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Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.

E il semestre intanto passa

E il semestre intanto passa

Franco Venturini – Corriere della Sera

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Massimo Tosti – Italia Oggi

Matteo Renzi, che vede corvi dappertutto, adesso ne ha trovato uno (autorevolissimo) che in qualche modo lo assolve, condannando però l’intero continente. E questo non ci consola affatto. Il Fondo Monetario Internazionale ha celebrato i funerali dell’Ue: «L’Europa», ha sentenziato, «rischia una stagnazione secolare». Se vogliamo confidare nel futuro, facciamo le valigie e trasferiamoci in Cina, o in India. L’Europa affonda, e tornerà in superficie nel 2200 e rotti.

Chi conosce la storia non si stupisce. In principio fu la Cina; poi toccò alla Mesopotamia (Sumeri, Babilonesi); quindi fu l’epoca degli egiziani, poi dei greci e dei romani. Nell’anno Mille gli arabi conquistarono parte dell’Europa. Dal Rinascimento ad oggi è stato il Vecchio continente a guidare le danze. I cicli storici si susseguono uno all’altro, e ogni volta c’è una fetta del mondo che prende il sopravvento sulle altre. La globalizzazione ha favorito lo sviluppo di quello che fino a qualche decennio fa definivamo (con un pizzico di disprezzo politicamente scorretto) il Terzo Mondo. E di qui al prossimo secolo sarà proprio il Terzo Mondo (ex paesi in via di sviluppo) a dettare le regole economiche e sociali del pianeta. Dobbiamo farcene una ragione, e correre (per quanto possibile, individualmente: tutti insieme non c’è spazio) ai ripari. Fra pochi anni (meno di dieci) la Cina diventerà la principale potenza economica del mondo, seguita dall’India. Noi europei scaleremo al terzo posto, dietro gli Stati Uniti (boccheggianti). Saranno gli altri a dettare a noi le regole, e non viceversa, come è accaduto di recente.

Siamo un continente malato di vecchiaia, che non ce la fa a reggere le sfide dei Paesi arrembanti, che dimostrano energia e capacità di innovazione di gran lunga superiori alle nostre. Il mondo 2.0 sarà dominato da loro. Ci colonizzeranno, lasciandoci le briciole del progresso in arrivo. Auguriamoci che siano più generosi con noi di quanto noi lo siamo stati in passato con loro. Ma la partita è persa, come afferma il Fondo Monetario Internazionale: noi diventiamo i paria del mondo, e l’euro è destinato al ruolo di una moneta marginale rispetto allo yuan e alle rupie. E Angela Merkel sarà costretta a spogliarsi dei tailleur del potere.

Il credito riparte quando c’è crescita

Il credito riparte quando c’è crescita

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

Il primo colpo di bazooka contro la crisi è andato a vuoto: l’asta Bce dei prestiti agevolati per riattivare l’erogazione del credito in Europa è andata ben al di sotto delle aspettative, creando così seri interrogativi sull’efficacia della manovra per favorire la ripresa manifatturiera e sulla necessità di interventi monetari più radicali. Se le banche hanno chiesto infatti meno del previsto – 82,6 miliardi a fronte di aspettative per quasi 150 miliardi di euro – significa che le tensioni e le incertezze che si vedono ancora all’orizzonte, soprattutto sul fronte economico, rendono del tutto superflua un’ulteriore provvista di liquidità da riservare all’attività di lending per le piccole e medie imprese: senza la domanda, la maggiore offerta ha poco senso.

L’asta Tltro ha messo a disposizione delle banche quasi 400 miliardi di qui al 2016, da rimborsare in quattro anni. E l’ha agganciata a una condizione ben precisa: se la banca non utilizza il prestito per aumentare le erogazioni alle piccole e medie imprese non finanziarie, dovrà restituire l’intero ammontare entro due anni. Una condizione “tagliola”, questa, voluta espressamente dallo stesso Mario Draghi per scoraggiare il ricorso ai prestiti di Francoforte solo per poi acquistare titoli di Stato: «I prestiti – ha detto a chiare lettere Draghi – devono essere contratti solo per finanziare l’economia reale». Se l’intenzione e gli obiettivi dell’operazione erano (e sono) dunque buoni – in Inghilterra la ripresa del credito si deve proprio a una manovra analoga lanciata dalla Bank of England (loan for lending) – resta da capire perchè le banche dell’Eurozona non si siano presentate in massa allo sportello.

