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Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

In rapporto al Pil la spesa è cresciuta dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013

Nel 2014 la spesa per ammortizzatori sociali in Italia è stata complessivamente pari a 22 miliardi 976 milioni di euro (in calo di 0,6 miliardi rispetto al 2013, anno record) con un saldo negativo di 13 miliardi 824 milioni a carico della fiscalità generale dello Stato. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Inps ed Eurostat.

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Anche l’anno scorso il sistema è stato pertanto finanziato solo parzialmente dalle imprese (per una quota di 9 miliardi 152 milioni di euro), che sono state soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento: 3 miliardi 737 milioni a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 610 milioni a copertura dell’indennità di mobilità e la restante parte a copertura dell’indennità di disoccupazione e ASPI.
Nel triennio 2011-2013 la spesa per ammortizzatori sociali è stata in Italia di 432,17 euro per ciascun abitante, leggermente superiore alla media UE a 27 membri (411,84 euro). Nella classifica europea stilata su dati Eurostat, il nostro Paese risulta davanti a Regno Unito (198,86 euro per abitante) Portogallo (261,89 euro), Grecia (367,62 euro) e Germania (405,42) e dietro a Francia (599,48 euro) e Spagna (777,81).

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Dalla lettura dei dati Eurostat emerge soprattutto un dato significativo: se calcolata in rapporto al nostro PIL, la spesa italiana per ammortizzatori sociali è balzata dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013. Si tratta di un incremento superiore persino a quello registrato nella malandata Grecia (passata dall’1,2% al 2,0% del proprio PIL) e comunque in controtendenza rispetto a quanto avvenuto tra questi due trienni nel Regno Unito (spesa rimasta stabile allo 0,7%) e soprattutto in Germania (spesa scesa dal 2,1% all’1,3%) e Francia (spesa scesa dal 2,2% all’1,9%).

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«Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo» ricorda Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso. Inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità».

 

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

In testa il Trentino Alto Adige (-2,2%) e Valle d’Aosta (-5,5%). Debiti Pa in aumento: tra 6,1 e 6,4 miliardi di euro, il costo per le imprese e fino a 120 giorni di ritardi nei pagamenti

Continua ad essere difficile l’accesso al credito per le imprese italiane e a soffrire di più sono le piccole medie imprese. Lo rende noto un report realizzato da ImpresaLavoro per Confimprenditori che ha analizzato l’andamento dei prestiti suddividendo il dato delle piccole imprese da quello delle aziende di medio-grandi dimensioni.
Ne emerge un quadro molto chiaro e che segnala come l’ammontare complessivo dei prestiti alle imprese non finanziarie, nonostante i diversi interventi della Banca Centrale Europea, continui a calare.
Mediamente, nelle 20 regioni, il credito al sistema produttivo scende dell’1,3% su base annua (marzo 2015 su marzo 2014) ma questo dato è generato da un calo dell’1,2% per le imprese medio-grandi e da una stretta creditizia quasi doppia (-2,2%) per le piccole imprese. Dal punto di vista geografico la situazione è particolarmente preoccupante al Nord dove i “piccoli” subiscono un rallentamento nell’erogazione del credito che va dal 2,2% del Trentino Alto Adige al 5,5% della Valle d’Aosta, interessando anche regioni con alta concentrazione di imprese come Veneto (-3,1%), Lombardia (-3,1%) e Piemonte (-2,9%). Il rallentamento è meno marcato al Centro dove spicca il -4% delle Marche e un segnale lievemente positivo dall’Umbria (+0,2%). Situazione simile a quella del Sud dove tra i molti segni meno (Puglia: -2,2%, Calabria -2,3%) va in leggera controtendenza il Molise (+0,3%).
I DEBITI PA. Dall’analisi, realizzata sui dati contenuti nei bollettini statistici delle economie regionali di Bankitalia, emerge che il credito rappresenti un fattore importante per le piccole imprese non solo per stimolare nuovi investimenti, ma molto spesso anche e soprattutto per far fronte al ritardo con cui si vedono pagati i lavori eseguiti.
Questo fenomeno è stato ampiamente dibattuto con riferimento ai debiti della Pubblica Amministrazione: ad oggi deve ancora essere pagato al sistema delle imprese italiane un importo che, al netto degli anticipi pro soluto, varia tra i 67 e i 71,6 miliardi di euro. Ne consegue per il sistema delle imprese un costo tra i 6,1 e i 6,4 miliardi di euro: questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pa, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).
A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2-4 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra Pa assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 201 di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento.
I PAGAMENTI TRA PRIVATI. Non va meglio se consideriamo i pagamenti tra privati. Analizzando i dati forniti da CRIBIS, ImpresaLavoro è stata in grado di ricostruire l’andamento regionale dei pagamenti tra imprese. In termini generali la questione potrebbe risolversi così: più piccola è l’impresa e più puntuali sono i pagamenti. Sembra paradossale ma è così: chi ha più difficolta di accesso al credito, dinamiche dimensionali e quantitative più ristrette è anche chi paga quanto dovuto con più rapidità. In particolare circa un terzo delle micro e piccole imprese pagano le proprie fatture regolarmente (34,5% e 31,5%) mentre questa percentuale scende tra le medie (24,9%) e si dimezza tra le grandi, dove solo il 14,8% paga puntualmente.
Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

