europa

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Molto rumore per nulla, si potrebbe shakespeariamente dire una volta letti i risultati di uno stress test che per alcuni giorni ha causato nervosismo ai mercati. Dopo una crisi economica e finanziaria che si protrae dal 2008, deve essere considerato, tutto sommato, segno di buona salute che solo 25 delle 131 maggiori banche (ossia il 19%) dell’eurozona abbiamo problemi di capitalizzazione, o meglio presentino tali problemi nei conti 2013. Dei due istituti bancari italiani nell’elenco, probabilmente uno ne è uscito nel primo semestre 2014. Ciò non deve, però, essere motivo di compiacimento. Da un lato, occorre chiedersi ancora una volta perché i finanziamenti non arrivano alle imprese. È scattata la trappola della liquidità a ragione del diffondersi ed approfondirsi di aspettative negative, specialmente nell’eurozona? Oppure, la lunga recessione , preceduta da una ancor più lunga stagnazione, fa sì che le imprese abbiano i cassetti vuoti, che manchino di progetti ‘bancabili’ di rinnovo e di espansione di impianti perché troppo assillati dalle difficoltà di riuscire a resistere?

Da un altro, c’è la minaccia di un aumento dei tassi negli Stati Uniti, dove il direttivo della Fed si riunisce oggi e domani: da mesi il tasso base di riferimento, l’interbancario, è rimasto ancorato allo 0,25% (in effetti è negativo dato che l’aumento dei prezzi viaggia sull’1,8%) e quello sui titoli di Stato decennali è al 2,24% (rispetto alla media dello 0,90% nell’eurozona). Negli ultimi mesi, ragioni macroeconomiche sembrano suggerire l’esigenza di una politica monetaria meno espansionista: nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato a un tasso annuale del 4,6% e la produzione industriale a quello del 4,2% mentre la disoccupazione è sotto al 6%.

Più eloquente un dato poco seguito in Europa; l’aumento dei ‘tetti’ nelle norme (di competenza dei singoli Stati dell’Unione) agli interessi per i prestiti personali a individui e famiglie a basso reddito e prive di garanzie reali. Nelle ultime settimane, otto Stati hanno aumentato, in vario modo, tali ‘tetti’ (introdotti in gran misure per impedire nuove crisi di prestiti subprime oltre che a fini antiusura). Ciò vuol dire che c’è una forte spinta ‘dal basso’. I governatori delle 12 Banche federali di riserva, prossimi al territorio, potrebbero mettere in minoranza il presidente della Fed, Janet Jellen, favorevole a mantenere una politica monetaria espansionista per almeno altri due mesi. Ciò non resterebbe senza implicazioni per la Bce: il mercato finanziario atlantico è integrato. Un’asimmetria sostanziale genererebbe un flusso di capitali verso la sponda Usa, rendendo più difficile e la politica monetaria Bce e la ricapitalizzazione di quelle banche europee che ne hanno esigenza.

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

ABSTRACT

Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte.
Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea. L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi.
Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.
Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Complessivamente, dall’inizio del programma, sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.
Scarica il Paper “Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro“.
Rassegna Stampa:
Italia Oggi
La Notizia
Metronews
Un diktat che merita solo un bel vaffa

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Vittorio Feltri – Il Giornale

La lettera minatoria che il presidente della Commissione europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra.

Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo. Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti…

Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 Paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.

Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro Paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.

Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel Paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto?

Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti. Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’Economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola.

P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.

L’austerità e i ministri di Pulcinella

L’austerità e i ministri di Pulcinella

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Europa vuol continuare a bastonare l’Italia. E non si deve nemmeno sapere. Che brutta uscita per Barroso, il presidente di una Commissione che ha governato gli anni più bui dell’Unione. Dopo averci spedito una lettera che apre di fatto il contenzioso tra Bruxelles e Roma sui conti pubblici, il capo dell’esecutivo comunitario in cerca di un nuovo ruolo politico a Lisbona se l’è presa con Renzi per aver divulgato la missiva. Come se fosse un segreto quello che hanno fatto Bruxelles e Strasburgo, Berlino e Francoforte per metterci in ginocchio. Austerità, politiche del rigore, una Banca centrale che si è mossa con colpevolissimo ritardo di fronte alla tempesta degli spread: c’è bisogno di custodire altri segreti di Pulcinella per oscurare il disastro che ci è stato procurato? Se l’Italia affonda – ribatteranno le anime belle – è perché non abbiamo fatto i compiti, siamo un Paese con regole bizantine e le riforme attendono da secoli. Vero. Ma il colpo di grazia non ce lo siamo dati da soli. E il tentativo di questa Europa nel coprire le sue responsabilità è la pistola fumante che inchioda l’assassino.

