Studi
Ogni anno di durata dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti di disoccupazione
Redazione Studi contenziosi, giustizia, impresalavoro, lavoro
NOTA
La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato in settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo l’FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario è infatti ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.
La lunghezza delle cause fino al secondo grado di giudizio (a livello nazionale la media è di 2 anni e 2 mesi) è stimata da “ImpresaLavoro” sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia e secondo le formule indicate dallo stesso dicastero. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, si sono considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari negli anni 2009-2012: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2013.
L’analisi di “ImpresaLavoro” mostra come ogni anno di lunghezza dei processi di lavoro costi in media ben 4,8 punti di disoccupazione. Il divario tra distretti più e meno virtuosi è ampio a tal punto che si va dai 9 mesi di Torino (con un tasso di disoccupazione dell’11,4%) ai 4 anni e 3 mesi di Messina (con il 21,9% di disoccupazione). A Trento, dove la disoccupazione è più bassa (6,6%) il tempo medio delle cause per lavoro è di 11 mesi, mentre a Napoli (che ha il 25,8% di disoccupazione) è di quasi 3 anni. È importante infine sottolineare che, secondo le ricerche di “ImpresaLavoro”, a incidere in modo così negativo sulla disoccupazione non sarebbe in modo generico la lunghezza dei processi civili nella loro interezza ma bensì, come del resto è comprensibile, in modo specifico proprio quella dei processi per i contenziosi in materia di lavoro.
Rassegna Stampa:
Metronews
Lavoratori stranieri in Italia: dal 2005 al 2013 le rimesse ai paesi d’origine hanno sfiorato i 54 miliardi di euro
Redazione Studi immigrazione, lavoro, rimesse immigrati, trasferimenti
Dal 2005 al 2013 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole (e per certi versi sorprendente) di quasi 54 miliardi: per la precisione 53.893.978.000 euro.
Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai circa 7,3 miliardi del 2011 ai circa 6,8 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai circa 5,5 miliardi del 2013 (-19,4%). Quanto al 2014 le rimesse finora effettuate da gennaio a giugno ammontano a circa 2,6 miliardi di euro (per la precisione a 2.596.987.998 euro).
Limitatamente al 2013, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1.178.434.000 euro trasferiti nei rispettivi Paesi d’origine), nel Lazio (1.058.866.000 euro), in Toscana (603.734.000 euro), in Emilia-Romagna (443.460.000) e in Campania (330.618.000 euro).
Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro Studi “ImpresaLavoro” (che contempla cittadini di 197 nazionalità differenti) risulta che nei primi sei mesi del 2014 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (72.772.334 euro) e cinesi (69.681.999 euro). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Bangladesh (27.489.667 euro), dalle Filippine (26.827.167 euro), dal Marocco (19.988.166 euro), dal Senegal (17.873.667 euro), dall’India (17.629.667 euro), dal Perù (15.540.333 euro), dallo Sri Lanka (14.483.167 euro) e dall’Ucraina (12.933.667 euro).
Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria da gennaio a giugno scorso: al primo posto della classifica risultano gli spagnoli (3.475.333 euro), seguiti da francesi (2.332.000 euro), tedeschi (2.256.333 euro), britannici (1.739.667 euro) e greci (1.038.333 euro). Osservando nel dettaglio questa classifica, si osserva infine come i lavoratori provenienti dalla Federazione russa si collochino al 24° posto (con 3.359.500 euro trasferiti in patria) subito prima di quelli provenienti dagli Stati Uniti d’America (con 2.733.833 euro).
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Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale
Redazione Studi crescita, def, economia, finanza, giuseppe pennisi, governo, impresalavoro, pil
Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.
La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.
Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno
Redazione Studi busta paga, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni, tfr
NOTA
I 100 euro in più al mese in busta paga prospettati dal presidente del Consiglio Matteo Renzi rappresenterebbero per le piccole e medie imprese italiane l’erogazione ai loro dipendenti del 100% del Tfr, dal momento che nel 2013 lo stipendio mensile medio percepito nelle Pmi è stato di 1.327 euro (dati del Rapporto sui salari dell’Isrf Lab/Cgil).
Se deliberata, questa disposizione colpirebbe oltre 4 milioni di imprese italiane (quelle da 1 a 49 dipendenti), costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro: in assenza di un’eventuale accordo tra Governo e Abi (la cui percorribilità è ancora tutta da dimostrare), a tanto ammonterebbe infatti il costo degli interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie.
