Studi

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

di Michele Liati*

Le indagini campionarie sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), condotte dalla Banca d’Italia dagli anni ‘60, sono uno strumento molto utile per comprendere i “vincoli” che hanno operato sull’economia italiana negli ultimi decenni per l’azione statale. Nel grafico qui sotto sono mostrati i redditi medi per classi d’età, dal 1977 al 2014, (ottenuti dalle IBF) opportunamente rivalutati ai valori monetari 2014 (tramite indici Istat).

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Facciamo subito notare che i dati delle IBF sono molto preziosi perché, a differenza di altri sui redditi famigliari, sono calcolati al netto dei prelievi fiscali e contributivi, per cui possono evidenziare gli effetti delle ridistribuzioni statali.

Innanzitutto si può evidenziare che i redditi sopra i 64 anni di età sono cresciuti continuamente, così come i redditi tra i 55-64 anni fino al 2011; gli altri redditi hanno seguito le diverse fasi dell’economia. Si possono cogliere facilmente quattro fasi (evidenziate dai riquadri verdi e arancioni), e differenziare le “risposte” dei vari redditi alle diverse condizioni dell’economia: dal 1977 al 1989 vi è stata una fase di crescita generale dell’economia e dei redditi, dal 1989 al 1995 un periodo di crisi, dal 1995 al 2006 una generale ripresa, e infine la crisi attuale (si noti che i redditi sono iniziati a calare già dal 2006).

I redditi delle classi più anziane, determinate principalmente dai redditi pensionistici, hanno costituito, per le fasi di “recessione” un “vincolo” importante: quando l’economia rallentava, e quindi i redditi calavano, la riduzione era anche più marcata per mantenere identico il potere di acquisto dei redditi pensionistici. È in queste fasi che risultano ben evidenti gli effetti della “ridistribuzione” operati dal sistema pensionistico. Questo fatto può essere meglio evidenziato se analizziamo le differenze (assolute e percentuali) cumulate nei diversi periodi indicati.

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Nella prima fase i redditi crescono per tutte le classi, ma, in percentuale, in maniera già più marcata per gli anziani.

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05Nella fase di crisi tra il 1989 e il 1995, ecco operare il “vincolo pensionistico”: tutti i redditi dei “giovani” si riducono sensibilmente, quelli dei più anziani crescono o restano uguali.

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07Nella terza fase di recupero dell’economia, tutti i redditi tornano a crescere, ma in maniera “progressiva” secondo la “anzianità”.

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09Nell’ultima fase, ecco di nuovo il vincolo: i redditi degli over 64 continuano a crescere, tutti gli altri si riducono di molto (si noti che in questo caso calano anche quelli della classe 55-64; non è difficile spiegare questo calo anche col progressivo innalzamento dell’età pensionabile, specialmente per la più recente riforma Fornero). Tali confronti possono risultare anche più chiari cercando di “stimare” (utilizzando questi dati per classi) delle curve continue che riportino i redditi per tutte le età.

Crescita per tutte le classi nella prima fase di crescita.

10Riduzione con “vincolo” nella seconda fase.

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Crescita nella terza fase.

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Di nuovo decrescita “vincolata” (per niente “felice”).

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Conclusioni

Qualcuno potrebbe dire che la cosa è del tutto ovvia e naturale: “i redditi pensionistici sono solo redditi differiti, perciò dipendono dalle condizioni passate dell’economia, non da quelle presenti”, ma ciò non è corretto, specie per un sistema pensionistico pubblico, e in particolare a ripartizione; in questo le pensioni in essere sono pagate dai contributi dei lavoratori, è ovvio quindi che in ogni momento deve sussistere un certo equilibrio tra pensioni e contributi, e quindi tra pensioni e andamento dell’economia.

Questo è il principio che è sempre mancato al sistema pensionistico italiano; a differenza di altri sistemi, che hanno ugualmente utilizzato sistemi retributivi e a ripartizione senza gli stessi pesanti effetti (si pensi alla Germania dove la crescita delle pensioni è sempre stata legata alla crescita delle retribuzioni, e da oltre un decennio, direttamente a quello della massa contributiva).

Gli effetti sono quelli che sono stati evidenziati: i momenti di crisi, pur “naturali” in qualsiasi economia, sono stati “amplificati” per alcune classi, per via del “vincolo pensionistico”. Questi gli effetti ad oggi, ma questa ridistribuzione di risorse avrà effetti ancor più pesanti in futuro – come alcuni “allarmi” già stanno anticipando – soprattutto se non si riuscirà a liberare l’economia italiana da questo vincolo.