Ultimo tango a Bruxelles

Ultimo tango a Bruxelles

Mario Lavia – Europa

Agli sgoccioli della sua decennale presidenza della Commissione europea Josè Barroso ha deciso di non fare sconti all’Italia e di svolgere quel ruolo da protagonista che in questi 10 anni purtroppo ha mancato spesso e volentieri. Lui s’inalbera con chi dice che si stia esibendo in questo ultimo tango con un occhio alla sua rentrée politica in Portogallo. Ma è del tutto naturale che Renzi guardi non a Barroso ma a Juncker, come l’interlocutore con cui fare seriamente i conti. Dietrologie a parte, resta il fatto che con la lettera di ieri il vertice uscente della Commissione segnala al governo italiano una pesante criticità, ed è a questo che bisognerà rispondere. E nessuno dubita che il governo, con l’accurata regia di Padoan, saprà dire la sua nel merito dei problemi. Pubblicamente. Perché è chiaro che quella tra Bruxelles e Roma è una partita ormai squadernata. E delicata per tutti. Per la buona ragione che scatenare un conflitto con l’Italia potrebbe far riesplodere turbolenze sui mercati. Ma Barroso ha voluto comunque mettere sotto la lente l’Italia, l’Austria, e anche quella Francia che i Trattati ha deciso di violarli alla grande.

Ora, può benissimo darsi che la lettera brussellese divulgata ieri avrà una replica e la cosa potrà chiudersi lì. L’impressione però è che ormai Renzi voglia fare con l’Ue quello che in vario modo ha fatto con il senato, i professoroni, il Pd, le Regioni: affrontare tutti senza complessi di inferiorità. Si è capito che la sua tattica è sempre questa: più è attaccato più alza la voce. Colpendo duro. Con i senatori ha fatto così: e la riforma è passata proprio a palazzo Madama. Così con i partiti: e si sta verificando con un certo ottimismo (vedi Berlusconi di ieri) l’intesa con Forza Italia sulle riforme. Così col suo partito, il Pd: e la minoranza è andata in difficoltà. Così con le Regioni: e la notizia è che si sta mediando positivamente. Vedremo con l’Europa se riuscirà a rovesciare un rapporto finora subalterno. Se riuscirà a svecchiare modalità, procedure, ritualità e anche contenuti. È una proiezione della sua aggressiva battaglia “italiana”. È una linea, questa del premier, non un omaggio al suo esprit fiorentino. Rischiosa, ma forse è l’unica.

Ora sotto esame le banche

Ora sotto esame le banche

Francesco Manacorda – La Stampa

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone – analisti di Borsa e uomini delle banche – che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità – e non più delle singole autorità nazionali – su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti – quelli delle banche – si apprestano così a un esame europeo.

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio.

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 – un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose – ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale – per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali – da noi la Banca d’Italia – dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo – tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo – ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori – chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni – avranno dei parametri per orientarsi meglio.

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iper prudenziale dei regolatori – dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme – rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker.

Perché serve la manovra espansiva

Perché serve la manovra espansiva

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Nel lessico della minuziosa governance europea, dove le virgole possono prevalere sulle buone idee, nulla è casuale. Dunque, c’è poco da interrogarsi sul significato delle due parole (“deviazione significativa”) che sintetizzano l’analisi con cui la Commissione chiede spiegazioni al Governo italiano sulla sua strategia di bilancio. Nelle “Raccomandazioni” del Consiglio europeo del luglio scorso, quelle che richiedevano “sforzi aggiuntivi” per il rispetto del Patto di stabilità, c’era scritto che “nel 2014 è prevista una deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine che, se si ripetesse l’anno successivo, potrebbe essere valutata come significativa, anche in base al parametro di riferimento per la spesa”.