Come si arriva a questa cifra? L’assorbimento di capitale comporta un costo che corrisponde al prezzo del reperimento delle risorse finanziarie corrispondenti: tale è definito in finanza come “costo del capitale”, e viene espresso attraverso un tasso di rendimento annuo. I dati Banca d’Italia ci dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto trimestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8.94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro (la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, dati Covip-Istat), le aziende finirebbero per sostenere oneri finanziari per appunto 876 milioni di euro su base annua.
Vi è inoltre da considerare il caso delle imprese che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore. Non va infine dimenticato come l’anticipazione del Tfr in busta paga comporterebbe per le piccole e medie imprese un’ulteriore riduzione della loro capacità di accesso al credito per la gestione ordinaria e per nuovi investimenti.
«Un sistema già stremato dall’alta tassazione e molto spesso dal ritardo con cui la Pubblica Amministrazione paga i suoi debiti commerciali e fiscali – commenta il presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – si troverebbe a dover finanziare con proprie risorse la redistribuzione fiscale immaginata dal Governo. Per mettere più soldi nelle buste paga dei lavoratori c’è una sola soluzione: quella di ridurre sensibilmente il cuneo fiscale e contributivo, evitando di utilizzare le nostre piccole imprese come un bancomat».
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Il Giornale
Libero
Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa
Redazione Studi europa, fisco, impresalavoro, istituto bruno leoni, Italia, pietro monsurrò, tasse
SINTESI DEL PAPER
L’Italia ha uno sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di quattro punti di PIL, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente precedenti la crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata negli anni precedenti, ma le entrate fiscali hanno continuato ad aumentare anche con la crisi. Si è infatti deciso di ridurre il deficit e rispondere alla crisi economica sul lato delle entrate anziché su quello delle uscite, che hanno continuato ad aumentare sia in termini nominali che di percentuale di PIL, anche se di poco. La classe dirigente italiana ha cioè preferito preservare l’ingente spesa pubblica anche a costo di danneggiare ulteriormente l’economia reale, contribuendo ad aggravare e prolungare la crisi. È da considerare che l’Italia è caratterizzata da un maggior peso dell’economia sommersa rispetto agli altri paesi europei considerati, e quindi a parità di pressione fiscale sul PIL complessivo (che include anche una stima del sommerso), la pressione fiscale effettiva in rapporto al PIL prodotto alla luce del sole è ancora maggiore che negli altri paesi.
Rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben quattro punti di PIL, pari a circa 65 miliardi di euro. Si noti che, anche se la Gran Bretagna ha una pressione fiscale ancora minore, nel 2012 aveva un forte deficit (oltre il 6%), quindi i dati di pressione fiscale possono essere fuorvianti, non essendo un forte deficit compatibile con la stabilità finanziaria nel lungo termine: la Gran Bretagna dovrà o tagliare la spesa o aumentare le tasse in futuro, e parte del vantaggio rispetto all’Italia potrebbe ridursi. Anche l’Italia ha un deficit superiore a quello tedesco (le cui finanze erano in pareggio nel 2012), e dunque una riduzione della pressione fiscale agli stessi livelli tedeschi richiederebbe una riduzione ancora maggiore della spesa pubblica.
La ricerca di “ImpresaLavoro”, elaborata dal fellow dell’Istituto Bruno Leoni Pietro Monsurrò, prende in considerazione anche i dati annuali di Eurostat (disponibili dal 2000 al 2012) sui diversi indici del livello di tassazione implicito (ITR) nei vari paesi europei. L’ITR è infatti il rapporto tra le entrate fiscali e la base fiscale relativa (un ITR sul consumo del 20% significa cioè che il 20% della spesa in consumi se ne va in tasse, e lo stesso vale per gli altri ITR). Analizzando ad esempio l’ITR sul lavoro, si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. Inoltre c’è stato un notevole peggioramento, di circa il 2%, negli anni precedenti la crisi. Le cose non cambiano molto se si considera l’ITR sul capitale, con l’eccezione che l’Italia è superata dalla Francia, che ha aumentato molto la pressione fiscale relativa durante la crisi economica. Anche l’Italia mostra un notevole peggioramento, pari circa al 4%, successivo all’intensificarsi della crisi, superando la Gran Bretagna che nel frattempo ha invece notevolmente diminuito il carico fiscale sul capitale. Se si considera infine l’ITR sul reddito di impresa delle società individuali e dei lavoratori autonomi, l’Italia tallona la Francia ancora una volta e mostra un notevole peggioramento del livello di tassazione nell’ultimo anno, a fronte di un notevole miglioramento della Gran Bretagna. In definitiva, la pressione fiscale italiana è particolarmente concentrata sul lavoro e sul capitale, cioè sui fattori produttivi. Un dato che scoraggia l’occupazione e gli investimenti, con conseguenze sul mercato del lavoro, sulla competitività, e sulla crescita economica.
