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Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

NOTA

Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi e Letta. Lo dimostra una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione.
Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. Un risultato nettamente peggiore rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro. Peggio dell’ex sindaco di Firenze ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila. In tema di disoccupazione generale, quindi, chi ha fatto meglio nei suoi primi nove mesi è abbastanza nettamente il Governo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta.

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Anche in tema di disoccupazione giovanile, Berlusconi riesce a far meglio di tutti gli altri governi: nei primi nove mesi del Berlusconi IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del Governo Monti.

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L’altro elemento storicamente debole nel nostro mercato del lavoro è quello relativo al numero di donne senza occupazione. Nei suoi primi nove mesi il Governo Berlusconi riesce addirittura a ridurre la disoccupazione “rosa” di 31mila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne senza lavoro sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne fa segnare uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

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Dati in migliaia di persone. Elaborazione ImpresaLavoro su serie storiche ISTAT su disoccupazione
PERIODI CONSIDERATI:
* per governo Berlusconi: Aprile 2008 e Gennaio 2009
**per governo Monti: Ottobre 2011 e Luglio 2012
***per governo Letta: Aprile 2013 e Gennaio 2014
****per governo Renzi: Febbraio 2014 e Novembre 2014
 
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Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

NOTA

Durante gli anni della crisi la disoccupazione in Italia è raddoppiata (passando dal 6,1% del 2007 al 12,2% del 2013) e si è anche accresciuto il divario esistente tra le diverse zone del Paese. Se nel 2007 la differenza tra la regione con la migliore occupazione (Provincia Autonoma di Bolzano) e quella con la peggiore (Sicilia) era di 10,4 punti percentuali, oggi tra il mercato del lavoro migliore (sempre Bolzano) e quello peggiore (Calabria) ci sono 17,8 punti di disoccupazione di differenza. Lo rivela un’analisi dell centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
A reggere meglio l’impatto della crisi sono state le regioni del Nord Est. Rispetto al 2007 la Provincia di Bolzano ha aumentato i suoi disoccupati solo dell’1,8% seguita da Trento (+3,7%) e da Veneto e Friuli Venezia Giulia (+4,3%). Va molto peggio al Sud: la Calabria passa dall’11,2% al 22,2% (+11%), la Campania dal 11,2% al 21,5% (+10,3%), la Puglia dall’11,2% al 19,8% (+10,3%).

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Sono senz’altro i giovani ad aver subìto fin qui i maggiori effetti della crisi: la percentuale di soggetti tra i 14 e i 25 anni privi di occupazione è infatti passata in Italia dal 20,3% del 2007 al 40% del 2013, raddoppiando praticamente in tutte le regioni italiane. Vanno meglio della media nazionale il Friuli Venezia Giulia che passa dal 14,5% al 24,2% (+9,7%), la Sicilia che passa dal 37,2% al 53,8% (+16,6%) e il Veneto che dall’8,4% del 2007 (miglior dato nazionale) finisce al 25,3% (+16,9%). Anche in questo caso si acuisce il divario tra Nord e Sud. Nel 2007 la differenza tra la regione migliore (Veneto) e quella peggiore (Calabria) era di 23,2 punti percentuali. Oggi tra il Friuli Venezia Giulia, regione italiana con il minor tasso di disoccupazione giovanile, e la Basilicata (ultima con il 55,1% di disoccupazione under 25) esiste un distacco del 30,9%.

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Va invece sottolineato come la disoccupazione femminile sia cresciuta con percentuali decisamente inferiori rispetto alla disoccupazione giovanile e in misura leggermente inferiore anche al tasso di disoccupazione generale. Particolarmente interessante è in questo caso il dato della Basilicata che, nonostante un dato comunque molto alto (14,8%) vede calare – è l’unico caso in Italia per qualsiasi tipo di indicatore – il numero di donne disoccupate rispetto al periodo prima della crisi (erano il 15,3%). La media italiana vede questo indicatore peggiorare di 5,2 punti percentuali passando dal 7,9% del 2007 al 13,1% del 2013. La percentuale di donne senza lavoro è molto più alta al Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia tutte sopra il 20%) che al Nord. E la situazione continua purtroppo a peggiorare: Puglia, Calabria e Campania sono infatti le tre regioni in cui l’occupazione femminile ha pagato il prezzo più alto, con il tasso di disoccupazione che è cresciuto tra il 7,8 e il 9,2%.
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Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

Crisi: i rubinetti delle banche sono sempre più chiusi, da gennaio 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70,7 miliardi

NOTA

Nonostante il perdurare della crisi economica, i rubinetti delle banche italiane continuano a restare sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi “ImpresaLavoro” su elaborazioni di dati Bankitalia.
Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridotto il loro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione, così ripristinando almeno parzialmente i livelli di credito pre-crisi».

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Il Tempo
Mercato delle costruzioni in Italia e in Europa

Mercato delle costruzioni in Italia e in Europa

REPORT

La tassazione sugli immobili in Italia (fonte: Confedilizia) passa nel periodo 2011-2014 dai 9,2 miliardi di euro del gettito ICI ai 28 miliardi del gettito IMU-TASI facendo segnare un aumento del 204% in 4 anni. A risentire maggiormente di questo inasprimento fiscale è il mercato delle costruzioni che fa segnare negli stessi anni un crollo verticale di tutti i suoi indicatori: si tratta di dati così negativi da non poter essere giustificati solamente dalla crisi economica da cui il nostro paese fatica ad uscire. «Ad incidere, con ogni evidenza – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ci sono i provvedimenti che i governi che si sono succeduti (Monti, Letta, Renzi) hanno adottato e che hanno finito per trasformare la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”. Così, a un prolungato blocco del mercato immobiliare (che solo adesso sembra registrare tenui segnali di risveglio) è corrisposto quello ben più pericoloso dell’intero comparto delle costruzioni che fa segnare performance che ci pongono agli ultimi posti in Europa, molto distanti da quanto accade nelle principali economie mature con cui giornalmente ci confrontiamo».

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Produzione nel settore delle costruzioni
L’indicatore rappresenta l’andamento del valore aggiunto complessivo, depurato dell’inflazione, del settore costruzioni. In buona sostanza misura l’andamento del valore della produzione nel settore e la sua variazione rispetto al 2011. L’Italia fa segnare un arretramento di quasi il 30%: in Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia fanno peggio e tutti i nostri principali competitor segnalano dati nettamente più positivi. La Francia arretra solo del 5,1%, il Regno Unito del 3,2% mentre la Germania registra un, seppur lieve, incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18.9%. Desta soprattutto impressione che il dato italiano risulti sei volte peggiore di quello registrato dalla media dei Paesi dell’Europa a 27: -29,3% contro -5%.

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Production in costruction, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

Ore lavorate
Crollano conseguentemente anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni quasi un terzo in meno delle ore rispetto al 2011, con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. In Europa solo Cipro (-42,60%), Portogallo (-35,30%) e Croazia (-30,90%) hanno registrato un dato peggiore del nostro. Tutti i nostri principali competitor segnalano invece dati nettamente più positivi. La Francia arretra solo del -4,20% mentre le ore lavorate addirittura aumentano in Irlanda (+16,50%), nel Regno Unito (+3,70%), in Spagna (+ 1,40%) e in Germania (+0,90%). In particolare va sottolineato come il dato italiano risulti quasi cinque volte peggiore di quello della media dei Paesi dell’Europa a 27 (-28,90% contro -6,10%).

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Labour input in construction, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

Permessi di costruzione
A trainare verso il basso il nostro mercato delle costruzioni c’è certamente l’andamento dei permessi di costruzione richiesti per l’edificazione di nuove residenze civili: il suo numero, rispetto al 2011, si è più che dimezzato facendo registrare un preoccupante -63%. In Europa solo Cipro (-72%), Grecia (-68%) e Portogallo (-66%) hanno registrato un dato peggiore del nostro. Ma in generale è l’intera Europa ad andar male rispetto a questo indicatore, anche se con proporzioni completamente diverse e con una media nei cali di richieste di permessi di costruzione che si assesta al 20% tra i 27 Paesi dell’Unione. Alcune grandi economie riescono comunque, nonostante tutto, a crescere a ritmi sostenuti anche in questo comparto: rispetto al 2011, i permessi di costruzione richiesti crescono in Germania del +19% e nel Regno Unto addirittura del +27%.

