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“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

cop_buonaspesaSpending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa ignoravamo perfino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato però che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente. Per questo il nostro Centro studi ha deciso in questi giorni di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del nostro board scientifico) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.

Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta insomma di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte infatti della premessa implicita che gli italiani in generale e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pa che prendono le decisioni di spesa quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.

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La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

di Paolo Ermano

Con il rapporto Benessere Equo e Sostenibile, l’Istat da qualche anno sperimenta un diverso modo di sintetizzare la qualità della vita in Italia. Meno sintetico del PIL, ma per questo più ampio e ricco, il Rapporto BES propone, invece di un unico numero, dodici aree tematiche, dalla salute al paesaggio, dal benessere soggettivo al lavoro, ognuna analizzata tenendo conto di diversi indicatori, per fornire una lettura più articolata della nostra società. Dal punto di vista metodologico, dove possibile questi indicatori sono poi sintetizzati in un indice composito che permette anche di fare una classifica fra le regioni in ciascun settore analizzato.

Nel rapporto 2015, l’indice composito è proposto per le seguenti aree tematiche:

1) Salute
2) Istruzione e Formazione
3) Lavoro e conciliazione tempo libero
4) Benessere economico
5) Relazioni sociali
6) Sicurezza
7) Benessere soggettivo
8) Paesaggio e Patrimonio culturale
9) Ambiente

Sono esclusi, quindi: Politica e istituzioni, Ricerca e Innovazione, Qualità dei Servizi.

Indicativamente, questi nove indici sintetici si prestano a essere valutati alla luce della spesa pubblica sostenuta nelle singole regioni. Si potrebbe supporre che laddove la spesa risulti più alta si possano osservare valori più elevati nelle variabili considerate, cioè una qualità di vita migliore.

Da questo punto di vista i dati proposti dall’Agenzia per la Coesione Territoriale nei Conti Pubblici Territoriali (CPT) rappresentano un valido supporto d’indagine.

Purtroppo, data la composizione degli indici aggregati, non è sempre facile definire quali voci dei CPT siano da imputare al singolo indicatore. Per esempio, l’indicatore del Benessere Soggettivo è la sintesi di misure che hanno a che vedere con la soddisfazione per la propria vita, soddisfazione per il tempo libero e i giudizi sulle aspettative future: variabili sulle quali è impossibile determinare quale voce di spesa possa incidere e in quale misura.

Pertanto, partendo da queste nove aree tematiche è stato possibile compiere una valutazione appropriata fra l’indice composito e le voci di spesa dei CPT solo per cinque aree:

1) Salute
2) Lavoro
3) Sicurezza
4) Istruzione
5) Ambiente

Nonostante queste limitazioni, i risultati ottenuti propongono una riflessione importante sulla spesa pubblica in Italia. Emerge infatti come solo su alcuni ambiti (sicurezza e lavoro) una maggior spesa pubblica porti effettivamente a risultati migliori. In altri, come il settore istruzione, la spesa pro-capite non spiega i risultati ottenuti nelle singole regioni. Forse è il caso di riflettere in maniera meno ideologica sull’importanza di organizzare bene l’attività del settore pubblico.

Salute

Il tema della salute è alla base del benessere individuale e per questo è il primo dei temi affrontati dal rapporto Istat. Come già indicato, l’indice composito, che in tutti i temi discussi qui è costruito in modo da dare un voto più alto a chi ottiene i risultati migliori, tende a considerare sia dati direttamente influenzati dalla spesa sanitaria volta alla cura delle persone, sia dati relativi all’attività di prevenzione. Da questo punto di vista, la voce dei CPT relativa alle spese del comparto salute copre le stesse aree tematiche: cura e prevenzione. Confrontando la classifica ricavata dall’indice composito con la spesa regionalizzata non emerge chiaramente un legame fra spesa e risultati:

 

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Ad esempio, la Liguria spende circa €200 pro-capite in meno della Lombardia raggiungendo circa gli stessi risultati in termini generali. Si confrontino poi i risultati di Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia: con differenze intorno ai €400 pro-capite a testa, queste regioni ottengono sostanzialmente lo stesso risultato. Se la Toscana spendesse quanto l’Emilia Romagna dovrebbe indirizzare quasi €1,5 mld alla sanità in più, una cifra davvero ragguardevole, pari a quasi ¼ dell’attuale spesa. Senza parlare della Sardegna e Piemonte: a parità di spesa pro-capite, raggiungono posizioni molto diverse in classifica.