Ecco, il piano del Governo Renzi per il 2015 è arrivato e la “deviazione” è diventata “significativa”. Il che, tradotto in chiaro, vuol dire che la partita tra Bruxelles (dove siamo al passaggio di consegne tra Manuel Barroso e Jean Claude Juncker alla guida della Commissione) e Roma si è appena aperta e che Matteo Renzi ha deciso di giocarla in attacco. Puntando, in Italia e in Europa, su una politica economica di rottura in chiave pro-crescita, impostazione oggi sostenuta con forza anche dalla Banca d’Italia. La posta in gioco è questa e la mossa del premier italiano, fino al 31 dicembre alla guida anche del semestre di presidenza europea, è politicamente significativa al pari della deviazione di bilancio che prospetta. Naturalmente, a patto di trarne tutte le conseguenze e mettendo in conto che non sarà una schermaglia verbale a far “cambiare verso” all’Europa, atteso che anche il nuovo presidente della Commissione Juncker (che promette a sua volta il piano europeo da 300 miliardi di investimenti entro Natale ma non ha specificato con quali risorse) sostiene che le regole non si cambiano e che flessibilità è quella prevista dai trattati. In questo, allineato con la posizione della Cancelliera tedesca Angela Merkel, che l’ha voluto al vertice del governo europeo.

L’Italia, terza economia dell’eurozona ma col nervo scoperto di un debito pubblico fin qui dimostratosi incomprimibile anche per la cronica assenza della crescita (ieri Eurostat ha segnalato che è appannaggio dell’Italia il più alto incremento del secondo trimestre 2014, +3,1% al 133,8%) ha assoluta necessità di una scossa. La stessa Commissione europea, nelle sue raccomandazioni del luglio scorso, metteva l’accento sulla necessità di ridurre il carico fiscale sul lavoro, “creare un ambiente più favorevole per le imprese”, riformare il mercato del lavoro. Oggi, la Banca d’Italia scrive nero su bianco che la scelte del Governo di far salire l’indebitamento netto del 2015 dello 0,7% del prodotto, facendo arrivare il rapporto deficit/Pil al 2,9%, appena sotto la fatidica soglia del 3%, “appaiono motivate”. “Un più graduale processo di riequilibrio può aiutare ad evitare – osserva la Banca centrale – una spirale recessiva della domanda e si giustifica se i margini di manovra che ne derivano saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia e innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine”. Come dire che la legge di stabilità, ieri controfirmata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano schierato contro la “paralisi” e che non si stanca di chiedere “cambiamenti veri”, va nella direzione auspicata.

Ma se da un lato Renzi può mettere oggi all’attivo la spinta in positivo di Bankitalia e Quirinale, dall’altro non può che essere consapevole fino in fondo della partita che ha aperto e che non potrà essere affrontata, a meno che non si punti ad un compromesso di piccolo cabotaggio dopo aver alzato la voce, a colpi di “uno o due miliardi li troviamo subito, anche domattina”. Né è immaginabile che l’atteso cambio di rotta della politica economica possa camminare sulle sabbie mobili di testi legislativi improvvisati e che si compongono nel tempo, riempiendo di volta in volta i buchi che emergono qua e là e che ri-attualizzano la retroattività come metodo di governo fiscale. Piuttosto, a partire dal Jobs Act e dall’attuazione puntuale delle riforme, sono le scelte chiare e lineari quelle che devono imporsi come fatti. Quanto pesa sui mercati, proprio perché l’Italia si misura qui ogni giorno sulla sostenibilità del suo debito, il fattore credibilità? È questa la domanda cui il Governo deve dare una risposta adeguata.