Anche se conclusioni più certe e definitive sulla partecipazione delle banche al programma per le pmi si avranno non prima di dicembre, quando scatterà la seconda delle 6 aste Tltro programmate dalla Bce per un totale di 400 miliardi, l’esito dell’assegnazione di ieri non è stata del tutto una sorpresa nemmeno a Francoforte: non solo perchè l’asta è caduta proprio alla vigilia della pubblicazione degli stress test sui bilanci bancari – un esame che mette in tensione le banche e le spinge alla prudenza – ma soprattutto perchè è ormai da tempo che la stessa Banca centrale europea va ripetendo che le manovre sulla liquidità servono a stabilizzare il mercato finanziario, ma possono fare poco o nulla per rilanciare l’economia europea e soprattutto quella dei paesi periferici dell’Eurozona la cui ripresa (anche in termini di investimenti esteri e di fiducia dei mercati) molto dipende dalle riforme strutturali, dal varo di efficaci politiche industriali e soprattutto dalla capacità della classe politica europea di rispondere con nuove politiche di bilancio più flessibili alle sfide di una crisi che non si può più nemmeno definire a macchia di leopardo.

Il non aver affrontato per tempo la crisi industriale e occupazionale in Paesi chiave dell’Unione Europea – come per esempio l’Italia – ha generato infatti una sorta di effetto-domino sulle economie circostanti, fino a ostacolare la ripresa in paesi-guida come la Germania o a peggiorare situazioni già in bilico come quella francese. Ora che lo stallo dell’economia europea è chiaro a tutti – come confermano i recenti allarmi di tutte le organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, dall’Fmi all’Ocse fino all’Eurotower di Mario Draghi – il vero nodo della questione è che cosa farà Bruxelles sul fronte politico per dare peso, sostanza e prospettive alla manovra di stimolo monetario appena avviata da Francoforte. Qui non si tratta più solo di discutere i margini di flessibilità fiscale che ogni Paese ha il diritto di avere per fronteggiare una crisi economica, ma di fare almeno tre passi in più: dare un ruolo alla Commissione nel decidere piani di intervento di sostegno straordinario per i casi di crisi industriale più acuta a livello nazionale o regionale, aumentare il bilancio della Ue per dotarlo di risorse ad hoc da utilizzare nel sostegno dell’occupazione laddove le crisi industriali hanno superato il livello di guardia. Non ultimo, rivedere il sistema di regole sulla stabilità del mercato finanziario e dell’industria bancaria per ridurre, se non temperare, quelle norme chiaramente pro-cicliche che hanno costretto le banche di ogni tipo e dimensione a stringere il credito per sostenere (o evitare) drastici interventi di ricapitalizzazione e pulizia dei bilanci.

Oggi per una banca è estremamente oneroso non solo detenere partecipazioni azionarie nelle aziende – fenomeno tipico dei mercati come il nostro in cui il ruolo del mercato dei capitali è stato tradizionalmente svolto dal settore bancario – ma anche erogare credito alle piccole e medie imprese, che sono non a caso le più colpite dal credit crunch. Secondo i parametri di Basilea 3, la banca che presta soldi a una piccola azienda la cui solidità o patrimonializzazione non è eccellente (e quale Pmi non si trova oggi in questa situazione?) è costretta a effettuare accontamenti che si avvicinano ormai alla stessa entità del prestito: a che serve allora dotarsi di liquidità aggiuntiva? In conclusione, il flop dell’asta Tltro è in realtà un messaggio molto chiaro lanciato dalle banche ai governi e alle istituzioni europee: la liquidità è utile per sostenere il mercato finanziario, per uscire dallo spettro della deflazione e per rafforzare il patrimonio del settore creditizio attraverso gli acquisti di titoli di Stato. Ma se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia, serve molto di più del denaro facile: servono politiche industriali per indirizzare gli investimenti delle imprese, serve un’Europa più consapevole dell’interdipendenza che lega i destini – e le economie – dei suoi stati membri.

