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Consumi fermi, l’inflazione torna indietro al 1959

Consumi fermi, l’inflazione torna indietro al 1959

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Nel 2014 l’inflazione è ai minimi storici (+0,2%), mai così bassa dal 1959, un punto percentuale in meno rispetto al 2013. La situazione è determinata dal calo prolungato dei costi delle materie prime, soprattutto energetiche, e dei beni di importazione, che si aggiunge alla persistente debolezza della domanda di consumi delle famiglie. E se il mese di dicembre vede il tasso registrare una variazione «zero», il 2014 consegna al nuovo anno un’eredità che rischia di trascinare il 2015 in deflazione. Se i consumi sembrano ridotti all’osso, a novembre il debito pubblico, secondo Bankitalia, continua a lievitare (+2,6 miliardi) toccando i 2.160 miliardi, mentre le entrate tributarie rimangono pressoché invariate (31,3 miliardi pari al +0,4% rispetto allo stesso mese del 2013).

Volgendo lo sguardo all’area Ocse, i consumi privati hanno guidato l’incremento del Prodotto interno lordo nel terzo trimestre del 2014 (+0,6%) rispetto al periodo aprile-giugno (+0,4), in particolare nell’economia Usa (+1,2%) e in quella inglese (+0,6). Quadro ribaltato, secondo l’Ocse, in Italia: da noi, infatti, il Pil sempre nel periodo luglio-settembre 2014 ha visto una flessione dello 0,1% che segue il calo dello 0,2 di aprile-giugno. Se i consumi privati hanno fornito un limitato apporto positivo (+0,1%), le principali voci che hanno causato la contrazione della nostra economia sono stati investimenti (-0,2%), spesa pubblica e riduzione delle scorte.

Tornando alle stime preliminari dell’Istat, i prezzi dei prodotti, influenzati dal calo del costo dei carburanti, «hanno segnato forti rallentamenti nella crescita o diminuzioni in quasi tutti i comparti – spiega l’Istituto – incluso quello alimentare, caratterizzato nei tre anni precedenti da elementi di rigidità». In questo quadro di bassa inflazione, «soltanto alcuni comparti dei servizi con una forte componente regolamentata hanno continuato a sostenere l’inflazione». Per questi motivi nel 2014 il «carrello della spesa», sottolinea l’Istat, è in «netta decelerazione» rispetto al 2013: per i beni alimentari, per la cura della casa e della persona, il tasso scende addirittura in deflazione a dicembre (-0,2% dal +0,4% di novembre), mentre nella media del 2014 si registra una netta frenata al +0,3% dal +2,2% dello scorso anno. E nel 2014 un contributo importante al rallentamento dell’inflazione arriva anche dai prezzi degli alimentari lavorati. Se nel corso del 2015 si dovessero verificare variazioni congiunturali nulle, l’Istat ipotizza un’inflazione ancora con il segno negativo (-0,2%).

Consumi fermi, investimenti a picco

Consumi fermi, investimenti a picco

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

L’Istat conferma: nel terzo trimestre del 2014 il Prodotto interno lordo è rimasto in zona negativa e si è ridotto dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. La foto dettagliata del paese fornita ieri attraverso i conti economici trimestrali è perfino più scura di quanto già non si fosse capito attraverso la stima-flash. In primo luogo, infatti, la riduzione tendenziale del prodotto nei tre mesi compresi fra luglio e settembre 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è risultata pari allo 0,5% (nella stima flash si parlava di -0,4 per cento). Di conseguenza, ora, la variazione acquisita dell’attività produttiva per l’anno in corso, vale a dire la crescita che si avrebbe ipotizzando un quarto trimestre a incremento nullo, è pari a -0,4 per cento. Ma il fatto è che i dati di ieri mettono in evidenza la particolare debolezza della domanda interna nel nostro paese: rispetto al trimestre precedente, spiega infatti il comunicato dell’istituto, i consumi sono rimasti fermi mentre gli investimenti fissi lordi sono scesi addirittura dell’uno per cento; le esportazioni dal canto loro sono aumentate dello 0,2% mentre le importazioni sono diminuite dello 0,3 per cento.