Il rischio della manovra è il deficit di credibilità

Il rischio della manovra è il deficit di credibilità

Daniele Manca – Corriere della Sera

In quello che sta accadendo attorno alla bozza della legge di Stabilità c’è molto poco di ragionevole. Si è già detto, scritto e riconosciuto del coraggio che è stato necessario per scrivere una Finanziaria incentrata sulla parola «crescita». Nei prossimi giorni l’Europa farà domande, esprimerà indicazioni e giudizi. Ci troveremo a discutere di percentuali e percorsi di risanamento più o meno rispettati. Ma la vera sfida sarà combattere l’aumento di un parametro ben più insidioso, pericoloso e in drammatico aumento: il deficit di credibilità. Ricevere una richiesta di chiarimenti è già indizio di inosservanze più o meno gravi delle regole che si è data l’Unione Europea. Il governo italiano eccepirà e fornirà delucidazioni rendendo possibile il via libera. Ma non sarà una promozione.

Sulla spinta di una crisi che stava mettendo a rischio la stessa Europa, nel novembre 2011 si decise di cambiare le regole per i bilanci dei Paesi Ue. Nel riscrivere le norme era chiaro che da quel momento Bruxelles non si sarebbe impiccata ai decimali di punto di questo o quel parametro. Il governo di Matteo Renzi ha messo l’asticella del deficit al 2,9%. Ha scelto di camminare su una lastra di ghiaccio finissima. Potremo usare tutta la flessibilità che ci è permessa dal fatto di restare sotto il tetto del 39. Ma impegnandoci a rispettare altri parametri.

La bozza della legge di Stabilità è arrivata alla Ue il 15 ottobre, con quella francese, 5 giorni dopo quella tedesca, dopo la finlandese. Particolari ininfluenti forse. Ma a distanza di una settimana a Bruxelles sanno che il Quirinale ha ricevuto la bozza solo ieri. Che la Ragioneria dello Stato avrebbe messo in discussione alcune coperture. E che i numeri potrebbero cambiare. il via libera, se arriverà, più che sulle cifre sarà sugli impegni e quindi politico. Ma lo spettacolo di queste ore a quanto avrà fatto salire il deficit di credibilità? E quanto ci costerà? Le altalenanti piazze finanziarie sono sempre pronte ad abbandonare chi non rispetta i vincoli che si è dato, cambia numeri o mostra incertezza nelle scelte. E sono i mercati che acquistano i titoli del debito italiano, non Bruxelles.

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Massimo Tosti – Italia Oggi

I retroscena sulla mancata «bollinatura» della ragioneria generale dello stato alla legge di stabilità porta ulteriore acqua al mulino di Renzi. Pare che la verifica sulla copertura finanziaria sia stata effettuata da una signora, alto funzionario della ragioneria, incaricata dei rapporti con palazzo Chigi (e delegata anche a partecipare alle riunioni preparatorie del consiglio dei ministri e del Cipe). Il ragioniere generale dello stato, Daniele Franco, si sarebbe irritato per essere stato scavalcato e, quindi, si sarebbe preso il tempo necessario per «bollinare» il provvedimento. Piccole beghe interne all’alta burocrazia, che (non a caso) il premier ha additato tra i responsabili dei ritardi, causati da procedure logoranti, che ostacolano l’azione di governo (e anche le attività imprenditoriali, e persino la vita dei comuni cittadini, costretti a riempire quintali di moduli inutili per sentirsi in regola con la piovra statale).

La «bollinatura», non a caso, è una pratica che risale all’Ottocento, quando il ragioniere generale aveva un bollo di stagno che apponeva sulla legge di bilancio. Erano i tempi di Silvio Spaventa e del pareggio di bilancio: preistoria rispetto alla comunicazione via web ed e-mail e al deficit spending. La burocrazia si muove ancora con la lentezza di centocinquant’anni fa, e dietro l’andatura da bradipo si nascondono anche le gelosie fra gli altri dirigenti. Il presidente Napolitano si è giustamente angustiato quando si è visto recapitare la manovra economica del governo senza i necessari bolli e controbolli, temendo che il governo avesse eluso l’obbligo di sottoporre all’organo di controllo la copertura finanziaria del provvedimento. Ma le cose non starebbero così (stando al gossip successivo).

Renzi esce rafforzato nel suo proposito di semplificare le procedure e di eliminare, per quanto possibile, l’onnipotenza dei funzionari. Quando, una decina di anni fa, Berlusconi denunciava l’impossibilità di governare questo paese, diceva una cosa giusta. Ma aveva il torto di essere l’uomo sbagliato per protestare. Renzi, che gode di un consenso popolare vastissimo, ha la chance di modificare le regole ed evitare le trappole insite in un sistema che fa acqua da tutte le parti.

