i gufi e i rosiconi» veri, quelli che contano, usano strumenti diversi dalla carta dei giornali.

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

Renato Brunetta – Il Giornale

Recessione, spread su, borse giù. Autunno nero. Berlusconi non farà come la sinistra, che di fronte all’attacco speculativo contro il nostro debito sovrano del 2011 giocò al tanto peggio tanto meglio, imputando al governo in carica quello che, invece, dipendeva dalla crisi mondiale e dalla risposta inadeguata dell’Europa e della Banca centrale europea.

Le parole di Mario Draghi di giovedì scorso sono sacrosante. Sulle indicazioni del presidente della Bce dovrebbe confrontarsi il Parlamento, per definire finalmente una strategia seria e condivisa che porti l’Italia fuori dalla crisi. Ma questo non sembra. Per capire il paradosso, facciamo quattro passi indietro.

Dopo il Nazareno, il programma di Renzi era costituito da 3 grandi linee guida: 1) la legge elettorale, da realizzarsi nel più breve tempo possibile, in ragione della sentenza della Corte costituzionale; 2) la riforma del Senato, che nei giorni del Nazareno sembrava la meno urgente e la meno concordata e definita; 3) le riforme strutturali, per cambiare l’assetto economico, sociale e produttivo italiano, su cui Renzi aveva costruito la sua vittoria alle primarie. Jobs Act in primis.

Il presidente del Consiglio parte con la legge elettorale. Ma il dibattito alla Camera – ove, nonostante dovesse esserci una maggioranza blindata, si susseguono votazioni da brivido – finisce con la dimostrazione amara che proseguire con l’approvazione definitiva della legge elettorale al Senato è impossibile. Ecco che, allora, Renzi cambia la sua agenda, d’accordo con Berlusconi; insabbia l’Italicum e si inventa la priorità del superamento del bicameralismo paritario. Ottima mossa di realismo e opportunismo, che, però, finisce con la polvere sotto il tappeto.

Nel frattempo vengono messe in cantiere e approvate alcune delle cosiddette e tanto pubblicizzate riforme strutturali. Quelle, per intendersi, del #cambiaverso #lasvoltabuona . Anche in questo caso, le difficoltà che Renzi incontra alla Camera sul decreto Poletti lo portano alla cautela, e a rifugiarsi su argomenti, contenuti, provvedimenti meno divisivi, nella speranza che la congiuntura migliori. Proprio per questo, dopo il decreto Poletti, finito malamente e per approvare il quale il governo ha dovuto fare ricorso a ben 3 voti di fiducia, il premier rallenta sulla riforma del lavoro, il tanto sbandierato Jobs act , possibile fonte di conflitti interni. E proprio per questo non accelera neanche sulla riforma fiscale che, invece, vista l’approvazione in via definitiva della delega da parte del Parlamento già a febbraio, avrebbe potuto realizzare in poche settimane.

Insomma, pragmaticamente e opportunisticamente Renzi si trova a rinviare sulle riforme divisive, mentre si concentra sull’unica scelta su cui nel suo partito tutti sono d’accordo: il «bonus 80 euro», che serviva a vincere le elezioni europee. Poco importa se quel provvedimento ha poi scassato i conti pubblici, in quanto finanziato in deficit.

Fino al 25 maggio, dunque, le cose vanno esattamente come voleva l’intelligenza opportunistica del presidente del Consiglio: tutto il dibattito politico-istituzionale concentrato, da un lato, al Senato, sul superamento del bicameralismo paritario, di fatto innocuo, nonostante le fronde, dal punto di vista della tenuta (anzi, grazie al patto del Nazareno, di rafforzamento) della maggioranza di governo; dall’altro, sulla mancia elettoralistica degli 80 euro, forte collante politico per il suo partito, in vista delle elezioni.

Grazie poi agli errori e agli eccessi del Movimento 5 stelle, le elezioni europee segnano il trionfo del presidente del Consiglio. Gli danno quella legittimazione democratica che non aveva avuto ai tempi di #enricostaisereno e lo convincono, e qui sta l’errore, a proseguire nella politica del rinvio delle scelte difficili e potenzialmente divisive. Anche sul fronte europeo, Renzi sceglie la strada più semplice, vale a dire quella della richiesta di una non ben precisata flessibilità e indulgenza nei confronti dei conti pubblici italiani.