C’è poi chi fa notare che lo storico traino della ripresa italiana, ovvero le esportazioni, stavolta ha funzionato poco, penalizzato dalla crescita inferiore alle attese di paesi emergenti ed Europa e dalle sanzioni Ue alla Russia: «Manca una stabilizzazione economica perché non c’è l’apporto del driver più importante, l’export, che avrebbe dovuto innescare la ripresa degli investimenti» commenta Riccardo Barbieri, di Mizuho. Quanto ai consumi, nei dati disaggregati è da notare il miglior andamento della spesa delle famiglie (+0,1%) rispetto a quella pubblica (-0,3%). Da un lato il lieve rialzo dei consumi privati beneficia molto probabilmente della introduzione del bonus da 80 euro per i redditi più bassi, dall’altro pesano l’attuazione della spending review e, a livello locale, del patto di stabilità interno.

In pratica i timori sul rischio deflazione espressi ieri dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono più che giustificati, oltre che per l’Eurozona, per il nostro paese. A proposito di prezzi impliciti, l’Istat rimarca che il deflatore del Pil è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il -0,1 per cento congiunturale del Pil realizzato dal nostro paese si confronta infatti con un aumento dello 0,2% della media di Eurolandia mentre il meno 0,5% tendenziale si misura con un +0,8% tendenziale dell’Eurozona. Insomma, è vero che in tutto il continente l’economia, più che crescere, sta ancora strisciando. Però l’Italia durante l’estate era ancora in recessione e solo per 1’ultimo scorcio dell’anno si incominciano a intravvedere segnali di stabilizzazione per l’attività produttiva, che prima o poi dovrebbe beneficiare della forte contrazione in atto nei prezzi petroliferi.

Intanto, però, anche sul lato dell’offerta i dati Istat relativi all’estate mettono in evidenza che la dinamica congiunturale è stata negativa per il valore aggiunto dell’agricoltura (-0,1%), dell’industria in senso stretto (-0,6%) e delle costruzioni (-1,1%) mentre il valore aggiunto dei servizi è rimasto stazionario. In termini tendenziali (terzo trimestre 2014 su terzo 2013) la caduta più forte è il meno 3,5% del settore delle costruzioni, seguito dal -1,1% dell’industria in senso stretto,dal -1,3% dell’agricoltura e dal meno 0,1% per i servizi.«È l’ennesima conferma di una situazione ancora critica per l’economia italiana» commenta l’ufficio studi della Confcommercio. Sebbene la dinamica dell’attività produttiva sia meno negativa rispetto a quanto registrato tra la fine del 2012 ed i primi mesi del 2013 – è la conclusione – non si scorge una sicura via d’uscita dalla recessione ormai triennale».

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Una scatolina grigia, 15 centimetri per 20, collegabile con una connessione Usb al computer e il gioco è fatto. Voi acquistate in contanti o con carta, il commerciante batte il prezzo del prodotto, dalla piccola stampante esce lo scontrino cartaceo. Ma soprattutto, in tempo reale, da quello stesso apparecchio la transazione viene trasmessa per mezzo di un indirizzo e-mail ad un server che la archivia, una sorta di cloud (nuvola, ndr), capace di memorizzare milioni di operazioni. Le prime stampanti di scontrini digitali sono già in commercio, essendo state autorizzate a gennaio scorso. La novità è che il governo, per incentivarne l’uso, potrebbe accollarsene in tutto o in parte il costo, attraverso un meccanismo di detrazione fiscale.

Ma partiamo dal principio, che è la delega fiscale che ha già prodotto un decreto delegato sulla dichiarazione dei redditi precompilata che arriverà a casa di 20 milioni di contribuenti dall’aprile 2015. Ora però il governo ha intenzione di spingersi oltre e integrare quel 730 con un’ulteriore facilitazione: la possibilità di completare la dichiarazione precompilata con alcune spese detraibili. Nasce qui la necessità di introdurre lo scontrino digitale in uno dei prossimi decreti delegati, su cui sta lavorando una squadra di tecnici, coordinata dal viceministro Luigi Casero. In particolare si prevederà che, attraverso l’uso degli scontrini digitali, le spese sostenute per il medico, i farmaci, la palestra dei figli vengano inviate immediatamente al cervellone dell’Agenzia delle Entrate, con il semplice uso della tessera sanitaria, in modo che la dichiarazione che verrà inviata a casa del contribuente, a partire dal 2016, possa già contenere le detrazioni.

Ma cosa ci guadagna la controparte? Minori oneri per la conservazione e la rendicontazione delle scritture contabili: per i più piccoli il governo sta pensando di abolire l’obbligo di tenuta dei registri dei corrispettivi, oltre a concedere una detrazione per l’acquisto delle stampanti digitali. L’operazione però non sarebbe completa se non contemplasse l’attivazione del sistema della fatturazione elettronica anche tra privati (oggi è già in vigore nel rapporto tra lo Stato e i privati). Anche questa è allo studio e dovrebbe essere inserita nel prossimo decreto delegato, insieme con alcuni sistemi di incentivazione per chi adopererà la fatturazione elettronica: minori controlli fiscali, minori obblighi di presentazione di documentazione contabile.

Il quadro si completa con un accordo con il sistema bancario per rendere meno oneroso l’utilizzo di tutti i sistemi di pagamento elettronici, i cosiddetti Pos. L’obiettivo del governo è creare un sistema totalmente tracciabile ma anche sicuro: il server, ad esempio, dovrà soddisfare alcuni requisiti tecnologici di riservatezza. L’operazione è complessa e richiede ancora che alcune autorizzazioni giungano dall’Unione europea ma il governo conta che possa andare completamente a regime entro il 2018. Il risultato dovrebbe essere uno snellimento del sistema fiscale ma anche un forte recupero dell’evasione, in particolare di quella dell’Iva, l’imposta più evasa nel nostro Paese. In attesa che siano pronte le autorizzazioni e le infrastrutture informatiche, il recupero dell’evasione dell’Iva è stato temporaneamente affidato al sistema del reverse charge (inversione contabile,ndr) dal venditore all’acquirente (escluso quello finale).

Incentiviamo gli acquisti

Incentiviamo gli acquisti

Massimo Blasoni – Metro

Non occorre essere una Sibilla Cumana per prevedere che nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (nel Def era prevista per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8% e invece dobbiamo registrare addirittura una decrescita del -0,3%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che anche l’anno prossimo il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto. Questo dato comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettivo conseguimento dei difficili obiettivi fissati dal governo Renzi: 15 miliardi dalla spending review e altri 3,8 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale. Se poi il Pil dovesse ulteriormente calare, ci troveremmo di fronte a uno scenario ancora più drammatico per i nostri conti pubblici.
Intendiamoci: le misure contenute nella legge di Stabilità non sono tutte da censurare, anzi. L’abolizione dall’imponibile Irap del costo del lavoro così come la decontribuzione per 3 anni per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono misure intelligenti, che vanno nella giusta direzione. Tuttavia, e lo abbiamo già visto con gli effetti nulli prodotti dagli 80 euro in più in busta paga, non è detto che siano decisive per la ripresa economica. Il rischio è semmai che, in un contesto dominato dall’incertezza, imprese e lavoratori decidano semplicemente di accantonare queste risorse. La stessa Bankitalia conferma una netta ripresa dei risparmi: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca ben 37,4 miliardi. Ecco perché sarebbe più utile ridurre le imposte indirette a quanti decidono di acquistare una casa o cambiare la propria auto e al tempo stesso ridurre le tasse alle aziende che effettuano investimenti, piuttosto che ridurre genericamente l’Irap.
L’aumento dell’Iva è da evitare

L’aumento dell’Iva è da evitare

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Aumento dell’Iva da evitare. Lo scatto in avanti, a partire dal 2016, contenuto nella legge di stabilità, porterebbe le aliquote Iva a livelli molto elevati. E la cura, individuata per le casse dello stato, potrebbe avere effetti peggiori del male con un aumento delle transazioni in nero. A tratteggiare lo scenario, ieri, intervenendo in audizione sulla legge di stabilità, davanti le commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato, e stato il vicedirettore della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini. Per Banca d’Italia infatti «è preferibile si arrivi a non far scattare le clausole di salvaguardia completando le misure di razionalizzazione della spesa». La conseguenza, per il vicedirettore di Banca d’Italia (le aliquote Iva sui maggiori prodotti e servizi fino a 25% e 13% in due anni) dietro la cura di cavallo dell’Iva è un aumento delle transazioni in nero: «Più elevata e l’imposizione tanto maggiore l’incentivo all’occultamento delle transazioni finanziarie».