*Tutti i grafici sono elaborazioni di Michele Liati su dati Banca d’Italia e Istat

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Duecentonove miliardi: a tanto ammonta il conto che la crisi del nostro sistema bancario ha presentato ai risparmiatori e agli investitori.

Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre 2015, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi.

Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.

Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori.

Gli azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, poi, in forza del processo di riorganizzazione in atto (aumenti di capitale e IPO), hanno subito (o stanno subendo) perdite per complessivi 8,2 miliardi di euro. Tali valori sono stati stimati prendendo come riferimento i valori a cui sono state acquistate dagli investitori/risparmiatori le azioni di queste banche e confrontati con gli attuali valori, prossimi allo zero. Va ricordato, infatti, che Banca Popolare di Vicenza valeva al suo massimo €62,50 euro per azione mentre Veneto Banca toccò qualche anno fa quota €39,50 euro per azione posseduta.

Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Secondo i dati di Borsa Italiana elaborati da ImpresaLavoro il settore delle banche italiane risulta aver bruciato – rispetto al 2007 – 197,6 miliardi divisi tra diminuzione del valore di capitalizzazione (148,7 miliardi) e aumenti di capitale effettuati (e bruciati) dal 2008 ad oggi (48,9miliardi). Le 17 banche quotate capitalizzavano in Borsa nel 2007 circa 230-240 miliardi di euro mentre oggi i valori di capitalizzazione si aggirano attorno agli 85 miliardi.

Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche, sostanzialmente comune a tutto il sistema, è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.  Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.

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Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.

C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depsiti bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04%  e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.

Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.

Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.

L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.

Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario.

Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.

Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari.

Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.

Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.

Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro

 

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

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Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

di Paolo Ermano*

Analizzando i dati della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014 è stato possibile computare l’indice di Gini per la popolazione dei pensionati (vecchiaia, anzianità e reversibilità) e confrontarla con quello della popolazione dei lavoratori. Lo scopo della ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro è quello di far emergere l’impatto del sistema pensionistico pubblico che sembra sempre più capace, grazie alle recenti riforme, di livellare le differenze di reddito all’interno della popolazione dei pensionati rispetto ai lavoratori. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista reddituale.

L’indagine

La presenza di un sistema pubblico che gestisce le pensioni di anzianità e vecchiaia rende la società più o meno diseguale? La domanda ha finora trovato poche risposte. L’anno scorso il Sole 24 Ore ha provato a misurare l’indice di concentrazione di Gini [1], la più nota misura della diseguaglianza economia, per il 2013 evidenziando come la popolazione di pensionati fosse caratterizzata da maggior diseguaglianza rispetto alla popolazione dei lavoratori. Purtroppo l’assenza di dettagli più precisi sulle modalità di calcolo utilizzate non ci ha permesso di comprendere come sia stato calcolato l’Indice di Gini da parte degli autori della ricerca pubblicata [2]. L’Istat e Banca d’Italia pubblicano studi che tengono conto dell’andamento dell’indice, non suddividendo però la popolazione indagata in sotto campioni [3].

Eppure il tema è importante per almeno tre ragioni. Innanzitutto, in Italia la spesa pubblica per le pensioni ammonta a circa €250 miliardi, di cui circa €180 miliardi sono spesi per le pensioni di anzianità, e ci si aspetterebbe che tanto denaro gestito dallo Stato sia indirizzato, fra i diversi obiettivi, anche a ridurre le diseguaglianza. Perché, se così non fosse, la gestione pubblica del sistema avrebbe una ragione in meno di esistere.

Secondo, con l’introduzione, avvenuta con la riforma Dini, del sistema contributivo nel nostro ordinamento, si sviluppa una difformità di trattamento generazionale fra vecchi e nuovi pensionati che durerà decenni, diversità che colpisce la sostanza dell’assegno pensionistico e che quindi modifica la distribuzione dei redditi della popolazione dei pensionati.

Terzo, le recenti modifiche della normativa sull’accesso alle pensioni di anzianità e vecchiaia potrebbero aver impattato sulla distribuzione dei redditi dei pensionati e conoscerne l’impatto è uno dei criteri per valutarne l’efficacia [4].

Per rispondere a questi interrogativi, il Centro Studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa preziosa e puntuale serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica [5].