In Europa qualcosa si muove

In Europa qualcosa si muove

Stefano Lepri – La Stampa

Il debutto di Jean-Claude Juncker davanti al Parlamento europeo mostra che qualcosa si muove: diventa sempre più chiaro che l’austerità non porta la ripresa, e che occorre cambiare strada. L’interrogativo è se il mutamento sarà abbastanza rapido da evitare uno scontro politico tra i maggiori Paesi dell’area euro. A poco è servito sceneggiare i rapporti tra Italia e Commissione europea secondo i ricordi del passato, bacchettate, bocciature, rimbrotti, sberleffi. Il «fondo di riserva» inserito nella manovra 2015 contiene i margini per intendersi a metà strada salvando la faccia a entrambe le parti, come probabilmente avverrà nei prossimi giorni.

Quale realtà corrisponderà poi alle cifre contabili, è tutto da vedere; e ha una importanza relativa. Di fatto, la manovra economica italiana rifiuta di rispettare alla lettera il «Fiscal Compact» europeo; questo andava pur detto, da chi ha il compito di dirlo. D’altra parte, ormai (quasi) tutti nel continente sanno o sospettano che applicare quella regola oggi sarebbe letale. Il nuovo presidente della Commissione europea, politico astuto, sta studiando come destreggiarsi. Un po’ di faccia severa contro Francia e Italia potrà forse aiutarlo ad ammorbidire la resistenza della Germania al piano di investimenti aggiuntivi per 300 miliardi sul quale si è di nuovo impegnato ieri mattina davanti all’assemblea di Strasburgo. Però l’accordo è già in vista.

I rischi sono altri. Un compromesso pasticciato come se ne sono conclusi tanti negli anni scorsi non risolverà nulla. L’attenzione va spostata altrove: il governo italiano dovrà soprattutto mostrarsi capace di riformare l’Italia sulle linee che ha promesso. Questo è il contributo migliore alla ripresa in un’Europa purtroppo paralizzata nei suoi due centri politici più importanti.

A Parigi non si riesce a decidere quasi nulla (e sì che tanti in Italia esaltavano la repubblica presidenziale!). A Berlino ci si comporta come se nulla stesse accadendo. Negli anni scorsi avevano aggravato le difficoltà dell’area euro contrastanti interessi nazionali, legati anche a questioni di potere bancario. Ora, a impedire di uscire dalla crisi è soprattutto il peso di idee vecchie. In Francia si tratta soprattutto della «sinistra passatista, nostalgicamente attaccata a un passato lontano» nelle parole del primo ministro Manuel Valls che se ne vuole distanziare; una sinistra ostile perfino a liberalizzazioni tipo quelle di Prodi e Bersani nel 2006, che non esita a far traballare il governo quando l’estrema destra xenofoba è lanciatissima nei sondaggi. Nell’altro caso si tratta della maggioranza di governo tedesca, orgogliosa di un passato più recente, della Germania che si risolleva negli anni Duemila e supera la prima fase della crisi senza perdita di posti di lavoro; eppure oggi solo capace di impartire agli altri Paesi prediche obsolete e di far muro contro tutte le iniziative che Mario Draghi studia per ravvivare l’economia.

All’interno della Banca centrale europea le idee nuove si sono fatte strada, ultima prova un discorso tenuto dal membro del direttorio Benoît Coeuré qualche giorno fa: le riforme strutturali sono indispensabili ma nell’immediato possono perfino essere controproducenti se non si avrà allo stesso tempo un impulso della politica di bilancio da parte dei Paesi che se lo possono permettere. L’unica speranza sta nell’adoperare insieme tutti gli strumenti, perché combinati funzionano meglio. L’Italia ne è un esempio chiaro. A poco servirebbero cali di tasse anche forti oppure buoni investimenti se non si ha – dalle strutture dello Stato, dalla vita pubblica – l’impressione che in questo Paese valga la pena darsi da fare, impegnarsi, scommettere sul futuro.