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Building permits, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

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Il Giornale

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

ABSTRACT

La spesa per ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi). Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento a cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi annui, una quota appena inferiore ai 4 costituisce formalmente la contribuzione a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 600 milioni circa sono le entrate (a carico delle imprese) a copertura dell’indennità di mobilità, mentre la restante parte è destinata all’indennità di disoccupazione e alle neonate ASPI e mini-ASPI. Le uscite eccedenti (nulle nel 2007) vanno a carico della fiscalità generale: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013 (38,1 miliardi la spesa del triennio 2011-2013).
Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono ad un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso; inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Il paper analizza nel dettaglio i costi complessivi del sistema, le modalità con cui essi vengono finanziati, separando il contributo a carico delle imprese da quello a carico della fiscalità generale, ed inoltre analizza la struttura degli strumenti attivati ed alcuni principi e ipotesi di una loro riforma.
Scarica il Paper di ImpresaLavoro: Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia
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Libero
Il Fatto Quotidiano
Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

Debiti PA: lo stock complessivo del debito resta invariato

NOTA

Sbaglia chi pensa che in questi giorni la pubblica amministrazione stia finalmente riducendo in tutto o in gran parte i suoi cospicui debiti nei confronti delle imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Ogni giorno infatti, le imprese che lavorano con la PA consegnano i beni ed erogano i servizi richiesti; ogni giorno, le imprese incassano i crediti per le forniture chiuse in passato.
Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.
Nel caso concreto, stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa.
Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto.
Già su questa cifra occorre dire che ImpresaLavoro, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40, fonte: http://www.mef.gov.it/primo-piano/article_0118.html), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta.
Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente.

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Il Tempo
La Notizia
CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

NOTA

Si può essere più o meno d’accordo sulla necessità di tenere in vita il CNEL, che verrebbe ‘soppresso’ nel disegno di legge costituzionale approvato dal Senato e tra breve all’esame della Camera. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 del disegno di Legge di Stabilità contiene misure che ne rendono impossibile il funzionamento poiché prescrive che «l’espletamento di ogni funzione connessa alla carica di Presidente o Consigliere del CNEL così come da qualsiasi attività istruttoria finalizzata alle deliberazioni del Consiglio non può comportare oneri a carico della finanza pubblica ad alcun titolo».
Non solo vengono eliminate le indennità (circa 25.000 euro lordi l’anno per consigliere) ma anche i rimborsi dei viaggi per i consiglieri che risiedono fuori Roma. In questo modo si rende impossibile il raggiungimento del numero legale nelle Commissioni ed in Assemblea. Al limite sarebbe vietato anche accedere la luce. Appare davvero molto dubbia la costituzionalità di una norma che rende impossibile il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale.
Al tempo stesso, però, il Segretariato generale e l’ottantina di dipendenti attualmente in organico resterebbero comunque a Villa Lubin. Non è chiaro a fare cosa. È invece chiarissimo che in questo modo, ‘risparmiando’ solo un milione di euro del bilancio annuale del CNEL, andrebbero sprecati i restanti 12 milioni. Non sarebbe meglio sopprimere questo comma della Legge di Stabilità e procedere invece speditamente con la riforma costituzionale che prevede anche la soppressione del CNEL?
Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

ABSTRACT

Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte.
Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea. L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi.
Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.
Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Complessivamente, dall’inizio del programma, sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.
Scarica il Paper “Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro“.
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Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

NOTA

A meno di improbabili miracoli economici, nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (basti ricordare come nel Def il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan avessero addirittura ipotizzato per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che, fermo restando le condizioni attuali dell’economia italiana, anche nel 2015 il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto, facendo registrare uno scostamento negativo dello 0,5% tra crescita preventivata e crescita reale.
«Questo dato – osserva il presidente del Centro studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dei tagli di spesa previsti dal Governo Renzi».
Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

NOTA

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. Innanzitutto un miglior rapporto tra Debito e Pil, che passerebbe dal 131.6% al 127.9% e in secondo luogo un miglioramento del rapporto tra Deficit e Pil che si assesterebbe al 2.9% allontanandosi dalla soglia limite del 3%.
Non si tratta di un mero esercizio contabile perché gli investitori e gli osservatori internazionali guardano il dato numerico del nostro debito e dei suoi rapporti con il Prodotto Interno Lordo e non analizzano la “bontà” di quel debito e la natura che lo ha generato. Senza considerare che, volendo lasciare invariato l’equilibrio tra disavanzo e prodotto interno lordo, si libererebbero 2,16 miliardi di risorse disponibili derivanti da minore spesa per interessi da destinare ad altre finalità.
«Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma sarebbe altrettanto importante che, al rigore necessario, si applicasse una buona dose di buonsenso: non si può ignorare il fatto che l’Italia, con un debito pubblico consistente e una ripresa difficile da agganciare, stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

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