Risultati

Dal grafico 1 possiamo già dare una parziale risposta ai quesiti appena avanzati.

Come si può osservare, il valore dell’indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37.

Grafico 1Ermano01

Da questa indicazione possiamo affermare che negli ultimi venti anni il sistema pensionistico relativo alla vecchiaia, anzianità e reversibilità, si è rivelato capace di ridurre la diseguaglianza della popolazione interessata in maniera significativa rispetto ai lavoratori.

Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato significativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati. Come si può osservare dal grafico 2, dal 1995 a oggi l’indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010.

Grafico 2
Ermano02

Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione.

Se questo andamento continuerà, e se la spiegazione qui avanzata si rivelerà corretta, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio l’indice suddiviso per sesso (grafico 3) troviamo una sostanziale parità di genere.

Grafico 3
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L’indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l’Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. I risultati, come rappresentati nei prossimi due grafici (4 e 5), presentano l’andamento dell’indice di Gini dal 1977 al 2014 per i pensionati divisi per ripartizione geografica.

Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale. Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese.

Grafico 4
Ermano04

 

Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30.

Grafico 5
Ermano05Sembra questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

Commento

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo Governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto restituito, più o meno volutamente, alle pensioni una dimensione fondamentale per dar valore alla natura pubblica del sistema di ripartizione: quella di esser strumento di riduzione delle diseguaglianze.

Sia ben chiaro: una popolazione che dal punto di vista del reddito percepito grazie al sistema pensionistico si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’indice di Gini, come qui evidenziato, descrive un situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, che si trova ad avere un assegno più pesante rispetto al passato, sia per la popolazione dei pensionati, più omogenea dal punto di vista reddituale rispetto al passato.

Note: 

[1] Misura tra le più utilizzare per analizzare la concentrazione di una variabile (es.: reddito ricchezza) all’interno di una popolazione. L’indice assume valori tra lo 0, in corrispondenza di una equa ripartizione delle risorse disponibili fra tutti gli individui, e l’1 quando un solo individuo ottiene tutte le risorse disponibile;

[2] “Con la pensione la diseguaglianza cresce”, Sole24Ore, 29/4/2015 pp.21;

[3] Si veda: “Reddito e condizioni di vita”, Istat, vari anni; “Indagini sui bilanci delle famiglie italiane”, Banca d’Italia, vari anni;

[4] Già ci siamo occupati degli impatti sulla sostenibilità economica di queste manovre. Vedi: “Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni”, Panorama, 27 novembre 2015;

[5] Specificatamente, l’Indice di Gini è stato calcolato sul campione presente nel database della Banca d’Italia “Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane 1977-2014”. Abbiamo computato l’indice per il Reddito disponibile netto (escluso da capitale finanziario) e per il Reddito da Pensione (Tipo 1: vecchiaia o anzianità; Tipo 3: reversibilità);

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Continua a crescere l’impatto del fisco sui salari italiani: è questo il risultato di un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando dati Ocse, segnala come il cuneo fiscale (la somma delle imposte: dirette, indirette o sotto forma di contributi previdenziali) per un lavoratore dipendente  (“single e senza figli”) è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media dei paesi dell’Ocse: nelle altre 34 economie internazionali monitorate, infatti, il cuneo fiscale- contributivo scende dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000.

Il sensibile balzo in avanti dell’Italia è un’eccezione tra le grandi economie avanzate:  negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%) la crescita del cuneo fiscale – pur superiore alla media Ocse – è contenuta in variazioni inferiori al punto percentuale. Mentre in Francia (-1,29%), Germania (-2,36%) e Regno Unito (-3,29%) il carico fiscale è diminuito.

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La situazione non cambia se si prendono in considerazione nuclei familiari più complessi. Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Tra le economie avanzate, quella italiana è nettamente la performance peggiore. Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0,92%) hanno comunque visto un incremento del cuneo al di sopra della media Ocse (+0,49%). Mentre in Canada (-0,90%), Germania (-1,49%), Francia (-2,00%) e Regno Unito (-2,04%) il carico fiscale è diminuito rispetto alla situazione pre-crisi.