La ricerca di “ImpresaLavoro” si sofferma inoltre sui costi indiretti del sistema fiscale, ad esempio i tempi e le procedure amministrative necessari ai contribuenti per pagare le tasse. A riguardo il sistema italiano risulta particolarmente inefficiente, come evidenziato dalla classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale. Per trovare il nostro Paese occorre infatti scorrerla fino al 138° posto (con 15 procedure amministrative e 269 ore necessarie). Un dato pessimo, sopratutto se confronto con i nostri maggiori competitor europei: la Gran Bretagna si piazza al 14° posto (con 8 adempimenti burocratici e 110 ore necessarie), la Francia al 52° posto (con 7 adempimenti burocratici e 132 ore necessarie), la Spagna al 67° posto (con 8 adempimenti burocratici e 167 ore necessarie) e la Germania all’89° posto (con 9 adempimenti burocratici e 218 ore necessarie). A fronte quindi di un livello di imposizione fiscale elevato, il fisco italiano aggiunge l’ulteriore costo di compilare moduli, leggere regolamentazioni, chiedere consulenze, etc.
«Il carico e la struttura del sistema fiscale contribuiscono alla stagnazione del paese in vari modi: riducendone la competitività, costringendo a sprecare tempo e risorse in procedure burocratiche, e in definitiva riducendo gli incentivi a produrre, lavorare e risparmiare» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «Sebbene la stagnazione negli ultimi decenni e la fragilità economica messa in luce dalla crisi abbiano molteplici cause, le imposte rappresentano un fattore rilevante per le insoddisfacenti performance economiche del paese. Resta dunque prioritario riformare il sistema fiscale riducendone la complessità a parità di entrate, spostare la tassazione dal lavoro e dalle imprese ai consumi, e ridurre la pressione fiscale complessiva tagliando al contempo la spesa».
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Leggi il commento del Prof. Salvatore Zecchini.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
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La Notizia
Metronews
Il Sole 24 Ore blog
Fiducia delle imprese e dei consumatori: il dato italiano è peggiore sia della media europea che di quella dell’Eurozona
Redazione Studi consumi, fiducia, impresalavoro, imprese, istat
NOTA DEL CENTRO STUDI IMPRESALAVORO
L’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, è sceso a 86,6 dopo che in agosto era calato a 88,1 da 90,8 di luglio. Il clima di fiducia delle imprese peggiora in tutti i settori: manifatturiero, dei servizi di mercato, delle costruzioni e del commercio al dettaglio. Particolarmente pesante la caduta nei servizi e nel commercio al dettaglio. L’Istat precisa che il calo dell’indice complessivo è dovuto al peggioramento della fiducia delle imprese di tutti i settori, manifatturiero, dei servizi di mercato, delle costruzioni e del commercio al dettaglio.
Più in generale, il livello complessivo di fiducia nell’economia da parte di imprese e consumatori in Italia cade rispetto ai valori registrati a maggio 2014 di oltre tre punti e mezzo, e torna al di sotto della media storica rilevata nelle statistiche ufficiali di Eurostat.
Tra le imprese, il settore che ha ridotto maggiormente le proprie aspettative in questo periodo è stato il manifatturiero, che si mostra più pessimista sui livelli di produzione in senso stretto, dell’assunzione di personale, del livello degli ordini nonché dell’andamento delle scorte e dei prezzi di vendita. Un calo drastico ha subito anche l’indice di fiducia dei consumatori italiani, basato sulla percezione della situazione economico/finanziaria in generale, della tendenza nei prezzi al dettaglio, e della disoccupazione.