Ma le critiche al ricorso delle clausole di salvaguardia sono arrivate anche da Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei conti, in audizione sempre ieri. «Appare opportuno sottolineare l’acuirsi delle incertezze sul gettito futuro, per effetto del crescente ricorso a clausole di salvaguardia che si connotano sempre più come soluzioni che rispecchiano difficoltà e ritardi nell’effettiva realizzazione della revisione della spesa pubblica» ha evidenziato Squitieri facendo il caso delle accise con aumenti di prelievo per complessivi 2,2 miliardi «gia prenotati», sottolinea Squitieri, «fino al 2021 per coprire esigenze di bilancio manifestatesi fin da otto anni prima». Sull’Iva il governo ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota del 10% vale 2,3 mld di euro. L’aumento di un punto dell’aliquota del 22% vale invece ben 4 mld. Dall’innalzamento di due punti percentuali dell’aliquota del 10% nel 2016 e di un punto percentuale nel 2017 (arrivando quindi al 13%) entrerebbero nelle casse dello Stato 6,9 mld mentre nel caso dell’aliquota del 22% si arriverebbe a un incremento di 8 mld all’anno.

Il vicedirettore di Banca d’Italia ha bacchettato inoltre il governo sulla voce del gettito, 3,5 mld, iscritto al contrasto all’evasione. La legge di Stabilità realizza «ulteriori passi» nell’affrontare l’evasione fiscale, spiega Bankitalia, e «alcuni interventi sono potenzialmente in grado di incidere sull’evasione» ma data la natura dei fenomeni «gli effetti di gettito vanno stimati con cautela». Per Banca di Italia inoltre è cruciale che la temporaneità del provvedimento» sul tfr contenuto nel ddl Stabilità «venga mantenuta». «Lo smobilizzo del tfr maturando», ha spiegato Signorini, «inciderebbe negativamente sulla capacità della previdenza complementare di integrare il sistema pensionistico pubblico soprattutto per i giovani, mediamente più soggetti a vincoli di liquidità».

Il presidente della Corte dei conti ha invece invitato a riflettere sulla natura del bonus Irpef degli 80 euro: «Nel momento in cui la legge di Stabilità rende permanente il bonus, sarebbe opportuna una riflessione sulla natura dell’istituto, per deciderne o l’assorbimento nella struttura dell’Irpef ovvero l’esplicito inquadramento fra le misure a sostegno dello stato sociale».

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Con il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. E poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero, o se in Europa tutti i Paesi tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario, l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Anche perché il governo, per ora, di questa crisi non porta la responsabilità.

Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15 per cento; la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30 per cento dal 2000; il divario (gap) tecnologico con i Paesi emergenti – cioè il tempo che occorre a questi ultimi per costruirsi una tecnologia simile alla nostra – è crollato da undici a sette anni dal 2004 ad oggi; la maggiore sensibilità (gli economisti direbbero elasticità) delle esportazioni ai prezzi si accompagna al ritiro dell’industria dai settori dove c’è più domanda di conoscenza e di occupazione qualificata; ci siamo mangiati, a partire dagli Anni 90, più del 30 per cento dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione, qualsiasi siano le leggi. Se poi dovesse continuare l’uscita di capitali – 70 miliardi netti in due mesi – si indebolirebbe la struttura finanziaria.

Non è colpa del governo Renzi, né di quelli prima di lui. Dal 1989 abbiamo scelto di aderire progressivamente ad un sistema fondato su libertà di movimento dei capitali, cessione di sovranità monetaria e trasferimento di consistenti quote di potere ai mercati. Condivisibile. Di più: necessario, per l’Italia di allora. Ma, a differenza di altri Paesi europei – la Germania ha puntato sulla resilienza della manifattura, la Francia sull’alta tecnologia e la Gran Bretagna sul dominio della finanza – l’abbiamo fatto senza creare né valorizzare vantaggi competitivi, che pure c’erano. Venticinque anni dopo, ci interroghiamo sul costo della liquidazione dell’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim); ci domandiamo se abbiamo fatto bene a cancellare l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri); scontiamo privatizzazioni condotte senza modelli industriali definiti; rimpiangiamo di aver ostacolato la creazione di grandi imprese nei settori agroalimentare, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazione.

Vogliamo continuare ad illuderci delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia? O non sarebbe meglio raccontarci la verità? La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci; a chi vuole fare la rivoluzione converrebbe partire da lì. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che potranno, forse, soccorrere la congiuntura: ma l’assenza di un sistema produttivo in grado di trarne vantaggio le rende irrilevanti rispetto ad una crisi strutturale. Il sistema in cui siamo – per fortuna! – integrati, ci obbligherà ad affrontare un doloroso processo di ristrutturazione, qualcuno lo chiama svalutazione interna: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Più tardi accadrà, peggio sarà. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico e di capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. Non è roba da gufi, è la sola possibilità per dare una prospettiva alle prossime generazioni, cui non abbiamo il diritto di negare il futuro visto che il nostro ci è stato servito sul piatto d’argento del benessere e della sicurezza, e l’abbiamo in parte buttato via.