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Lo scenario è leggermente migliore, per l’Italia, prendendo in considerazione le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Anche in questo caso, il cuneo fiscale italiano è cresciuto rispetto al 2007, ma con un incremento dell’1,55% la performance del nostro Paese è migliore di quella di Giappone (+3,16%) e Australia (+2,79%). Meglio di noi, invece, fanno Stati Uniti (+1,03%), Spagna (+0,59%), Francia (-1,85%), Germania (-2,24%) e Regno Unito (-3,76%).

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Rispetto agli anni pre-crisi, insomma, nelle tre tipologie di nuclei familiari prese in considerazione, l’Italia vede sempre aumentare l’incidenza del cuneo fiscale con tassi di crescita sensibilmente più elevati di tutte le grandi economie europee. Questo incremento si è sommato ad un quadro di partenza già di per sé preoccupante. E così in Italia nel 2015 si rileva un cuneo fiscale tra i più alti al mondo.  Nel caso del nucleo familiare “single senza figli” il nostro Paese (48,96%) è in quinta posizione (su 34) dietro soltanto, tra le economie avanzate, alla Germania (49,44%) che però, come abbiamo visto, negli ultimi anni sembra avere decisamente invertito la tendenza. Meglio di noi, invece, fanno Francia (48,46%), Spagna (39,56%), Giappone (32,22%), Stati Uniti (31,66%), Canada (31,63%), Regno Unito (30,83%) e Australia (28,35%).

Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, l’Italia è addirittura terza (su 34) con il 39,87%, dietro a Francia (40,49%) e Belgio (40,41%). Molto distanti Germania (33,97%), Spagna (33,78%), Giappone (26,81%), Regno Unito (26,31%), Stati Uniti (20,71%), Canada (18,84%) e Australia (17,82%).

Il nostro Paese, infine, è in terza posizione (sempre su 34) anche per quanto riguarda le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Peggio di noi, con un cuneo fiscale del 42,70%, anche in questo caso soltanto Belgio (48,13%) e Francia (43,08%). Tra le economie avanzate, invece, meglio di noi Germania (42,33%), Spagna (36,37%), Giappone (29,16%), Canada (26,89%), Stati Uniti (26,61%), Australia (26,25%) e Regno Unito (26,18%).

Il tema della riduzione delle tasse sul lavoro è stato recentemente affrontato anche dal Cnel che nelle sue “Osservazioni e proposte” al Def (e relative audizioni) ha posto l’accento sull’esigenza di una adeguata e coerente politica per le famiglie a fini di crescita ed equità. Politica che, necessariamente, richiede una seria e profonda revisione del cuneo tributario-contributivo.

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Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Nonostante gli interventi straordinari della BCE e qualche timido segnale di ripresa dei prestiti concessi al complesso del settore privato, i volumi degli impieghi bancari italiani diretti alle imprese risultano tutt’al più stagnanti. Se le manovre espansive sul credito bancario non hanno, almeno per il momento, influito sui volumi, sembra invece che un positivo effetto lo stiano avendo sul costo del denaro.

I tassi d’interesse sugli impieghi mostrano – per ogni diversa tipologia di operazione, che qui comunque dobbiamo analizzare in forma aggregata – una riduzione generalizzata e quantificabile, per il 2015 rispetto all’anno precedente, in circa un punto percentuale. Sulla base di queste analisi, si potrebbe concludere che il dato incoraggiante riguarda pertanto il costo del denaro, piuttosto che la sua disponibilità.

Prendendo a riferimento le operazioni autoliquidanti e a revoca (destinate tipicamente ai fabbisogni di capitale circolante), il tasso attivo medio risulterebbe sceso, al terzo trimestre del 2015, al 5,46% su tutto il territorio nazionale, con una flessione di 86 punti base rispetto all’anno precedente e 99 rispetto al 2012.

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Sempre su base aggregata, le nuove erogazioni nel periodo per operazioni a scadenza (più propriamente destinate agli investimenti in immobilizzazioni), risultano più economiche rispetto a un anno prima per 104 punti base (scadenza inferiore all’anno) e 155 punti base (scadenza entro 5 anni).

Il costo effettivo del credito risulta dunque, nella sostanza, ritornato ai livelli del 2010 (l’anno che ha preceduto la crisi dei paesi periferici dell’Eurozona), con una riduzione per i mutui alle imprese (a medio/lungo termine) quantificabile in 48 punti base e un aumento contenuto (42 punti base) per i fidi in conto corrente e gli anticipi.mappa_02

È interessante notare che anche in questo caso le differenze tra aree regionali, già di per sé molto significative, hanno mostrato una recente tendenza all’aumento. Ciò è soprattutto vero per gli anticipi e le aperture di credito in conto corrente, che costano alle imprese del Sud ora il 2,42% in più in media rispetto al Nord (era il 2,04% nel terzo trimestre del 2014 e l’1,67% nel 2010).