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Francesco Manacorda – La Stampa

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira – fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese – rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro – così si chiama in gergo – di Francoforte.

Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe.

Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria – dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia – ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi.

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce – seppur praticamente gratuiti – per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce.

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta.

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Reintegra o risarcimento? L’Italia prova a superare la tutela reale dell’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti. In Europa cosa succede? Che l’obbligo del reintegro, come si evince dalla schede qui sotto, è già un’opzione marginale: in pratica per tutti i licenziamenti senza giusta causa (anche economici) le tutele sono essenzialmente monetarie. «La reintegra è facoltativa in Spagna, dopo la riforma Rajoy – ha spiegato il giuslavorista Massimo Lupi dello studio «Lupi&Associati» di Milano – e anche in Germania la tutela reale non è automatica per tutti i casi di licenziamento». Qui, in particolare, c’è un giudizio soggettivo dei giudici. Ma la scelta della tutela reale non è affatto a maglie larghe: «È legata alla possibilità di un ritorno in azienda del lavoratore», ha spiegato il professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi. Del resto «in tutti i paesi europei dove è lasciata al giudice la possibilità di prevedere la reintegra – ha aggiunto il professore di diritto del lavoro alla Luiss, Roberto Pessi – l’ipotesi è circoscritta ai casi di nullità dell’atto risolutivo secondo le regole del diritto comune dei contratti».

FRANCIA
Tetto delle sei mensilità
In Francia, per un licenziamento «sans cause réelle et sêerieuse» (cioè, senza una causa reale e seria), il datore di lavoro può opporsi alla reintegra e quindi il giudice può disporre a favore del lavoratore solo un indennizzo non inferiore alle 6 mensilità. La sanzione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato non è quindi obbligatoria ed è prevista solo per il licenziamento discriminatorio. Vale a dire quando il licenziamento è nullo per motivazioni attinenti alla sfera privata del lavoratore o intimato a seguito di molestie. In questi casi la reintegra è di diritto per i dipendenti. In tutti gli altri casi scatta invece un risarcimento monetario, un indennizzo, cioè, che aumenta a seconda dall’anzianità di servizio del lavoratore.

GERMANIA
Reintegro non obbligatorio
Qui le tutele si applicano nelle aziende con più di 10 dipendenti, e per i licenziamenti è necessaria una consultazione con il comitato di impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giudice. Che può scegliere tra reintegro e risarcimento. Quindi il reintegro è possibile (ma non obbligatorio) ma è applicato in pochi casi. Questo perché la giurisprudenza tedesca opta per la tutela piena e reale solo se c’è una proficua ripresa della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Quando cioè è possibile un effettivo ritorno in azienda. Un licenziamento è considerato illegittimo quando è basato su fattori inerenti la capacità o le qualità o la condotta del lavoratore. Inoltre per i licenziamenti non economici non è prevista una indennità di licenziamento salvo diversa previsione dei contratti collettivi.

REGNO UNITO
Discrezionalità del giudice
Nel Regno Unito la reintegra del dipendente (in un medesimo posto, «reinstatement», o in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione, «reengagement») è prevista dalla legge ma applicata molto raramente. C’è una forte discrezionalità del giudice (nell’ordine di reintegra). Ma se il giudice ritiene non praticabile il reintegro opterà per una sanzione economica di tipo risarcitoria. La prassi evidenzia come molto spesso i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia rispettato la procedura prescritta per il recesso. Il riconoscimento economico (per i licenziamenti ingiustificati) ha dei limiti e comunque varia a seconda dell’anzianità di servizio.