Da questi pochi indicatori, risulta chiaro che la qualità di un servizio sanitario non è solo una questione di risorse impiegate: in un periodo di restrizione della spesa pubblica, ragionare in maniera più strutturata su come migliorare il servizio diventa una priorità.

Lavoro

Anche il tema del Lavoro viene analizzato dal BES secondo quattordici variabili che vanno a comporre l’indice sintetico. Di queste solo una misura, la soddisfazione sul lavoro, riguarda una variabile sulla quale la spesa pubblica ha una scarso potere di influenza. Per il resto, la spesa pubblica sintetizzata nelle variabili lavoro dei CPT può essere ragionevolmente considerata la leva per migliorare gli indici del BES considerati.

BES2

 

La spesa pro-capite, è bene specificarlo, dipende da due voci dei CPT: quella relativa al lavoro e quella relativa alla previdenza. Per questo è influenzata dalla presenza di strumenti come la cassa integrazione che nel 2013 aveva un peso rilevante: le regioni con un tessuto produttivo più sviluppato sono quelle che più hanno beneficiato dello strumento di tutela dei lavoratori, e quindi sono le regioni con una spesa significativamente più elevata. Tuttavia le performance delle singole regioni dipendono, di nuovo, anche da altri fattori: per esempio, nelle prime dieci regioni troviamo solo regioni del Nord con livelli di spesa molto variegati e con risultati tutto sommato comparabili. Di nuovo, sembra emergere che più che la quantità della spesa, conti la qualità della spesa.

Colpisce il ritardo del centro-sud: Abruzzo e Lazio, con livelli di spesa pro-capite pari a quelli della Provincia di Bolzano e della Valle d’Aosta rispettivamente, ottengono performance di certo meno brillanti.

Sicurezza

Il tema della sicurezza in questi anni è diventato dirimenti in molti dibattiti politici, così come nella percezione della qualità di un territorio da parte dei cittadini. Anche per queste ragioni, l’indicatore Istat prende in considerazioni dati oggettivi, come il tasso di omicidi o di furti nelle abitazioni, e li incrocia con informazioni sulla percezione di sicurezza/insicurezza della popolazione. Entrambi i fattori sono influenzati nel medio lungo periodo dalla capacità d’intervento dello Stato, per quanto fattori culturali possano incidere in maniera sostanziale sul senso di sicurezza che una comunità può garantire ai suoi membri. Come mette in evidenza la tabella, il livello di spesa pro-capite nelle diverse regioni è, nuovamente, abbastanza variegato.

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Paradossalmente, ad esclusione del Lazio, il cui costo pro-capite è di gran lunga il più elevato per la presenza delle Istituzioni più importanti del nostro Paese a Roma, tendenzialmente le regioni che spendono proporzionalmente di più in sicurezza presentano un valore composito più elevato.

Interessante notare, inoltre, come le regioni più problematiche, quelle in cui i dati sulla sicurezza sono i più modesti, sono collocate tanto al Nord quanto al Sud del Paese, indicando ad opinione di chi scrive come quei fenomeni di criminalità storicamente collocati in aree geografiche ben definite del Paese oramai non rappresentino più l’unica minaccia reale e percepita alla sicurezza delle persone; non è solo una questione economica, quanto demografica: molte delle regioni che ottengono scarsi risultati nell’indice composito non sono necessariamente le più ricche del Paese, ma sono quasi esclusivamente quelle a più alta densità abitativa.

Istruzione

Ecco un settore in cui ci si dovrebbe aspettare che chi spende di più riesce a ottenere risultati migliori, in un ambito che finalmente inizia a essere unanimemente considerato strategico sia per formare cittadini consapevoli, sia per creare le condizioni di sviluppo nella nuova economia della conoscenza.

Purtroppo, o per fortuna, così non è: spesa e risultati sembrano poco correlati:

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Anche in questo caso l’indicatore analizza diversi aspetti: dal livello di alfabetizzazione, alla partecipazione all’alta formazione, alla capacità di dare opportunità a chi finisce il ciclo scolastico. Se impressiona la spesa pro-capite delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, zone i cui dati macroeconomici certificano sia una ripresa più vigorosa che nel resto del Paese, sia un’attenzione alla formazione di persone altamente qualificate più elevata che altrove, nelle altre regioni la spesa pro-capite è sostanzialmente simile, attestandosi poco al di sotto dei €1000 pro-capite. Eppure i risultati conseguiti sono diversi, con la Sicilia, ad esempio, che arriva ultima nella classifica con una spesa identica al Friuli Venezia-Giulia, posizionato in terza posizione, primo tra quelli con un livello di spesa in linea con la media italiana.