Per quanto concerne le operazioni a scadenza, la tendenza è invece più complessa da analizzare e mostra una riduzione delle differenze rispetto all’anno precedente ma comunque un aumento rispetto ai livelli 2010. I mutui alle imprese meridionali costano in media tra lo 0,79% e l’1,09% in più rispetto alle imprese del nord (in base alle diverse durate), e la forbice pur drasticamente diminuita rispetto al 2014 – risulta più ampia di circa 15-16 punti base medi rispetto ai valori di cinque anni prima.01_costocreditoregioni

 

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

di Paolo Ermano*

Torniamo in apnea?

È presto per dire se le nuove misure messe in campo da Mario Draghi, che allargano gli spazi delle operazioni che vanno sotto il cappello di Quantitative Easing (QE), porteranno nuovo ossigeno nell’economia europea e in particolare nell’economia italiana. È certo che la situazione degli operatori finanziari nel Bel Paese è di difficile comprensione: da un lato abbiamo alcuni scandali che interessano banche più o meno grandi e più o meno legate al territorio (ad esempio, dalla Popolare di Vicenza alle quattro banche fallite del centro Italia), dall’altro processi di aggregazioni di alcuni istituti stanno modificando non solo la sensibilità degli italiani rispetto all’organizzazione dei servizi bancari, ma influiranno in maniera decisiva sugli assetti societari e sulla capacità del sistema di affrontare le cogenti sfide.

Le sfide che il sistema bancario deve e dovrà affrontare sono molte, a partire dalla riattivazione della circolazione del denaro, che sembra vivere un periodo non certo florido. Se partiamo con l’osservare l’andamento dei prestiti verso le famiglie e le società non finanziarie, quello che potremmo definire con un espressione un po’ forzata “economia reale”, la situazione è problematica: da giugno 2014 registriamo aumenti nei prestiti alle famiglie e contrazioni nei prestiti alle imprese (grafico 1, 2 e tabella 1 e 2).

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Mentre i prestiti alle famiglie, stabili fino ai primi mesi del 2015, hanno visto una crescita più sostenuta soprattutto durante l’autunno, in corrispondenza dell’aumento dell’indice di fiducia dei consumatori, i prestiti verso il mondo delle imprese continuano a vivere una contrazione che si sviluppa ad ondate, che riflette la complessità dell’indice di fiducia delle imprese, positivo per servizi, commercio e le costruzioni, stabile per la manifattura (Istat, Nota Mensile 3/2016).

In aggregato, l’ammontare dei prestiti elargiti a famiglie e imprese si è contratto dell’1% da giugno 2014, mentre le cartolarizzazione dei crediti sono cresciute nello stesso periodo di più del 5%.

Le sofferenze

Per spiegare come mai il canale del credito, che oggi ancor prima che nel processo di circolazione del denaro trova nella BCE una sponda forte, continui a rimanere sterile, si sono spesso chiamate in causa le sofferenze bancarie, quei crediti deteriorati al punto da diventare difficilmente esigibili dalla banche.

Un primo problema, che è da un po’ di tempo al centro dell’attenzione mediatica, riguarda l’andamento delle sofferenze. Il totale complessivo dei prestiti in sofferenza presso il sistema bancario italiano ha raggiunto quota 202 miliardi: di questi, €181,5 sono ascrivibili a famiglie e imprese. In particolare, le sofferenze appartengono principalmente al mondo delle imprese visto che da sole queste coprono circa il 71% del loro ammontare complessivo.

Come si può vedere nel grafico 3, sommando le sofferenze delle società non finanziarie (le imprese comunemente chiamate) con quelle delle famiglie, se ne ricava una crescita netta del 18% dal giugno 2014 al gennaio 2016.

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Questa è una vera spina nel fianco per la stabilità del sistema bancario italiano che prima o poi dovrà smaltire questi titoli. Non sembra che le operazioni della BCE per ora abbiamo aiutato il sistema bancario a gestire questa massa di prestiti in sofferenza.