Questo è stato il grande errore di Matteo Renzi: non aver cambiato strada dopo la legittimazione elettorale. Ma si capisce anche perché lo ha fatto: nonostante le elezioni europee, infatti, i numeri in Parlamento non sono cambiati. Quindi il presidente del Consiglio sa benissimo di non avere una maggioranza sull’Italicum. Come non ce l’ha sulla riforma del mercato del lavoro e sulla riforma fiscale. E, dunque, su questi temi, è costretto a rinviare. A questo punto, su questo errore si abbatte poi la doccia fredda della recessione. Dato congiunturale, in gran parte esogeno, vale a dire fuori dalle responsabilità del presidente del Consiglio, che, però, gli scopre il gioco: quello di non aver affrontato le scelte difficili per la tenuta della sua maggioranza e per il suo partito, ma fondamentali per il Paese. E qui la critica non è solo di Draghi, ma di tutti gli osservatori internazionali.

Proprio per questo, in autunno l’agenda parlamentare di Renzi sarà infernale. Ci saranno in contemporanea la riforma costituzionale in discussione alla Camera e la legge elettorale al Senato. E le due cose, visto che viaggiano di pari passo, non potranno non influenzarsi a vicenda, in un gioco perverso: la tensione di un ramo del Parlamento non potrà non riflettersi sull’altro. In più, tra settembre (nota di aggiornamento al Def) e ottobre (legge di Stabilità) si aprirà la sessione di bilancio, che vuol dire la verità sui conti pubblici: manovra, tagli, tasse. Con il ritorno inevitabile delle riforme divisive, ma non più rinviabili: Jobs act e decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, che non possono più aspettare.

Troveranno, il governo e il Partito democratico, la quadra sul mercato del lavoro, per esempio sulla moratoria per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Troveranno la quadra sull’Italicum, con modifiche in grado di accontentare simultaneamente Alfano e Berlusconi? Sulla manovra inevitabile da 25-30 miliardi nel 2014 e sulla legge di Stabilità per il 2015-2017? Tutto quello che nei primi 6 mesi di governo Renzi era stato opportunisticamente rinviato, in autunno non solo torna al centro del dibattito, ma diventa esplosivo.

Un’agenda infernale. Ha, il premier, dentro il Pd, una maggioranza che lo segua su tutti questi terreni minati? Mentre l’autunno rischia di essere un Vietnam per Renzi, per il centrodestra potrebbe diventare l’occasione per la rinascita, ritrovando l’unità, con la guida di Berlusconi e di Forza Italia. Lasciando per un momento da parte il patto del Nazareno, al contrario del centrosinistra, su lavoro, attacco al debito, taglio delle spese, taglio delle tasse, fisco, pubblica amministrazione, crescita, il centrodestra italiano è unito. Il programma, con gli opportuni aggiornamenti, è quello con cui nel 2013 la coalizione quasi vinse le elezioni. E in questo ha ragione il ministro Boschi: centrosinistra e centrodestra sono due mondi diversi, con programmi diversi. Ma la ricetta del centrodestra, guarda caso, coincide con quella di Mario Draghi e della Commissione europea. È la sinistra che è fuori rotta. Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i nostri migliori auguri.

Quegli alibi da non alimentare

Quegli alibi da non alimentare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

In questi ultimi giorni, il tema della lotta all’evasione fiscale pare aver ritrovato un sussulto di interesse. Da un lato, è in arrivo il piano del governo sulle strategie di contrasto a chi non paga le tasse (i cui contenuti sono stati ampiamente anticipati sul Sole 24 Ore del 31 luglio), che già nel 2015 dovrà garantire un maggior recupero di evasione per circa 2 miliardi, ma che in prospettiva pone le basi per un’azione di più ampio respiro finalizzata a migliorare l’efficacia dell’attività di repressione degli illeciti.
Dall’altro lato, ci sono le aspettative (in vero, talvolta forse eccessive) legate all’attuazione della delega fiscale che, come sappiamo, è destinata a produrre effetti positivi su un sistema fiscale da anni allo sbando, ma non una svolta così profonda da modificarne strutturalmente la natura. Sul versante del contrasto al sommerso la legge delega propone una ricetta – ancora tutta da scrivere e ampiamente ripresa e rilanciata proprio nel rapporto anti-evasione che il governo sta predisponendo – con molte soluzioni, che vanno dall’accelerazione delle semplificazioni sino all’introduzione di meccanismi premiali per i contribuenti onesti, tutte tese a favorire la tax compliance, ovvero la spinta verso l’adempimento spontaneo alle richieste del fisco. La delega, in realtà, propone anche altre misure quali ad esempio l’introduzione dell’obbligatorietà della fattura elettronica, con il duplice obiettivo di allargare il monitoraggio e il patrimonio informativo sulle attività dei contribuenti e al tempo stesso di alleggerire alcuni adempimenti burocratici che verrebbero soppressi proprio grazie al nuovo sistema di registrazione dei corrispettivi.

Il quadro si completa con l’agenzia delle Entrate che, dopo l’insediamento del direttore Rossella Orlandi al posto di Attilio Befera, la scorsa settimana ha definito la direttiva annuale sui controlli, nella quale spicca (giustamente) la volontà di intercettare i “veri casi di evasione”, ovvero quelli più gravi e che causano maggiori danni all’erario.
La sensazione, però, è che dietro la rinnovata attenzione per l’evasione, fenomeno da sempre preoccupante e di dimensioni enormi, che ostacola fortemente la libertà del mercato e che è causa di iniquità sociale, possa involontariamente nascondersi un messaggio ambiguo sulle modalità con cui lo Stato deve imporre e pretendere il rispetto della legalità tributaria. Il rischio è che si possa insinuare la convinzione dell’esistenza di un’evasione “cattiva” e una “meno cattiva”, una dannosa e una un po’ meno pericolosa, da contrastare con intensità diverse.
Allo stesso modo è un rischio, come qua e là si è sentito, trasmettere l’idea di un nuovo corso del contrasto all’illegalità tributaria fondato in qualche modo sulla contrapposizione tra grandi e piccoli evasori. L’evasione fiscale – comportamento del quale conosciamo tante cose anche se non proprio tutto – è un fenomeno estremamente complesso. È un fenomeno fatto di grandi frodi, tanto sulle imposte dirette quanto, e forse più, sull’Iva; fatto di società di comodo; di false fatture per importi rilevanti; di sedi societarie nascoste in paradisi fiscali; di esterovestizioni; di opachi intrecci internazionali che coinvolgono grandi imprese e multinazionali; di un uso spregiudicato del transfer pricing. Ma occorre essere realisti. L’evasione ha decine di volti e non a caso il rapporto sulle future strategie che il governo invierà al Parlamento individua ben 19 tipologie di evasore.
E in un Paese con milioni e milioni di partite Iva, con una struttura produttiva prevalentemente di piccoli e piccolissimi contribuenti, l’evasione fiscale è anche un fenomeno di massa. È un’evasione di “tanti che evadono poco”, ma con danni ugualmente enormi per la collettività e per le casse dello Stato.
Il fisco ha certamente bisogno di costruire nuove fondamenta su cui far crescere il rapporto con i contribuenti. La solidità, il rigore e la correttezza dell’azione di contrasto all’evasione devono procedere di pari passo con la creazione di un clima di fiducia reciproca, nel quale il cittadino-contribuente non percepisca più quel senso di prevaricazione, talvolta di vessazione e oppressione, con contestazioni tutte basate sull’interpretazione delle norme e sui cavilli di commi e circolari.
Molti studi, in passato, hanno analizzato i motivi che spingono i cittadini a evadere le tasse. Sono gli stessi motivi che gli evasori – grandi e piccoli – utilizzano poi come forma di auto-giustificazione. La casistica è molto ampia: le tasse sono troppo alte; evado per necessità; questa tassa è ingiusta; il sistema è complesso; lo Stato non offre servizi adeguati alle imposte che pretende; l’amministrazione è inefficiente. Si potrebbe continuare e di “scuse” per evadere il fisco se ne troverebbero molte altre. Ma questo è il punto: si faccia attenzione a non fornire altri alibi a chi facilmente riesce già a trovarsene da solo.