Ma il governo? Aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà e gestire questa «traversata nel deserto» come opportunità di rinascita nazionale costituirebbe un merito enorme. Lo potrà fare favorendo il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguando i sistemi di welfare, sostenendo lo sviluppo tecnologico ed incalzando gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. I politici che hanno condiviso con i propri cittadini «lacrime e sangue» si sono guadagnati un posto nella storia. Chi non ha avuto il coraggio di farlo e ha scelto la politica del «bagnasciuga» è finito nel dimenticatoio della cronaca.

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

NOTA

A meno di improbabili miracoli economici, nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (basti ricordare come nel Def il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan avessero addirittura ipotizzato per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che, fermo restando le condizioni attuali dell’economia italiana, anche nel 2015 il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto, facendo registrare uno scostamento negativo dello 0,5% tra crescita preventivata e crescita reale.
«Questo dato – osserva il presidente del Centro studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dei tagli di spesa previsti dal Governo Renzi».
Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Andrea Bassi – Il Messaggero

Stavolta è più di una mina da disinnescare. È una bomba ad orologeria con il timer fissato sulla data del primo gennaio del 2016. Tra quattordici mesi l’Iva e le accise aumenteranno. La novità è messa nero su bianco all’articolo 45 della bozza della legge di stabilità approvata dal consiglio dei ministri di mercoledì scorso. E questa volta non si tratta di una «clausola di salvaguardia», una misura di sicurezza destinata a scattare solo nel caso in cui altri strumenti, come la spending review, dovessero fallire. Le aliquote Iva del 10% e del 22%, spiega il testo, sono incrementate a decorrere dal primo gennaio del 2016. Anche le accise su benzina e gasolio avranno lo stesso destino. Quello che manca ancora, almeno nelle ultime bozze circolate, sono le cifre di questo aumento. Ma non saranno irrilevanti.

L’aumento dell’Iva e delle accise ingloba la vecchia clausola di salvaguardia dei conti pubblici inserita dal governo Letta nella manovra dello scorso anno. Una norma che prevedeva un taglio lineare di 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi nel 2017, di tutte le agevolazioni fiscali nel caso in cui la spending review delegata al Commissario Carlo Cottarelli non avesse prodotto i risultati sperati. Il governo Renzi ha parzialmente disinnescato questa clausola. Il taglio da 3 miliardi per quest’anno è stato azzerato, mentre quello da 7 del prossimo è stato ridotto a 4 miliardi. Non è detto tuttavia, che l’incremento dell’Iva e delle accise del 2016 si limiti a questi 4 miliardi. Nella nota di aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, aveva già paventato l’ipotesi di un incremento decisamente più consistente dell’imposta sul valore aggiunto e delle accise, per rimettere i conti pubblici sul sentiero della riduzione del deficit strutturale e del debito prevista dai patti europei. Un incremento monstre da 51,6 miliardi di euro in un triennio: 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 miliardi di euro nel 2017, 21,4 miliardi di euro nel 2018. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di euro.

Le cifre in gioco
Se l’incremento fosse interamente concentrato sull’aliquota al 10 e quella al 22%, entrambe potrebbero salire di due punti percentuali già dal primo anno. Uno scenario da brividi, come ammesso dallo stesso documento del governo. Se la clausola dovesse scattare, secondo le stime del Def, comporterebbe alla fine del periodo una perdita di Prodotto interno lordo di 0,7 punti percentuali e una caduta dei consumi di 1,3 punti. Se l’aumento dell’Iva a partire dal gennaio del 2016 dovesse essere confermato nelle versioni definitive della legge di stabilità, è prevedibile che il prossimo anno il governo dovrà iniziare una lunga corsa contro il tempo per mettere a punto una manovra in grado di reperire risorse da altre fonti in grado di scongiurare il balzo delle imposte. Il primo allarme è arrivato da Assopetroli. «Le accise e l’Iva, se verranno realmente aumentate, altro non sono che aumento della pressione fiscale per cittadini e imprese», ha commentato ieri il presidente Franco Ferrari Aggradi. «Per questo», ha aggiunto, «ci auguriamo che il Parlamento, responsabilmente, trovi altre soluzioni che non prevedano aumenti dell’Iva e delle accise, per una manovra che altrimenti, così come è rischia di essere fortemente recessiva per i consumi». Sempre sul fronte dell’Iva, ma alla voce «lotta all’elusione», è stato inserito, come annunciato, nel testo della manovra il cosiddetto «reverse charge», l’inversione contabile, per cui a versare l’imposta non è il venditore ma il compratore. Il meccanismo sarà allargato per quattro anni ai settori delle pulizie, dell’edilizia (demolizioni e installazioni di impianti), al trasferimento di quote di emissioni di gas serra, al gas e all’energia elettrica. Se arriverà il via libera Ue, potrebbe essere coinvolta anche la pubblica amministrazione.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