La circolazione del denaro

Che le sofferenze giochino un ruolo cruciale quando cerchiamo di comprendere le ragioni per cui il sistema dei prestiti si sia relativamente arrestato è un dato di fatto. Tuttavia le sofferenze sono il sintomo di un sistema del credito nazionale troppo banco-centrico, soprattutto per quanto riguarda le imprese. La ricchezza privata per finanziare le aziende in Italia non manca, è solo che questa fluisce verso le imprese grazie alla dinamica del deposito-prestito che passa quasi esclusivamente per il canale bancario.

Da questo punto di vista è interessante osservare l’andamento dei depositi di famiglie e società non finanziarie. In entrambi i casi, partendo dal giungo 2014, si osserva un aumento dello stock di deposito (+4,3% per le famiglie, +12,8% per le imprese), un aumento però non sufficiente a sostenere la richiesta di prestiti avanzata: il saldo fra depositi e prestiti è negativo (i depositi di questi due gruppi non coprono l’esposizione creditizia, ovvero gli impieghi superano le fonti). Da giugno 2014 il gap fra depositi e prestiti si è ridotto del 30% (-78% da settembre 2008!), un risultato davvero notevole: le banche raccolgono un ammontare sempre maggiore di depositi, centellinando la richiesta di nuovi prestiti. Limitano, quindi, la circolazione del denaro.

Un aumento dei depositi può essere giustificato dalla ripresa economica: modesto l’aumento dei depositi, modesta la ripresa; un aumento meno che proporzionale dei prestiti segnala sia una maggior richiesta di credito da parte delle imprese, sia un’incapacità del sistema bancario di fornire credito, per ragioni che possono variare dalla possibilità dei richiedenti di fornire adeguate garanzie, fino alla difficoltà dell’istituto di rispettare i parametri di solidità bancaria atti a veicolare con facilità la massa depositata verso la platea dei richiedenti. Se i dati sulle sofferenze portano a supporre che il problema sia oramai più nel sistema bancario che nei soggetti privati richiedenti credito, il gap fra deposito e credito porta a immaginare la necessità da parte del sistema di un riordino per evitare eccessive asimmetrie fra soggetti che prestano e soggetti che depositano.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati di Banca d’Italia, emerge come le politiche di espansione del credito messe in atto dalla BCE attraverso il TLTRO e l’APP non abbiano ancora dato i risultati sperati. Dal 1 aprile sono diventate attive le nuove e più incisive misure di QE: valuteremo a breve i risultati, per quanto le borse hanno reagito tiepidamente finora.

Se da un lato è evidente come il costo del debito pubblico sia calato grazie all’operato della BCE, dall’altro non appare altrettanto evidente come l’aver ridotto la convenienza a investire nei titoli di Stato abbia spostato l’operatività delle banche verso il settore privato, famiglie e imprese innanzitutto.

Questo perché, come spiega un recente studio della BCE, la politica messa in piedi da Mario Draghi ha portato più risultati nel settore privato del nord Europa, dove il sistema finanziario era meno vulnerabile, rispetto al Sud dell’Europa (ECB: Economic bulletin, 7/2015, pp. 36). Ricordare ora l’opposizione dei paesi nordici alle operazioni di Mario Draghi dovrebbe far riflettere molto sulla distanza che passa fra gli annunci pubblici e la realtà delle cose. A noi interessano però le ragioni che lo studio della BCE avanza per giustificare questa diversità di risultati: proprio l’eccessiva presenza di crediti deteriorati nelle economie del Sud dell’Europa, Italia compresa, spiega la minor efficacia del QE in questi Paesi.

Occorre trovare un rimedio alla gestione delle sofferenze del sistema bancario nazionale, prima possibile, per almeno due ragioni. La prima, per poter maggiormente beneficiare della politica monetaria espansiva messa in piedi dalla BCE che durerà almeno fino a marzo 2017. La seconda ragione, collegata alla prima, ha a che fare con la timida ripresa in corso nel nostro Paese: rischiare di soffocarla per inefficienza del sistema bancario sarebbe davvero imperdonabile, soprattutto ora che le possibilità finanziarie offerte dall’euro-sistema sono così ampie e generose.

Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

In Italia, dal 2014 al 2015, il numero degli occupati è passato da 22.278.917 a 22.464.753, con una crescità di 185.836 unità in valore assoluto e dello 0,83% in termini percentuali. Questo leggero aumento dell’occupazione, però, non si è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Secondo un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Istat, tra le 110 province del nostro Paese 67 hanno visto salire il numero degli occupati nel 2015, mentre 43 hanno conosciuto un arretramento rispetto ai livelli occupazionali del 2014.