SPAGNA
Dopo la riforma Rajoy
La reintegra è divenuta facoltativa in quanto l’imprenditore può optare per il solo risarcimento del danno in favore del lavoratore corrispondendo una somma che al massimo non può superare i 33 giorni per anno di lavoro invece dei 45 precedenti. La riforma Rajoy in Spagna è intervenuta cercando di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso. Il dipendente a tempo pieno, poi, può essere licenziato anche senza giusta causa. L’azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento. Il giudice può emettere sentenza di reintegra in caso di licenziamento illegittimo ma l’impresa può non reintegrare il dipendente pagando un indennizzo

ITALIA
Con la legge Fornero
Nel 2012 è stato modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo era quello di marginalizzare la reintegra. Ma l’intervento è stato troppo complesso, e soprattutto troppo interpretabile da parte dei giudici. La norma oggi prevede tante conseguenze diverse a seconda del licenziamento. Per i discriminatori c’è la reintegra più un risarcimento; per i disciplinari, di base, solo indennità tra 12 e i 24 mesi, ma se il disciplinare è fondato su fatti falsi scatta la reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se il licenziamento è fondato su motivi fisici: reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se economico: solo indennità (ma se manifestamente insussistente, reintegra più indennità). Per i collettivi: reintegra se si violano i criteri di scelta; per gli altri casi, indennità.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Oggi la Banca centrale europea lancerà la prima asta di quello che è stato chiamato il bazooka di Mario Draghi: i T-ltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations). È un acronimo difficile da pronunciare ma che, se lo strumento funziona, dovremo imparare a memorizzare. Lo strumento, infatti, rappresenta una vera svolta nella politica della Bce: è un modo originale (e sino ad ora mai provato in nessun Paese) per fare sì che la liquidità creata dall’istituto di emissione non finisca, come spesso avvenuto in passato, in una ‘trappola’ e non venga tesorizzata dalle banche per ‘ripulire’ i loro portafogli. La liquidità è, invece, targeted, ‘mirata’ al rifinanziamento di operazioni (investimenti) a lungo termine.
Le aspettative sono grandi in tutta Europa. E non solo. Se lo strumento darà i risultati attesi potrebbe essere replicato in Paesi (ad esempio il Giappone) che hanno sofferto e soffrono di trappole della liquidità. L’asta ha un plafond di 400 miliardi di euro, ma non è detto che si giunga ad utilizzarlo interamente. Le stime parlano di una capacità di ‘assorbimento’ per l’insieme dell’eurozona di 270 di euro (di cui 115-120 alla prima asta ed il resto alla seconda programmata per dicembre). La spiegazione è che dal 2008, inizio della recessione, ad oggi le imprese hanno tentato di fare funzionare (e fruttare) la dotazione di capitale fisso a loro disposizione e non hanno programmato investimenti a lungo termine.
Guardiamo con maggiore attenzione quelle che possiamo chiamare ‘le cose di casa nostra’. Secondo stime della Bce, 75 dei 400 miliardi sarebbero la ‘quota’ potenziale dell’Italia. Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro, ha detto di aspettarsi una richiesta da 37 miliardi da parte delle banche. Altre stime indicano cifre appena inferiori. Occorre chiedersi se le associazioni di categoria (in primo luogo la Confindustria) ed il Ministero per lo sviluppo economico hanno nei loro cassetti ‘progetti pronti’ che il sistema bancario non ha finanziato e potrebbero decollare grazie al T-ltro, quali sono le tipologie, quali i costi ed i finanziamenti necessari. Sarebbe nell’interesse di tutti avere questi dati. In primo luogo, del Presidente del Consiglio. Non per curiosità. Ma per un’esigenza molto pratica. Ove l’Italia mancasse di progetti pronti nei comparti T-ltro, non sarebbe il caso di chiedere alla Bce di ampliare la platea alle infrastrutture, molte delle quali rimaste al palo (anche se cantierabili ) pure dopo lo Sblocca Italia? Auspichiamo di avere presto risposte e se del caso un’azione politica spedita. Non è tempo di piagnistei, come amava ripetere il sindaco di Firenze Piero Bargellini.
L’Europa per ora soffre di “annuncite”

L’Europa per ora soffre di “annuncite”

Alessandro Leipold – Il Sole 24 Ore

Il governo Renzi è tacciato di soffrire di “annuncite”. La critica non è senza fondamento, ma viene da chiedersi: «Da che pulpito?». Se vi è un protagonista che del male soffre è l’Europa. Ne è un esempio la conclamata “svolta di Milano”. Intendiamoci, dei progressi alla riunione informale vi sono stati, grazie anche all’abile lavorìo ai fianchi operato dal ministro Pier Carlo Padoan.