di Gianni Zorzi

Sintesi
Le misure straordinarie adottate dalla Banca Centrale Europea in risposta alla crisi dei paesi periferici scoppiata nel 2011, ivi inclusi il taglio dei tassi fino allo 0,05%, le operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (LTRO e TLTRO) nonché di acquisto di titoli pubblici sul mercato (“quantitative easing”), hanno portato ad un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano. Ciò si traduce in un risparmio (notevole) per il Tesoro, ma anche in un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche dei piccoli risparmiatori italiani, che secondo i dati Bankitalia più recenti a fine 2013 ne detenevano in portafoglio per più di 180 miliardi di euro. Sebbene i rendimenti lordi dei titoli di Stato siano rimasti in territorio positivo, gli effetti fiscali (legati alle imposte sui guadagni finanziari e alla “mini-patrimoniale” dell’imposta di bollo salita allo 0,2% dall’inizio del 2014) conducono già da tempo a risultati netti complessivamente negativi per i risparmiatori che continuano a sottoscrivere o acquistare titoli di stato italiani. Con il DM 15 gennaio 2015 il Governo ha obbligato le banche a ridurre o annullare le commissioni applicate sui BOT in asta nel caso il rendimento sia nullo o appena positivo. Nessuna misura tuttavia è prevista per limitare il peso delle imposte nemmeno in tali casi.
1. Le modalità di investimento in titoli di Stato
I piccoli risparmiatori possono investire direttamente in titoli di Stato in due modi diversi:
• Sottoscrivendo i titoli in fase d’asta (il cosiddetto “mercato primario”: le aste sono organizzate direttamente del Tesoro secondo un calendario predefinito);
• Acquistando i titoli su uno dei mercati obbligazionari come il MOT di Borsa Italiana (i cosiddetti “mercato secondari”: i titoli già in circolazione sono quotati e gli scambi possono avvenire in tempo reale in tutti i giorni di apertura del mercato);
In entrambi i casi è comunque necessario che le operazioni di investimento siano gestite da un intermediario abilitato (tipicamente una banca), sulla base di un contratto di ricezione e invio ordini per conto del cliente, custodia e amministrazione dei titoli (il cosiddetto “deposito titoli” o “dossier titoli”).
C’è inoltre la possibilità dell’investimento indiretto in titoli attraverso la sottoscrizione di polizze, fondi comuni, fondi pensione, gestioni patrimoniali: in questo caso però il patrimonio è suddiviso – nella quasi totalità dei casi – anche su titoli di altra natura oppure emessi da soggetti diversi dallo Stato.
2. Le “norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato”
Un recente intervento normativo (il D.M. 15 gennaio 2015), entrato in vigore il 20 gennaio 2015, ha modificato le norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato, limitando in particolare le commissioni che banche e intermediari possono porre a carico della clientela in fase di sottoscrizione di titoli alle aste periodiche organizzate dal Tesoro. Il decreto è intervenuto a modificare il precedente D.M. del 12 febbraio 2004 (integrato dal D.M. 19 ottobre 2009), soprattutto per quanto concerne le commissioni massime applicabili alle aste dei BOT (sugli altri titoli come i BTP, i CTZ e i CCTeu permane il divieto di applicare commissioni). Nella sostanza il decreto ha limitato le commissioni massime sui BOT su questi livelli:
• Lo 0,03% del capitale sottoscritto per i BOT mensili (in precedenza era lo 0,05%);
• Lo 0,05% per i BOT trimestrali (era lo 0,1%);
• Lo 0,1% per i BOT semestrali (era lo 0,2%);
• Lo 0,15% per i BOT annuali (era lo 0,3%)
Inoltre, le commissioni devono essere ridotte se il prezzo d’asta dei BOT risulta inferiore a 100 ma il prezzo totale (comprensivo di ritenuta fiscale e commissioni medesime) la supera, e annullate se il prezzo d’asta dei BOT risulta pari o superiore a 100.
Questa norma, nella sostanza, obbliga le banche a ridurre oppure annullare le commissioni se per effetto delle stesse il rendimento per i risparmiatori diventa negativo, ed era stata introdotta infatti per la prima volta nel DM 19 ottobre 2009 in seguito al brusco ribasso dei tassi operato dalle banche centrali dopo il terremoto finanziario scatenato dal default di Lehman Brothers. Un’altra norma del decreto già in vigore dal 2004 limita a 10 euro semestrali il costo massimo applicabile dalle banche su un deposito titoli composto unicamente da titoli di Stato italiani.

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3. La fiscalità complessiva dei titoli di Stato per i piccoli risparmiatori
Il prelievo complessivo dello Stato a carico dei piccoli risparmiatori sui titoli del debito pubblico si compone di tre elementi:
• La tassazione sugli interessi (pari al 12,5% delle cedole lorde pagate da BTP, CCT e titoli analoghi, nonché della differenza tra prezzo di rimborso e prezzo d’asta di BOT e CTZ);
• La tassazione sull’eventuale capital gain (pari al 12,5% della differenza tra prezzo di vendita/rimborso e di acquisto, se positiva);
• L’imposta di bollo sul deposito titoli (dal 2014 calcolata in via proporzionale allo 0,2%, dopo una serie di riforme intervenute già dal 2011).
I titoli di Stato hanno resistito dunque agli aumenti delle aliquote sui redditi finanziari decisi negli ultimi anni, guadagnando peraltro una tassazione agevolata rispetto, per esempio, a depositi bancari e titoli emessi da altri soggetti, che scontano ora un’aliquota del 26%. Nel contempo, tuttavia, i titoli del debito pubblico non sono sfuggiti all’applicazione della cosiddetta “mini-patrimoniale” su depositi e investimenti finanziari, riformata una prima volta da Tremonti nel 2011, poi da Monti (2012-2013) e Letta (2014), da cui oggi sono esentati solamente gli investimenti in polizze vita di ramo I e fondi pensione.
Il complesso sistema delle tasse sugli investimenti finanziari in Italia ha inoltre queste due caratteristiche:
• Non c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applicano infatti solo alle commissioni bancarie;
• Non c’è la possibilità di compensare alcuni elementi di guadagno con altri elementi di perdita: nel caso dei titoli di Stato, non si possono compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto dei titoli sui mercati secondari.
Da questo si deduce che anche gli investimenti in titoli di Stato con rendimento lordo positivo possono in realtà presentare un rendimento effettivo netto negativo, ovvero determinare un costo a sfavore del piccolo risparmiatore piuttosto che un interesse a suo favore.

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4. L’acquisto sul mercato primario (aste dei titoli di Stato)
Unendo i dati sui risultati delle aste dei titoli di Stato nel periodo 2012-2015 per alcune tipologie di titoli (BOT semestrali e annuali, CTZ, BTP triennali quinquennali e decennali) al meccanismo di calcolo delle imposte sugli interessi (la ritenuta fiscale del 12,5%) e dell’imposta di bollo per il periodo necessario di detenzione del titolo (lo 0,2% su base annua sul controvalore dell’investimento), si perviene a un indicatore definibile come “rendimento annuo netto effettivo per il piccolo investitore”, grazie al quale si ottengono le seguenti conclusioni:
• I BOT semestrali acquistati all’asta hanno finora avuto sempre un rendimento annuo lordo positivo (o tutt’al più nullo come nell’asta di aprile 2015) ma quelli sottoscritti nell’asta di agosto 2014 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo del -0,08%, e tutti quelli sottoscritti in asta a partire dal gennaio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BOT annuali e i CTZ sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento annuo lordo positivo ma a partire dall’asta di febbraio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BTP triennali sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento lordo positivo ma quelli emessi nel marzo 2015 presentavano un rendimento netto effettivo pari al -0,07%;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e del 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015.

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5. L’acquisto sui mercati secondari (MOT)
Questa seconda modalità di investimento in titoli di Stato risulta penalizzata dall’andamento del mercato: chi volesse procedere all’acquisto di titoli sul mercato secondario si ritroverebbe nella quasi totalità dei casi un prezzo di acquisto superiore alla pari. Come si è visto in precedenza, le norme sulla fiscalità delle “rendite finanziarie” impediscono la compensazione tra redditi da capitale come quelli derivanti dall’incasso di cedole dai titoli di Stato, ed eventuali minusvalenze pregresse. Ne consegue che acquistando un titolo sopra la pari:
• Le cedole vengono comunque tassate al 12,50%;
• La differenza tra prezzo di rimborso e prezzo di acquisto è negativa e darà origine, al momento del rimborso, a una minusvalenza utilizzabile a compensazione di alcuni redditi finanziari fino al quarto anno solare successivo.
Questa fattispecie si accompagna dunque alla possibilità concreta che il prelievo fiscale sugli interessi superi già di per sé il rendimento lordo del titolo, determinando una perdita.
Tutti i titoli inoltre sono soggetti all’imposta di bollo fissata nello 0,2% annuo.
Dall’esame dei rendimenti dei BTP quotati sul MOT di Borsa Italiana e dei meccanismi di calcolo delle imposte, si deduce, in base ai prezzi di riferimento rilevati il giorno 23/10/2015 che:
• Tutti i BTP quotati mostrano un rendimento lordo positivo, seppure per molti di essi vicino allo zero;
• Tutti i BTP con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046.