In cima alla graduatoria delle province con il migliore saldo positivo, si segnalano Milano (+28.167) e Torino (+16.846), che sono due tra le cinque province del Nord nelle prime 15 posizioni, insieme a Bergamo (+9.828), Vicenza (+9.230) e Genova (+9.039), rispettivamente al sesto, nono posto e decimo posto. Ben rappresentato anche il Mezzogiorno d’Italia, con Cosenza (+11.783) e Trapani (+10.533) in terza e quarta posizione, davanti a Bari (+9.753), Palermo (+9.542), Salerno (+8.590) e Sassari (+8.231), rispettivamente al settimo, ottavo, dodicesimo e tredicesimo posto. La provincia del Centro con l’aumento dell’occupazione più marcato dal 2014 al 2015 è Lucca (+9.882) in quinta posizione, davanti a Frosinone (+8.639), Pistoia (8.226) e Perugia (+7.950), rispettivamente all’undicesimo, quattordicesimo e quindicesimo posto della classifica. Fuori dalle prime quindici posizioni, ma comunque con un saldo occupazionale positivo, tra le province maggiori segnaliamo Venezia (+7.909), Cagliari (7.446), Napoli (7.349), Lecce (+6.698), Roma (+4.538) e Catania (+3.602).

In fondo alla graduatoria, invece, spiccano due province del Nord-Est con saldo fortemente negativo – Verona (-15.221) e Padova (-11.589) – appena davanti a Monza e della Brianza (-11.289). Male, al Nord, anche Varese (-6.057), Brescia (-4.260), Udine (-3.714), Mantova (-2.030), Treviso (-1.909) e Rovigo (-1.705). La performance peggiore al Sud è quella di Catanzaro (-8.683), ma arretrano sensibilmente rispetto al 2014 anche Reggio Calabria (-4.956), Agrigento (-3.541), Caserta (-3.447), Barletta-Andria-Trani (-3.289), Vibo Valentia (-3.006), Crotone (-2.512) e Avellino (-2.466). Al Centro, infine, la graduatoria è chiusa da Firenze (-9.325), che fa peggio di Pescara (-6.091), Latina (-4.878), Pesaro e Urbino (-4.332), Parma (-3.534) e Bologna (-1.438).

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Il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha anche analizzato il saldo occupazionale dal 2007 al 2015 per effettuare una comparazione con i livelli pre-crisi. In questo caso i numeri di alcune province, create dopo il 2007, sono stati aggregati per rendere i dati omogenei (Barletta-Andria-Trani con Bari e Foggia; Fermo con Ascoli Piceno; Milano con Monza e Brianza; tutte le province della Sardegna).

Rispetto alla situazione pre-crisi, su 99 casi esaminati (il numero non corrisponde alle 110 province italiane proprio per l’aggregazione di cui sopra) solo 27 sono tornati sopra al livello occupazionale del 2007. Negli altri 72 casi, invece, il dato del 2015 è ancora inferiore – a volte in modo sensibile – rispetto a quello del 2007.

La performance migliore è quella della provincia di Roma, con un saldo positivo di 163.100 unità, molto davanti a Milano con Monza e Brianza (+31.207), Firenze (+17.326), Bolzano (16.744) e Viterbo (+13.302). Bene, al Nord, anche Pavia (+13.142), Trento (+10.696), Lodi (+4.928), Alessandria (+3.956) e Verona (+2.217). Al Centro emergono i risultati di Rimini (+11.475), Pisa (+8.568), Forlì-Cesena (+7.564), Livorno (+6.474) e Bologna (+5.069). Mentre tra le province del Sud l’unica ad avere un saldo leggermente positivo rispetto al 2007 è Brindisi (+591).

Nel Mezzogiorno d’Italia, al contrario, abbondano le province con un saldo occupazionale negativo rispetto agli anni pre-crisi. Particolarmente significativi i dati di Napoli (-65.460), Barletta-Andria-Trani più Bari e Foggia (-62.186), Palermo (-41.012) , Cosenza (-29.239) e Messina (-28.455). È molto negativa anche la performance delle province sarde che, aggregate, perdono 40.862 posti di lavoro rispetto al 2007. Al Nord, le province con il peggiore saldo occupazionale sono Torino (-23.356), Padova (-21.305), Varese (-17.344) e Udine (-15.385). Mentre al Centro spiccano, in senso negativo, Pesaro e Urbino (-17.369), Ferrara (-14.767) e Modena (-9.598).