La famiglia taglia anche la spesa

La famiglia taglia anche la spesa

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

Continua, senza soste, il lento scivolamento dei consumi in Italia. Ma, ora, a pagare il prezzo più salato della crisi è l’alimentare mentre si attenua la caduta dei prodotti non food. Le rilevazioni Istat di luglio indicano un calo delle vendite al dettaglio dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,5% rispetto a un anno fa. Spacchettando il dato però emerge che la contrazione dei prodotti alimentari è molto superiore a quella del non food: il 2,5% contro l’1 per cento. E anche le forme distributive dei beni di largo consumo risentono della divaricazione tra food e non food: le catene della gdo alimentare perdono l’1,7% su base annua mentre quelle del non food guadagnano lo 0,2%. I discount alimentari segnano una crescita dell’1,7% ma, a rete costante, il segno più si appiattisce. Il messaggio è chiaro: dopo aver eliminato gli sprechi, scoperto i discount, sostituito vari prodotti con altri meno costosi e approfittato della pioggia di promozioni, le famiglie stanno tagliando la lista della spesa. Persino la corsa degli italiani nel biennio d’oro 2012/13 verso smartphone e tablet si è esaurita: la domanda ora è in picchiata.

Dai dati Istat emerge che, su base annua, nel non food a soffrire di più sono cartoleria, libri e giornali (-3,6%), casalinghi (-2%), utensileria per la casa (-1,4%) e profumeria (-1,2%). «Il dato di luglio delle vendite al dettaglio – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – conferma che siamo ancora lontani dall’uscita dal tunnel e che la ripresa del Paese rimane un miraggio. Poi preoccupano i dati dei consumi di prodotti alimentari: il -2,5% è il segno che le famiglie stanno cercando economie e risparmi anche nei bisogni più essenziali». Per Cobolli è impressionante il calo dell’ortofrutta, «un tipico prodotto di consumo italiano. Dopo una prima forte caduta, la discesa è proseguita: sono mutate le abitudini di acquisto e sorge il dubbio che, anche quando la ripresa si manifesterà, sarà difficile tornare agli stili di vita precedenti». Anche per Coldiretti le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo sui consumi alimentari per il 47% delle famiglie,con la ricerca dei prodotti low cost e dei punti vendita meno cari. Secondo l’indagine Coldiretti nel carrello della spesa il 23% degli italiani ha ridotto i quantitativi di ortofrutta, il 21% acquista prodotti e varietà che costano meno, il 16% rinuncia a prodotti che costano troppo (dalle ciliegie ai frutti di bosco), il 13% è andato alla ricerca di punti vendita con prezzi più bassi.

Che fare? «Non abbiamo segnali – commenta Mario Resca, presidente Contimprese – che facciano presagire un’inversione di tendenza delle vendite nei prossimi mesi. Settembre è iniziato a rilento, complici anche le condizioni meteo che non hanno favorito un aumento di battute di cassa. E anche il bonus di 80 euro finora è stato utilizzato dalle famiglie per pagare bollette c risparmiare». Cauto Cobolli Gigli: «Io negli 8o euro ci credo. Intanto sono stati distribuiti 10 miliardi alle famiglie più bisognose che li hanno utilizzati, parte, per i consumi alimentari e, parte, per pagare le bollette e accantonarli. Sul medio periodo sono fiducioso che l’effetto cumulo induca le famiglie a spendere di più per i consumi». Per l’ufficio studi di Confcommercio «è necessario che nella Legge di Stabilità siano inseriti provvedimenti che, ridando slancio ai consumi, creino le premesse per una vera ripresa nel 2015».