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6. Conclusioni
I principali risultati emersi nel corso dell’analisi sono i seguenti:
• In fase di sottoscrizione tramite asta, i BOT semestrali e annuali, nonché i CTZ, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. Ciò risulta verificato anche per il BTP triennale offerto in asta nel marzo 2015;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato tuttavia il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015;
• Per quanto riguarda i titoli offerti in asta, on c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applica infatti solo alle commissioni bancarie;
• Tutti i BTP quotati sul MOT alla data del 23.10.2015 mostrano un rendimento lordo positivo, ma tutti quelli con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046;
• L’acquisto dei titoli sul mercato secondario determina rendimenti ulteriormente peggiori per i piccoli risparmiatori poiché nel regime del risparmio amministrato non c’è la possibilità di compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto di titoli quotati al di sopra del valore di rimborso.
Debiti Pa: nel 2014 il mancato pagamento è costato alle imprese 6,4 miliardi

Debiti Pa: nel 2014 il mancato pagamento è costato alle imprese 6,4 miliardi

I dati illustrati oggi da Bankitalia (in un paper che cita tra le sue fonti anche una ricerca di ImpresaLavoro) confermano purtroppo l’analisi da noi elaborata diverse settimane or sono. Nonostante le ripetute promesse, il governo di Matteo Renzi non ha affatto risolto l’ingente stock di debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese fornitrici, che resta secondo Bankitalia pari a ben 71,6 miliardi di euro.
Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,4 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).
A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso fino a 4,1 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro: «Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 2015″ di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento».
Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

di Gianni Zorzi – Panorama

Alcune stime recenti hanno tentato di catturare il costo complessivo a carico dei contribuenti della gestione degli sbarchi di profughi e clandestini in Italia. In assenza di una contabilità precisa, le cifre che emergono sotto diverse ipotesi sono elevate ma del tutto realistiche. Uno studio di ImpresaLavoro ha cercato un approccio analitico provando a stimare, voce per voce, quanto costa l’emergenza migranti in Italia.
Primo dato: la scarsissima trasparenza. Nonostante un fenomeno che coinvolge 300mila persone sbarcate in due anni e quasi 100mila migranti ospitati nei nostri centri di accoglienza, non è stata ancora istituita una contabilità analitica dei costi sostenuti. In parte tale aspetto si deve alla distribuzione degli oneri tra i più diversi centri di costo, a livello locale oppure nazionale, che coinvolgono anche dipartimenti diversi come quello della sanità o della difesa. Per il resto, la mancanza di dati puntuali può giustificarsi nella condizione di emergenza, anche se tale ormai perdura da almeno due anni: gli arrivi dei migranti sulle coste italiane, secondo i dati del Ministero, sono passati dai 13mila del 2012 ai 43mila del 2013, per arrivare agli oltre 170mila del 2014. Al termine del 2015 il numero di sbarchi dovrebbe confermarsi di poco superiore a quello dell’anno scorso, e comunque difficilmente supererà la cifra di 175mila. L’assunto è confermato dai numeri più aggiornati forniti dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione in una recente audizione: i 137mila sbarchi registrati sinora corrispondono a quanto rilevato per l’anno scorso nello stesso periodo.
La più importante voce di costo è quella dell’accoglienza in senso stretto, quindi il vitto e alloggio dei soggetti per cui si è provveduto all’identificazione e all’inserimento nelle liste di coloro che hanno richiesto asilo: un importo di circa 643 milioni per l’anno scorso, destinato a diventare di quasi 1,3 miliardi a fine 2015. Questi costi sono in notevole aumento poiché un numero di sbarchi elevato come quello registrato negli ultimi due anni conduce ad un maggiore affollamento delle strutture. Le procedure per l’accoglienza dei migranti non sono così rapide da controbilanciare l’afflusso più corposo di profughi, e le presenze nei centri tendono di conseguenza ad aumentare. L’ondata del 2014 ha quasi quadruplicato, tra gennaio a dicembre, le presenze dei migranti che sono passate da 17mila a oltre 65mila. Considerando anche i dati ministeriali diffusi a più riprese nel 2015, stimiamo in oltre 109mila presenze il dato tendenziale prevedibile per dicembre e in circa 87mila quello medio dell’anno. Tali numeri si riferiscono a tutto il sistema delle strutture di accoglienza: sia quelle governative come la rete Sprar e i Cara, sia quelle in convenzione come i Cas. Per il 2016 è ancora molto presto azzardare delle previsioni ma se il trend non si inverte e gli afflussi proseguono agli stessi ritmi, c’è il rischio che la media delle presenze superi quota 120mila, con un possibile aggravio di spesa pari a circa 480 milioni di euro.
Abbiamo stimato infatti che il costo medio di questi centri sia pari a 40 euro al giorno pro capite, considerando un importo leggermente superiore a quello solitamente comunicata dal Ministero (35 euro) ma vicino al riferimento preso da altre stime come quella della Fondazione Leone Moressa per l’accoglienza in Veneto, e che appare comunque prudenziale tenendo presente una serie di aspetti. Bisogna ricordare ad esempio che i costi delle strutture alberghiere o altre strutture private e convenzionate esterne al sistema pubblico sono per forza di cose superiori, ed è proprio a causa della saturazione della rete Sprar che su queste strutture si concentra la gestione delle emergenze. Inoltre, il costo sanitario e amministrativo per i minori non accompagnati risulta sensibilmente più elevato. Ma ci sono anche gli aspetti riguardanti i possibili appalti gonfiati sotto inchiesta, che potrebbero aver contribuito ad un conto ancor più salato a danno dei contribuenti.
Di per sé gli sbarchi generano anche dei costi per la primissima assistenza (trasporti, noleggio strutture presso i porti, acquisto di coperte, indumenti, scarpe etc.) che potrebbero essere stimati in 168 euro a sbarco (circa 29 milioni all’anno in totale), sulla base dei dati forniti ad esempio dalla Prefettura di Siracusa per la gestione dell’emergenza 2014.

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A questi costi occorre aggiungere le spese sanitarie. Il conto preciso, in questo caso, diventa ancor più difficile. Secondo lo studio di ImpresaLavoro, il costo complessivo per il 2015 risulterebbe pari a quasi 290 milioni di euro, in aumento di circa 20 milioni rispetto al 2014 e con un potenziale aggravio di altri 12 milioni per il 2016. Tali costi non riguardano solamente gli ospiti dei centri di accoglienza provenienti dagli sbarchi (che stimiamo incidere quest’anno per non più di 35 milioni di euro), ma anche tutte le persone entrate clandestinamente in Italia e che stanno per ragioni diverse sul territorio del nostro stato. Non è semplice catturare i numeri di tale fenomeno, per il quale esistono ipotesi diverse: l’OCSE li ha stimati nel 2010 per una cifra che poteva arrivare sino a 750mila, la Caritas si spingeva fino ad 1 milione. Come riferimento per lo studio, si è scelta la stima di 651mila operata dalla Commissione Europea per il progetto “CLANDESTINO”. Il costo pro capite dei trattamenti sanitari a loro favore è altresì caratterizzato dall’assenza di sistemicità nella sua rilevazione. La nostra stima si è allineata ai report locali più autorevoli, seppur datati, che fanno propendere per un costo medio di 391 euro annui (Azienda Sanitaria di Milano), e comunque quantificabile nello 0,3% della spesa sanitaria complessiva (Agenzia Regionale Sanitaria Marche).
Oltre a questo si devono conteggiare le spese di giustizia. I richiedenti asilo sono una piccola parte del totale dei soggetti che sbarcano nel nostro paese. Tuttavia le richieste di asilo, al pari di qualsiasi atto amministrativo, richiedono un’istruttoria da parte delle autorità competenti e, soprattutto, possono essere impugnate. Secondo i dati riportati da Domenico Manzione, le domande già esaminate nel 2015 sono state 61mila, con un incremento del 30% rispetto all’anno scorso. È ipotizzabile, sulla scorta delle statistiche fornite per il passato dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo, che a fine anno gli esiti di diniego superino le 35mila unità, con la concreta possibilità di 23mila ricorsi attivati dai migranti. Ciò condurrebbe secondo le nostre stime a un ulteriore impatto di 59 milioni di euro, dovuti per le spese amministrative relative alle singole pratiche nonché quelli per il gratuito patrocinio.
Vi sono poi tutta una serie di costi correlati che ImpresaLavoro ha raccolto in una voce residuale di un importo pari al 5% dei costi generali per l’accoglienza, bassato sul valore di compartecipazione che i comuni attraverso l’Anci hanno stabilito per la messa in funzione del sistema Sprar/Cara. In questa voce s’intendono compresi costi come quelli sostenuti dagli enti locali per la sistemazione delle aree adibite all’accoglienza, la gestione degli arrivi dei profughi nei comuni, i costi di sicurezza, il costo della popolazione carceraria immigrata irregolare e quello dei relativi rimpatri. Nei primi otto mesi dell’anno sono stati allontanati dall’Italia quasi 10mila immigrati, respinti alla frontiera o espulsi e che si sono organizzati oltre mille voli charter. A questi vanno aggiunti i 486 arresti di scafisti. Un lavoro di questo tipo non interessa solo le coste siciliane ma anche i confini a nord con il fenomeno dei passeur e più in generale i molti controlli tra gli stranieri che si devono fare sul territorio.
Ad essi devono ancora sommarsi i costi militari, determinabili in almeno 400 milioni, che comprendono i costi per il pattugliamento delle coste, il rafforzamento delle frontiere, le missioni navali e aeree, i contributi italiani alle missioni Frontex e EuroForNavMed.
Il conto complessivo per il 2015 dei costi dell’emergenza migranti dovrebbe arrivare dunque, secondo lo studio di ImpresaLavoro, a 2,1 miliardi di euro, in aumento rispetto agli 1,4 miliardi spesi nel 2014. Per il 2016 invece, ipotizzando un numero di sbarchi paragonabile a quello registrato negli ultimi due anni, il costo potrebbe superare la cifra di 2,6 miliardi. La stima è per difetto: tutte le voci di costo sono state quantificate con cautela e nel complesso, del resto, non raggiungono la quota massima dello 0,2% del Pil (3,1 miliardi) comparsa nella nota di aggiornamento del Def 2015 pubblicata il mese scorso. Davanti a questo scenario, comunque, è chiaro che le somme promesse dall’Europa all’Italia per l’emergenza (circa 73 milioni di euro all’anno fino al 2020), non sembrano poi così elevate.

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Gli investimenti italiani all’estero

Gli investimenti italiani all’estero

di Paolo Ermano

Una nuova invasione?
Negli ultimi anni, probabilmente a causa delle paure suscitate dalla crisi economica, gli organi d’informazione nazionali hanno più volte riportato notizie di aziende straniere che facevano “shopping”, questo è il termine comunemente utilizzato, nel nostro Paese, comprandosi imprese rilevanti del panorama economico italiano. L’effetto percepito dalla cittadinanza è stato quello di una sorta di colonizzazione economica: le imprese di paesi considerati fino all’altro giorno poveri, Cina o India, o di paesi troppo forti con cui confrontarsi, come la Germania, erano rappresentate come invasori, quasi a voler risvegliare l’atavica paura di un popolo che dalla fine dell’impero Romano ha troppe volte subito il dominio altrui.
I recenti casi, molto eclatanti, di Pirelli acquisita da China National Chemical Corporation e di ItalCementi venduta al gruppo tedesco Heidelberg Cement, hanno riacceso la polemica sul presunto colonialismo straniero verso le imprese italiane.
E’ il caso di sottolineare che l’immagine di un Paese colonizzato non solo non risulta veritiera, in quanto gli italiani sono, in questi termini, più colonizzatori che colonizzati, ma il fatto che aziende straniere investano nelle nostre imprese può anche essere un ottimo segnale per il sistema Paese.
L’Italia che compra
Se andiamo ad analizzare in prospettiva storica l’impatto degli IDE, gli investimenti diretti all’estero, scopriamo un’Italia più predatrice che preda. Gli IDE quantificano l’investimento di un’azienda con base nel Paese A verso un’azienda posta nel Paese B. Si possono identificare due tipologie di IDE: l’acquisizione di quote azionarie di un’impresa o un processo di acquisizione o fusione fra due imprese.
Come si può vedere dalla seguente figura , fin dagli anni ’90 il flusso in uscita dalle aziende italiane verso l’estero è sempre stato superiore al flusso in entrata: le imprese italiane investono le proprie risorse per acquisire il controllo, parziale o totale, di aziende straniere in misura maggiore di quanto accada per le imprese estere nel nostro paese.
Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %)

Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %). Fonte: Bankitalia

 

Dopo un allineamento nei primi anni 2000, la situazione è migliorata, dal punto di vista delle imprese italiane che fanno “shopping” all’estero, dal 2008, con l’inizio della crisi: mentre il flusso in entrata si stabilizzava rispetto al PIL (che ricordiamo è sceso dal 2008 al 2014), il flusso in uscita cresceva in termini di PIL del 10% circa. E’ interessante notare la composizione degli investimenti, sia in termini di settore, che di destinazione geografica, come emerge dalla tabella 1:
Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

 

In termini di stock di investimento, il peso del settore manifatturiero scende, dal 30% circa al 20%, per lasciare maggior spazio agli investimenti nel settore dei servizi e costruzioni, con particolare interesse verso i servizi finanziari e assicurativi, che nel 2010 rappresentavano il 54% dell’intero stock di IDE, pari a poco meno di 200 miliardi di euro su un totale di 366 miliardi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione di Unicredit sul territorio europeo per avere un’idea di cosa si intenda con IDE nell’ambito dei servizi finanziari. Infine, come si può osservare nella tabella 2, la forbice fra gli stock di IDE in uscita e in entrata nel nostro Paese è aumentata considerevolmente dal 2005 a oggi, passando da un valore positivo di circa 6 miliardi a 143 miliardi. A titolo di esempio, ricordiamo che l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina vale 7,1 miliardi, 1/20 della suddetta forbice.
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Per dare maggiore consistenza ai numeri riportati nella tabella 2, ricordiamo che stiamo parlando di 30.351 imprese nel mondo con un fatturato complessivo di oltre 560 miliardi di euro, che danno lavoro a oltre 1,5 milioni di dipendenti (dati 2013) e sono diffuse in oltre 160 Paesi: il 52% dislocate nei Paesi dell’UE-27, un 10% in altri Paesi europei, un altro 19% tra Nord America (11%) e Sud America (8%).
Chi investe in Italia?
L’altra questione rilevante è comprendere quali aziende investono in Italia: quali sono i settori coinvolti, quali la loro origine geografica, quali le conseguenze sul sistema Paese? Nel 2013 in Italia 9.367 imprese erano partecipate da aziende estere, occupando poco più di 915.000 dipendenti, per un fatturato complessivo poco al di sotto di 500 miliardi di euro, circa 1/3 del PIL italiano. Le imprese estere interessate al nostro mercato provengono per il 60% da Paesi dell’UE-27, per un altro 20% dal Nord America e solo per l’8% dai Paesi asiatici: in generale, è geograficamente molto più ampia la distribuzione geografica delle imprese italiane con partecipazioni all’estero che viceversa. Non dimentichiamoci che sono Paesi nostri alleati storici quelli da cui provengono la maggior parte delle imprese che investono in Italia. Un altro aspetto da rilevare è l’interesse che le imprese estere hanno per il meglio dell’imprenditoria italiana. Secondo il rapporto dell’ICE “Italia Multinazionale 2014”, il valore aggiunto medio per dipendente delle imprese a partecipazione estera nel 2012 era pari a €114.500, contro una media per le imprese italiane con più di 20 dipendenti (quindi, escludendo molte PMI) era pari a €74.300: una discrepanza «coerente con la teoria e le verifiche condotte internazionalmente circa le superiori prestazioni delle filiali delle [imprese multinazionali] rispetto alle imprese domestiche, grazie alle maggiori competenze, tecnologie, capacità manageriali e ai vantaggi di scala e di network» . In sostanza, quando l’Italia attira IDE lo fa in forza della sua capacità competitiva e non in quanto preda da cui spolpare delle risorse. Per di più, il knowhow che si può acquisire dal diretto contatto con imprese estere è un’opportunità che dovrebbe essere colta e non vista come possibile minaccia.
Criticità
Alcune considerazioni finali. La letteratura economica evidenza 4 motivi per cui un’impresa dovrebbe investire all’estero: primo, ricercare vantaggio in termini di costo di produzione, per esempio grazie a manodopera a basso costo; secondo, avvicinarsi ai clienti nei mercato, superando barriere doganali e riducendo i costi di trasporto; terzo, assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime o risorse scarse; quarto, investimenti volti ad acquisire brevetti, tecnologie, conoscenze. Gli IDE dall’estero verso l’Italia rispondono a 2° e al 4° motivo: siamo un mercato interessante per le aziende straniere e un sistema ricco di competenze. Mantenere vivo l’interesse verso gli IDE dall’estero, il famoso “shopping”, può implica sia ravvivare il mercato italiano, sostenendo ad esempio la domanda interna, sia arricchire ancor di più il sistema di personale qualificato e di aziende competitive: non è un caso che il Paese col più alto stock di IDE in entrata rispetto al totale degli IDE sia gli Stati Uniti (17,2% nel 2012). Casomai, l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe orientarsi su come favore le imprese italiane nell’acquisizione di partecipazioni all’estero. Ricorda la Banca d’Italia che le aziende che investono in partecipazioni all’estero risultano essere in termini di valore aggiunto in media 3 volte più grandi delle aziende esportatrici e 5 volte più grandi di quelle orientate al solo mercato interno . Se vogliamo continuare a essere investitori attivi e non vittime della globalizzazione, la chiave è sempre e solo una: investire in capitale umano, in conoscenza, in efficienza del sistema produttivo.
Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 126esimo su 140 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello del Marocco, di El Salvador e dell’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base degli dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2015-2016” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act ha avuto un impatto certamente positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: lo stesso rapporto segnala, infatti, che proprio grazie alla riforma del mercato del lavoro la competitività complessiva dell’economia italiana migliora. L’efficienza del nostro mercato del lavoro migliora a livello mondiale di dieci posizioni in un anno, passando dalla 136esima alla 126esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua ad essere il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa.
Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 127mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Svezia). Siamo invece al 134esimo posto al mondo e terz’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 131esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa soltanto la Slovenia fa peggio di noi sia per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro sia per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo 119esimi nel mondo e ultimi in Europa per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non invece a criteri poco trasparenti (amicizia, parentela, raccomandazione) mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (113esimi nel mondo e 22esimi in Europa) e di attrarre talenti (115esimi nel mondo e 20esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”- ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero e abbiamo visto come modifiche che si applicano solo ai nuovi assunti, quindi ad una platea tutto sommato ristretta, abbiamo già generato un positivo effetto sulla nostra competitività. Con più coraggio si sarebbe potuto estendere la nuova disciplina anche ai contratti in essere e al pubblico impiego, avvicinando il nostro mercato del lavoro a quello dei paesi più avanzati e dinamici. Ora – conclude Blasoni – è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza”.
Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha fatto registrare in Europa il maggior aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil: una crescita del 4,24%, passando dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. Lo rivela un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati forniti dalla Commissione europea.