Quindi, di nuovo, il problema non è relativo alla risorse che mancano, quanto al modo in cui queste sono spese: e, parlando di educazione, una riflessione più seria rispetto alla semplice quantificazione delle dotazioni è d’obbligo per garantirsi gli investimenti in capitale umano necessaria rilanciare l’economia e la società italiana.

Ambiente

L’ultimo indicatore che abbiamo preso in considerazione è quello ambientale. Sempre più spesso ci troviamo a fare i conti con i danni derivati da un clima sempre più bizzoso e imprevedibile a causa del cambiamento climatico. Per rispondere a questo mutamento delle condizioni ambientali, investire sul territorio in termini preventivi diventa un elemento critico per garantire una gestione normale di eventuali eventi metereologici eccezionali.

In questi termini, l’indice composito riferito all’ambiente permette una prima valutazione della qualità di un territorio e degli investimenti fatti per garantire una sua stabilità ecologica.

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Di nuovo, riemerge la grande varietà negli impegni di spesa: abbiamo regioni dove si spendono meno di €100 a testa e regioni in cui la spesa pro-capite supera di molto questa soglia. Tanta varietà per un territorio così complesso non sembra essere una risposta ottimale al problema della qualità dei territori. E colpiscono i risultati non certo lusinghieri di regioni, come ad esempio la Toscana, dove il territorio rappresenta un asset chiave per lo sviluppo economico del turismo e per la preservazione di un patrimonio artistico-culturale unico al mondo. Lo stesso potrebbe dirsi per la Regione speciale Sicilia.

Forse il regionalismo in ambiti come questi, in cui si deve preservare lo spazio e quindi l’identità di una comunità, dovrebbe essere ripensato in un’ottica di maggior accountability dell’azione di governo. Oramai sembra un obbligo più che una delle possibili proposte.

Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,<br /> regione per regione

Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,
regione per regione

Nel 2015 in Italia, tra nuove assunzioni e trasformazioni di contratti a tempo, sono stati attivati 2milioni501mila rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Il 63,3% del totale di questi contratti è stato assistito dall’esonero contributivo triennale previsto dal governo. Un dato, quello rilevato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” sui numeri resi noti dall’Inps, che se analizzato su base regionale mette in luce alcune interessanti differenze tra i territori.

Scomponendo il dato a livello locale, infatti,  tra nuove assunzioni e variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni), Umbria (68,51%), Friuli Venezia Giulia (68,12%) e Sardegna (67,60%) sono le tre regioni italiane che hanno – in percentuale – beneficiato maggiormente delle decontribuzioni governative. Mentre Lombardia (54,88%), Toscana (56,12%) e Sicilia (58,31%) chiudono la classifica, con numeri leggermente inferiori alla media nazionale.

In valori assoluti è la Lombardia la regione in cui si è registrato un numero maggiore di esoneri contributivi (264.463), seguita dal Lazio (175.735), dalla Campania (144.747), dal Veneto (118.668) e dall’Emilia Romagna (114.795).

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Concentrando l’analisi dei dati sulle sole nuove assunzioni, invece, è la Sardegna (67,37%) che questa volta precede sia Umbria (65,46%) che Friuli Venezia Giulia (64,51%) e si attesta come il territorio che maggiormente ha fatto ricorso alla decontribuzione prevista dal Governo. Sopra la media nazionale del 57.7% ci sono anche Calabria (63,95%), Molise (63,46%) e Lazio (63,40%), la prima delle grandi regioni.  Seguono Basilicata (61,99%) Piemonte (61,24%) e Puglia (61,19%). Tre regioni hanno un incidenza degli incentivi sul totale dei nuovi contratti fissi inferiore alla media nazionale. Si tratta del Veneto (57,61%), della Toscana (50,87%) e della Lombardia (48,63%).  Dal punto di vista dei valori assoluti è ancora la Lombardia, con 177.235 contratti la regione in cui sono stati attivati il maggior numero di nuovi rapporti a tempo indeterminato assistiti dalla contribuzione pubblica. Seguono il Lazio con 139.463 contratti e la Campania con 127.831.

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Analizzando, infine, la percentuale di esoneri contributivi sul totale delle trasformazioni (da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato), in testa alla graduatoria regionale si piazza la Val d’Aosta (82,65%), davanti a Emilia Romagna (79,61%) e Piemonte (78,62%). Con 87.228 trasformazioni assistite (il 74,29% del totale), stavolta i numeri della Lombardia sono leggermente superiori alla media nazionale (73,84%). Mentre, pur restando al di sopra del 60%, le regioni con la percentuale più bassa di trasformazioni assistite dalla decontribuzione sono Basilicata (60,80%), Calabria (60,81%), Sicilia (61,83%) e Campania (62,87%).

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Il venir meno dei generosi incentivi governativi (ridotti per quest’anno da 8.060 euro ad assunzione per tre anni ad un massimo di 3.250 euro su base annua per due anni) si è riflesso immediatamente nel calo del 39,5% dei contratti a tempo indeterminato attivati a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo calo assume contorni diversi a seconda delle regioni esaminate. In Friuli Venezia Giulia e Molise, ad esempio, la contrazione è contenuta e si ferma, rispettivamente, al 23,2% e al 20,3% con un calo di contratti fissi di 580 e 121 unità. Marcato, invece, il rallentamento in Basilicata dove i nuovi contratti a tempo indeterminato più che si dimezzano (-57,7%) passando dai 1.436 di gennaio 2015 ai 608 di gennaio 2016. Dinamica simile a quella della Valle d’Aosta (-56,6%), Abruzzo (-52,6%) e Umbria (-52,2%). Tra le regioni più grandi è l’Emilia Romagna quella che registrare la contrazione più netta, -43,3% di contratti a tempo indeterminato rispetto a gennaio 2015 (-6.216 attivazioni). Segue il Lazio (-43,1%) e la Toscana (-40,8%). Rallentano, ma sotto la media nazionale, la Lombardia (-39%, pari a 15.852 attivazioni in meno), il Veneto (-36,5%, pari a 5.019 attivazioni in meno) e la Campania (-35,7%, pari a 5.789 attivazioni in meno).

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Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato  sono assistiti dalla decontribuzione

Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato sono assistiti dalla decontribuzione

Il 61% del totale dei contratti di lavoro a tempo indeterminato attivati nel 2015 è assistito dall’esonero contributivo: su 2milioni363mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1milione442mila hanno potuto beneficiare degli incentivi straordinari previsti dal governo. Lo rileva un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” effettuata su dati Inps.

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Nuove attivazioni e trasformazioni. Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5milioni408mila nuovi rapporti di lavoro, un dato dell’11,1% superiore rispetto a quello dell’anno precedente. Di questi contratti il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3milioni353mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184mila) e il restante 34,6% (1milione870mila) da assunzioni a tempo indeterminato. Di queste nuove attivazioni non a termine il 57,7% è assistito dalla decontribuzione pubblica. In forza anche di questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%, mentre è calato drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%).

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Per capire l’impatto del beneficio contributivo sul numero delle nuove attivazioni a tempo indeterminato è utile analizzare il loro andamento mensile. A dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181mila900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81mila558 medi mensili del resto dell’anno.

Sul fronte delle variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni) si registrano per il 2015 578mila trasformazioni in contratti a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita su base annua del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato; in questo specifico segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%.

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Il 73.8% di queste trasformazioni ha potuto beneficiare degli sgravi contributivi previsti dal governo che hanno ovviamente influito moltissimo sul ricorso a questa forma di stabilizzazione. Basti pensare che a dicembre (ultimo mese utile per accedere all’incentivo) sono stati trasformati il 25% del totale dei contratti stabilizzati. L’ultimo mese dell’anno ha fatto registrare, infatti, 90mila575 trasformazioni: un dato triplo rispetto ai mesi di settembre, ottobre, novembre e addirittura di sei volte superiore rispetto a gennaio e febbraio.

 

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Tredici errori su quattordici: con 11 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2015. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Il caso più eclatante è quello che riguarda il 2009, quando a fronte di una previsione di crescita dello 0,9% effettuata un anno prima, il Pil è in realtà calato di 5 punti percentuali e mezzo. Ma non è stata soltanto la crisi a mettere fuori strada gli estensori dei documenti di programmazione economica: nel 2003, invece di crescere del 2,9% il Pil è salito soltanto dello 0,2%; nel 2012, invece di crescere dell’1,3% è addirittura calato del 2,8%. E scarti sostanziali tra previsioni e realtà – con le previsioni sballate sempre per eccesso – sono arrivati nel 2002 (-1,9%), 2008 (-2,9%), 2011 (-1,4%), 2013 (-2,2%) e 2014 (-1,7%).

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Questa distonia tra le ipotesi del governo e i numeri dell’economia reale non può essere spiegata soltanto con una volatilità intrinseca che rende le previsioni molto complicate. Se questa fosse l’unica spiegazione, infatti, alle frequenti sopravvalutazioni dei dati si sarebbe dovuta accompagnare anche una sottovalutazione meno rara di quanto in realtà è accaduto. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che putroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 14).

Fatto 100 il Pil del 2001, se le previsioni del governo si fossero avverate, il Prodotto interno lordo del nostro Paese sarebbe dovuto crescere del 23,75% rispetto a quindici anni fa. In realtà, invece, il Pil italiano è fermo al 97,84% di quello del 2001.

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«Questi scostamenti dalle previsioni sono preoccupanti – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – perché è proprio su ipotesi di questo tipo, spesso per di più pluriennali, che si basano le simulazioni di sostenibilità del nostro debito pubblico e del nostro sistema pensionistico. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

 

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (quelli del 2014), il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia (49,3%) e Croazia (54,6%) hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. Mentre sono più avanti di noi Spagna (56,6%), Francia (64,6%), Regno Unito (72,2%) e Germania (75,1%).

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Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, però, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

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Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%). In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. In Spagna il tasso di occupazione degli spagnoli è superiore a quello dei cittadini extra-Ue dell’8,5%; nel Regno Unito la differenza è del 12,3%; in Francia e Germania si arriva, rispettivamente, al 19,6% e al 20,4%. In Italia, invece, il tasso d’occupazione dei lavoratori di cittadinanza italiana è inferiore dell’1,3% rispetto a quello dei lavoratori extracomunitari. Una differenza che sale addirittura al 7,2% quando si prendono in esame i lavoratori stranieri provenienti da un altro Paese europeo.

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«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Lunedì scorso Mario Draghi ha sostenuto che la ripresa nell’Eurozona è «moderata» e sostenuta principalmente» dalle politiche di stimolo della Bce. «È sempre più chiaro – ha concluso – che i governi dovrebbero sostenere questa ripresa con investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il suo monito arriva in un contesto storico nel quale, nell’Unione Europea, il calo degli investimenti pubblici è di 47,7 miliardi rispetto ai massimi registrati nel 2009 (454,9 miliardi di euro).  Nell’area euro, invece, il calo è ancora più marcato: dai 337,7 miliardi del 209 si è passati ai 275,3 miliardi del 2014. In termini reali siamo quindi tornati ai valori del 2005, con investimenti pubblici pari 2,9% del Pil nell’Unione Europea a 28 (rispetto al 3,7% del 2009).

L’Italia ha tagliato del 34,1% la spesa pubblica per investimenti, passando dai 54,1 miliardi del 2009 ai 35,6 miliardi del 2014, con una riduzione di circa 18,5 miliardi di euro. Tradotto su basi relative, l’Italia spende ora solo il 2,2% del Pil per investimenti pubblici, con un calo dell’1,2% rispetto al 2009. Si tratta del valore più basso fatto registrare dal 2004 ad oggi. Dal 2009 al 2014 la spesa pubblica per investimenti è calata ogni anno.

Si confermano le differenze tra i paesi cosiddetti “virtuosi” e quelli periferici dell’Eurozona. Tra i paesi dell’aerea euro che hanno ridotto in misura più marcata la spesa pubblica per investimenti, insieme all’Italia, compaiono infatti la Spagna (-3,0% in rapporto al Pil), Cipro (-2,2%) e Portogallo (-2,1%), con la Grecia appaiata all’Italia (-1,2%) ma in ripresa rispetto al 2013 (-2,0%). Tendenza positiva, invece, per paesi dell’area Euro come Finlandia (+0,2% sul Pil) e Malta (+1,4%), mentre il calo è più limitato in Germania (-0,2%), Austria (-0,4%) e Francia (-0,6%). Al di fuori dell’Eurozona, si va dal +2,1% dell’Ungheria al -1,8% della Croazia, passando per il +0,8% della Danimarca, il -0,7% del Regno Unito e la sostanziale invarianza della Svezia (0,0%).

«Le parole del governatore Draghi mettono il dito nella piaga della mancata crescita economica del nostro Paese» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Da noi si continua insomma a voler seguire una ricetta tanto logora quanto perdente: ostacolare lo sviluppo delle imprese, tagliare gli investimenti pubblici, rinviare sine die ogni azione politica di spending review (nonostante da tempo siano stati ben individuati i centri di spesa da eliminare) e consentire un aumento costante incontrollato della spesa pubblica corrente».

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Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

L’Italia investe appena l’1,03% del proprio Prodotto interno lordo nella spesa pubblica a favore di “famiglie e bambini”. Meno di Portogallo, Malta e Cipro; meno della metà di Ungheria, Austria e Bulgaria; meno di un terzo di Norvegia e Finlandia; un quinto rispetto alla Danimarca. È questo il risultato di una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Eurostat, che ha preso in esame la categoria “family and children” nella classificazione della spesa pubblica Cofog (Classification Of Function Of Government), lo standard internazionale adottato dal Sec95 (sistema europeo dei conti nazionali e regionali).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a:  protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,03% – in 24° posizione (sulle trentuno nazioni prese in considerazione da Eurostat), nettamente al di sotto della media dell’Unione europea (1,71%) e dell’area euro (1,64%). Spendono meno di noi per famiglie e bambini la Svizzera (0,55%), la Spagna (0,61%) e la Grecia (0,67%). Spendono di più, invece, le altre grandi economie del continente: Germania (1,55%), Regno Unito (1,65%) e Francia (2,50%). Molto distanti, infine, i paesi scandinavi: Svezia (2,54%), Norvegia (3,32%), Finlandia (3,34%) e Danimarca (5,00%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 24° al 17° posto (sempre su 31). A fronte di una spesa media di circa 458 euro all’anno nell’Unione europea (che sale a 481 euro nell’area euro), in Italia ci fermiamo a circa 277 euro. Un dato molto distante da quello delle altre economie avanzate del continente – Francia (807 euro), Germania (533 euro), Regno Unito (528 euro) – con la sola eccezione della Spagna (135 euro). Sempre lontani anni-luce i paesi scandinavi: Svezia (1.157 euro all’anno), Finlandia (1.251 euro), Danimarca (2.278 euro) e Norvegia (2.582 euro).

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Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Negli anni tra il 2011 e il 2014, la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subito variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su dati Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici).

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardo di euro (+35%), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni di euro (-17%).

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Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

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Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi di euro – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. La spesa verso le imprese speciali (le cosiddette “municipalizzate”), infine, composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni di euro all’anno.

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Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi di euro ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi di euro del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni.

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A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

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Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Numero degli occupati in aumento, ma a un ritmo meno sostenuto di quello di un anno fa. È questo il risultato più rilevante dell’analisi compiuta dal Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Istat, che ha preso in esame il numero degli occupati registrato dall’Istituto nazionale di statistica per il mese di dicembre dal 2006 al 2015, confrontato con lo stesso dato dell’anno precedente.

A dicembre 2015 è stata rilevata una variazione di +109mila occupati rispetto allo stesso periodo del 2014: un dato che non può non risentire del combinato disposto di Jobs Act e decontribuzione. Si tratta però di un aumento sensibilmente inferiore a quello che si registra confrontando il dato di dicembre 2014 con quello di dicembre 2013: l’anno scorso, infatti, anche in assenza delle costose misure sulla decontribuzione, gli occupati erano cresciuti di 168mila unità.

Si tratta, comunque, di variazioni positive meno marcate a quelle registrate negli anni pre-crisi. Nel 2006 e nel 2007, infatti, l’aumento degli occupati era stato rispettivamente di 249mila e 268mila unità. Poi, dopo l’andamento negativo dal 2008 al 2013 (con la sola, parziale, eccezione del 2010), l’occupazione è tornata a crescere nel 2014. Ma lo scorso anno, appunto, il ritmo di questa crescita è tornato a calare sensibilmente.