Tra questi vi è il riconoscimento (seppur tardivo) che l’Europa soffre di carenza di domanda. Ne segue che le riforme strutturali da sole non bastano e che ci vuole un rilancio degli investimenti. Qui la novità maggiore è stata l’ammissione da parte tedesca del ruolo che tocca alla Germania. «Abbiamo bisogno di più investimenti in Europa», ha riconosciuto il ministro Wolfgang Schäuble, aggiungendo: «Anche in Germania».

Altra novità è l’attenzione posta al coordinamento delle riforme strutturali, con la riduzione del carico fiscale sul lavoro individuata come «chiara priorità». È il punto di partenza giusto. Buono anche il metodo: per la prima volta sono state usate in modo concreto le raccomandazioni indirizzate dal Consiglio europeo a ciascuno dei Paesi membri. Da una loro lettura è emerso che la riduzione del cuneo fiscale è consigliata a 11 Paesi della zona euro (compresi tutti i maggiori). Logico indicarla come una priorità collettiva.

Fin qui tutto bene. Sorge poi l’abituale abisso tra il dire e il fare. Non si decide di avviare, come sarebbe d’uopo, un’azione di riduzione fiscale congiunta, con un impatto d’assieme assai superiore a iniziative nazionali sparse. Invece di mettersi d’accordo su un “fare” concreto e tempestivo, ci si limita a elencare una serie di “princìpi”. Princìpi che sulla questione critica del finanziamento della riforma ricorrono alla litania dello «scarso spazio fiscale», insistendo che i costi «dovranno essere adeguatamente compensati» da tagli alla spesa o spostamenti ad altre tasse, «in modo da rispettare gli obiettivi di finanza pubblica del patto di stabilità».

Altro che «sfruttare al meglio la flessibilità insita nelle norme esistenti del patto», come annunciato dal Consiglio di giugno. Le «norme esistenti» permetterebbero deviazioni dagli obiettivi prestabiliti per coprire i costi di riforme strutturali che «innalzano il potenziale di crescita». Gli stessi ministri dell’Eurogruppo hanno sostenuto che ridurre il carico fiscale sul lavoro «ha la potenzialità di sostenere i consumi, stimolare l’offerta di lavoro e l’occupazione, migliorare la competitività e la profittabilità delle imprese… contribuendo al buon funzionamento dell’unione monetaria». Eppure neanche in un caso così esemplare si è ritenuto di poter applicare la clausola di flessibilità. Insistere sulla copertura significa evirare lo stimolo della misura. Per l’Italia, poi, significa tarparne del tutto le ali, riducendola a cosa ben modesta. C’è da chiedersi: se non ora, e per una tale «priorità politica», quando mai sarà applicata la flessibilità prevista dal patto per le riforme strutturali?