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Subito dopo di noi, in questa particolare classifica, compaiono il Portogallo (aumento del 4,15%), la Grecia (+4,05%, anche se il primo dato disponibile è datato 2006), Malta (+3,06%) e l’Estonia (+2,87%). Decisamente migliore la performance registrata in questo decennio anche da alcuni nostri principali competitor continentali, che hanno anch’essi aumentato la loro pressione fiscale ma in termini decisamente più contenuti: Francia (+2,78%) e Germania (+1,06).
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Nello stesso periodo di tempo diversi altri Paesi hanno invece imboccato una diminuzione della pressione fiscale in rapporto al proprio Pil: Regno Unito (-0,91%), Danimarca (-1,04%), Lituania (-1,16%), Irlanda (-1,17%), Slovenia (-1,97%), Spagna (-2,10%), Bulgaria (-2,27%) e Svezia (-2,64%).
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“Nel 2015 – ha commentato il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro Massimo Blasoni – la Commissione Europea segnala una timida inversione di tendenza, con la pressione fiscale in leggera diminuzione. E’ però ancora troppo poco perché lo sguardo su questi ultimi dieci anni segnala un’espansione del prelievo fiscale che non ha pari nel resto d’Europa e tra le grandi economie. In termini reali la stretta fiscale di questo decennio vale circa 70 miliardi di euro su base annua: un autentico salasso per imprese e famiglie”.
21 settembre: la promessa mancata

21 settembre: la promessa mancata

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Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato i 75 miliardi di euro di debiti (fonte Bankitalia) che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013.
Questo debito è stato liquidato solo in parte e poiché tali beni e servizi vengono forniti di continuo alla Pa, si è ricostituito nel 2014 uno stock di debito commerciale di 70 miliardi di euro (fonte Bankitalia). Quest’anno il trend è rimasto sostanzialmente inalterato, con un debito che attualmente viene stimato in circa 67 miliardi. Fino a quando non si interverrà in maniera strutturale sui tempi di pagamento, il problema resterà quindi insoluto costando alle imprese creditrici più di 6 miliardi di euro all’anno in anticipazioni bancarie.
Oggi è San Matteo. E per il secondo anno di seguito, Renzi non si recherà in pellegrinaggio per espiare la promessa mancata. Le imprese italiane intanto continuano ad aspettare.
Mercato online, Italia fanalino di coda in Europa. La Digital Tax non è una buona notizia

Mercato online, Italia fanalino di coda in Europa. La Digital Tax non è una buona notizia

Soltanto il 5,34% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi. Una performance che è pari a un terzo della media europea (15,18%) e che ci colloca all’ultimo posto in questa particolare classifica dell’Europa a 28 membri. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su dati forniti dalla Commissione europea. Al primo posto nell’utilizzo commerciale della Rete si collocano le imprese della Repubblica Ceca (26,54%), della Danimarca (26,36%) e della Croazia (26,28%). Rispetto ai loro principali competitor, le aziende italiane perdono nettamente il confronto anche con le imprese irlandesi (24,20%), tedesche (22,59%), britanniche (19,80%), spagnole (16,65%), francesi (11,76%) e greche (9,19%).
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In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono soltanto il 7% del totale. Peggio di noi in Europa fanno solo Romania, Bulgaria e Grecia. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (15,07%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19,8%), Francia (15,2%) e Germania (12,7%). Su tutti spicca comunque il dato dell’Irlanda (52,97%), anche per effetto diretto della presenza a Dublino e dintorni dei grandi colossi dell’informatica.

venditeonline

In questo contesto, anche solo la ventilata ipotesi di una Digital Tax rischia di scoraggiare ulteriormente la nascita e l’arrivo sul nostro territorio di imprese di commercio online. Elaborando i dati Eurostat, si osserva ad esempio come al settore ICT appartengano soltanto il 2,56% delle imprese nate in Italia nel 2013, per un totale di 8.700 nuovi posti di lavoro. Mentre nel Regno Unito, in quello stesso anno, sono state invece l’8,38% per complessivi 44mila nuovi occupati.

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