La crisi, insomma, sembra aver ulteriormente ampliato il divario tra le aree economicamente più avanzate del Paese e quelle – soprattutto al Sud –che invece sembrano ancora stentare nel riprendersi dalla crisi economica cominciata ormai otto anni fa.

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Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

di Gianni Zorzi

Più di undici miliardi all’anno è la perdita di bilancio che l’Inps subisce regolarmente dal 2012 (anno in cui ha incorporato l’Enpals e soprattutto l’ex Inpdap), e che stima di registrare anche al termine del 2016. Il patrimonio netto che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro è ormai diretto verso la completa erosione, e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa.

Il conto a fine anno potrebbe essere ancora peggiore, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

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C’è un costo in particolare che l’Inps ha sempre regolarmente sottostimato fino ad ora nei suoi bilanci preventivi: il costo derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori si va dal caso di debitori falliti o liquidati, oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità, a quello di crediti caduti in prescrizione, o per i quali ne viene accertata l’insussistenza.

Per il 2016 l’accantonamento preventivato a conto economico sfiora gli 8 miliardi: un valore ben più allineato a quanto rilevato a consuntivo negli ultimi anni, anche in considerazione – riporta testualmente il bilancio Inps – della “vetustà dei residui attivi” e della “presunta probabilità di effettivo realizzo degli stessi”. Per l’anno appena chiuso invece le previsioni assestate contengono accantonamenti per 5,7 miliardi a fronte di meno di un miliardo messo in preventivo.

Concettualmente il problema è analogo a quello che affrontano le banche: i mancati incassi si accumulano nei bilanci (soprattutto in anni di crisi) e diventano a tutti gli effetti crediti deteriorati. Una parte di questi viene efficacemente recuperata mentre la restante quota perde progressivamente la probabilità di un recupero fino a essere soggetta a definitiva svalutazione.

Anche la gestione dei crediti e del loro recupero, del resto, è un’attività che richiede risorse e che può essere condotta in modo più o meno efficace ed efficiente. Talvolta può risultare conveniente delegarla a terzi attraverso strumenti quali la cartolarizzazione o la cessione del credito a operatori qualificati (in questo caso può effettuarsi con uno sconto, anche molto elevato, rispetto al loro valore nominale).

Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei cento miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (è una tendenza ormai consolidata da anni). Il conto esatto sarebbe di oltre 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Uno degli aspetti più delicati è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo è peggiore la probabilità di recuperarlo) e il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre).

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Si scopre dunque che questi criteri sono stati rivisti al ribasso proprio negli ultimi bilanci. I crediti risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici.

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Per il triennio successivo (mancano informazioni aggiornate ma per il 2010-2012 è arduo stimarli in meno di 20 miliardi), la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente, anche se manca una relazione apposita in bilancio, il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione.

Inoltre, le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono – non sorprendentemente – quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

La preoccupazione (lecita) è dunque già riferita al presente: sono sufficienti e realistiche le svalutazioni sinora effettuate dall’ente oppure sono ancora ottimistiche? È sufficientemente strutturata ed efficace l’attività di recupero dell’Inps, specialmente su volumi in consistente crescita? Si può affrontare il problema con strumenti migliori e, in tal caso, quanto può costare non attivarli per tempo?

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Alcuni strumenti come la cessione dei crediti e la cartolarizzazione (sempre che si dimostrino più efficienti per il recupero degli incassi) richiedono appositi strumenti normativi. Le ultime operazioni di trasferimento – delle quali l’esito non è reso chiaro – risalgono ormai al 2005: sappiamo solo che di 26 miliardi di crediti residui ben 11 sono insorti prima del nuovo millennio, e il 10% non risulta ancora svalutato.

I pur nutriti rendiconti dell’Inps (l’ultimo consuntivo misura complessivamente 3883 pagine) non brillano per esaustività con riguardo a questi aspetti. Nemmeno gli schemi sintetici (quelli più fruibili da una platea di non addetti ai lavori) riescono a descrivere con esattezza le dimensioni del problema, che nel dibattito nazionale è rimasto – salvo qualche eccezione e nonostante le sue crescenti proporzioni – sinora sorprendentemente sottaciuto.