Anche sul fronte dell’altra “svolta”, quella sugli investimenti, sorgono dubbi. La disponibilità del ministro Schäuble ad aumentare gli investimenti in Germania è sconfessata dai fatti: alcuni giorni prima, ha annunciato al Bundestag il raggiungimento anticipato degli obiettivi di finanza pubblica, e l’intenzione di tenere ferma la barra, ponendo l’avanzo di bilancio come obiettivo perpetuo. Eppure la banca statale KfW ha stimato che la Germania potrebbe investire 150 miliardi in più senza violare le proprie regole. Ma, si dirà, vi è l’iniziativa europea, il pacchetto Juncker di 300 miliardi di euro. Dopo tanti vertici sul rilancio degli investimenti e dopo una serie ininterrotta di iniziative (Europa 2020 in poi), i ministri hanno però ritenuto necessario un ennesimo studio, dando mandato alla Commissione e alla Bei «di presentare un rapporto sulle misure concrete e su progetti di investimento profittevoli». Il presidente della Bei ha subito ammonito che sarebbe bene non nutrire «attese esuberanti» su quanto potrà fare la Banca. Quest’ultima ha regolarmente schivato simili chiamate nel timore di intaccare il rating triple-A. I ministri torneranno a parlare della questione in ottobre, intanto l’Europa langue. Speriamo che almeno qui applichino un’altra norma di flessibilità del patto di stabilità, quella sugli investimenti, permettendo l’esclusione dei co-finanziamenti nazionali ai progetti europei.

Nello stesso modo in cui l’Europa chiede al governo Renzi di mostrare concretezza nelle riforme, così l’Europa è tenuta a trasformare i propri annunci in azione concreta. Altrimenti entrambi potrebbero risultare afflitti da un male comune. Senza però mezzo gaudio alcuno.

Italia in coda a un’Europa depressa

Italia in coda a un’Europa depressa

Giuseppe Turani – La Nazione

Stiamo viaggiando dentro un convoglio che ha il freno a mano tirato e, naturalmente, siamo il vagone di coda, quello che si sta perdendo per strada. Questo è il senso del ‘ultimo rapporto Ocse sull’economia europea. È quasi inutile persino guardare le cifre, tanto sono deludenti.

La crescita europea, nel suo complesso, quest’anno sarà grosso modo quella che in America si ha in un trimestre. Se poi dall’insieme del Vecchio Continente passiamo ai singoli Paesi più grandi le cose cambiano di poco. La Germania ha un po’ più di sprint rispetto alla media, ma siamo sempre in una zona di bassa crescita. La Francia fa un po’ peggio della Germania e l’Italia rischia addirittura di farsi, oltre ai due che ha già fatto, altri due anni di recessione: il 2014 e il prossimo. Perché accade questo? La risposta non è difficile: l’Europa è un Paese chiuso dentro una doppia ingessatura.

La prima riguarda il suo assetto istituzionale e le sue regole di convivenza. È un’area lenta, dove nulla si cambia se non dopo lunghi dibattiti e lunghi scontri con delle burocrazie molto potenti, che hanno il solo obiettivo di rendere tutto ancora più labirintico e complicato. Inoltre, non si può nemmeno escludere che l’Europa tenti di difendere un welfare diventato ormai molto costoso. La cura delle persone (il welfare) è la cosa che distingue l’Europa dall’America, ma forse il suo peso comincia a essere eccessivo.

Il secondo tipo di ingessatura che frena l’economia del Vecchio Continente è quella che si potrebbe definire come “avarizia monetaria”. Negli Stati Uniti, allo scoppio della crisi hanno deciso di non badare a spese e le rotative della Federal Reserve hanno lavorato anche di notte per stampare dollari. È probabile che abbiano anche esagerato, ma alla fine il gigante si è mosso e adesso cresce abbastanza bene. In Europa, come tutti sanno, si è seguita la strada inversa. I tedeschi si sono opposti a usare l’euro (magari stampato in quantità industriali) come medicina per la crisi. Poiché molti Paesi (Italia compresa) avevano già esagerato con i debiti, hanno preteso (e pretendono) che prima si faccia un po’ di ordine: i famosi ‘compiti a casa ‘. Abbiamo cominciato con Monti e stiamo ancora andando avanti, tre governi dopo. Gli altri Paesi non stanno molto meglio però. La Germania respira appena, rispetto alle sue potenzialità, e la Francia se ne sta li con l’acqua alla gola.

La conclusione è molto semplice: i tedeschi volevano un Continente serio e ordinato, con governi molto attenti e responsabili, a loro immagine e somiglianza, ma finora non hanno ottenuto quasi niente di tutto questo. Sono solo riusciti a trasformare un’area in cui vivono più di 400 milioni di persone in una zona depressa del pianeta.