Il calo registrato nel periodo maggio-agosto 2014 dall’indicatore europeo che misura la fiducia di consumatori e imprese in Italia (-3,5%) è peggiore sia della media europea (-1,9%), che di quella dell’Eurozona (-2%). Nello stesso periodo altri paesi periferici come Grecia e Spagna hanno visto incrementare il “sentiment” dei propri operatori economici, facendo segnare rispettivamente +2,8% e +1,6%, mentre il Portogallo fa segnare nei mesi estivi un arretramento che è la metà del nostro (-1,6%). Il dato italiano è simile paradossalmente a quello tedesco (-3,7%) con un avvertimento che è dirimente: il livello complessivo della fiducia di consumatori e imprese in Germania rimane nettamente superiore sia al nostro che a quello della media storica del paese. In Europa la nostra performance da maggio ad oggi è migliore solamente di quella di Bulgaria, Ungheria, Lussemburgo e Austria.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d’Europa
Redazione Studi disoccupazione, impresa, impresalavoro, imprese, lavoratori, lavoro, occupazione
SINTESI DEL PAPER
Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.
Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.
L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore particolarmente significativo, questo, perché evidenzia quanto questi processi vengano ostacolati dal complessivo sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).
«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del nostro Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Il nostro Mercato del Lavoro è il meno efficiente d’Europa“.
Leggi il commento del Prof. Giuseppe Pennisi.
Leggi il commento del Prof. Salvatore Zecchini.
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Rainews
Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani
Redazione Studi eurostat, immigrati, immigrazione, impresalavoro, lavoratori, lavoro, stranieri
SINTESI DEL PAPER
L’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” sulla base dei dati Eurostat del 2013.
L’Italia sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59,5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. Quel che colpisce maggiormente è però il fatto che, all’interno di un mercato del lavoro così complesso, il nostro Paese sia uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Si tratta di un dato in controtendenza con tutti i maggiori Paesi dell’Europa a 28. Ad esempio il confronto tra il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%) segna un -14,7%; quello tra il tasso di occupazione dei tedeschi (78,7%) e degli stranieri residenti in Germania (65,0%) segna un -13,7%; quello tra il tasso di occupazione degli spagnoli (59,5%) e degli stranieri residenti in Spagna (52,8%) segna un -6,7%; quello tra il tasso di occupazione dei britannici (75,4%) e degli stranieri residenti nel Regno Unito (70,4%) segna un -5,0%; quello tra il tasso di occupazione dei greci (53,4%) e degli stranieri residenti in Grecia (50,3%) segna un -3,1%.
Il dato è particolarmente significativo se si osserva il confronto relativo ai cittadini extracomunitari. Solo altri tre paesi – oltre all’Italia – hanno tassi di occupazione più alti tra la popolazione extracomunitaria rispetto a quanto avviene per i propri connazionali. In Svezia il tasso di occupazione dei soggetti extracomunitari è più basso del 31% rispetto a quello degli svedesi. E il dato è molto simile anche nelle economie che sono per noi un benchmark naturale: nel Regno Unito la differenza è del 13,5%, in Germania del 20,2%, in Francia del 22%, in Spagna del 9,5%, in Grecia del 3,7%. In media, i paesi dell’Unione a 28 registrano tassi di occupazione tra i loro cittadini di circa 13 punti percentuali superiori a quelli degli extracomunitari residenti. L’Italia, come detto, fa eccezione e seppur di poco il tasso di occupazione dei cittadini extracomunitari (60,1%) supera quello dei cittadini italiani (59,5%) ponendo il nostro Paese al quarto posto in Europa, dietro soltanto a Cipro, alla Repubblica Ceca e – di pochissimo – alla Lituania.
Anche i soggetti che vengono in Italia da altri paesi UE sembrano avere una maggior capacità di collocamento rispetto ai nostri connazionali. Il tasso di occupazione degli stranieri comunitari nel nostro Paese (65,8%) è infatti di ben 6,3 punti superiore a quello dei cittadini italiani (59,5%). Davanti a noi, in Europa, ci sono solo la Polonia e la Slovacchia. Anche in questo caso, larga parte delle economie continentali avanzate riesce ad occupare meglio i propri connazionali che gli stranieri comunitari con differenziali che vanno dal 15% della Slovenia al 3,5% della Germania, passando per lo 0,5% della Francia e l’1,3% della Spagna. Fa eccezione, in questo caso, la Gran Bretagna che riscontra un tasso di occupazione tra i cittadini comunitari di quasi 4 punti superiore a quello dei sudditi di Sua Maestà.
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani“.
Rassegna stampa:
Libero
Edilizia, la crisi ha dimezzato i permessi di costruire
Redazione Studi costruzioni, crisi, edilizia, impresa, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni